J.T. LeRoy

Ingannevole è il cuore più di ogni cosa

COD: eae27d77ca20 Categoria: Tag:

Collana:
Numero collana:
54
Pagine:
200
Codice ISBN:
9788881123322
Prezzo cartaceo:
€ 13,00
Data pubblicazione:
26-04-2002

Traduzione di Martina Testa

Babydoll, orsetti di peluche, lacrime di pietra, rossetti fiammanti, carbone avvelenato, polvere di cristallo, meteoriti, sangue, metallo gelido. E poi ancora: mutandine con i pizzi, Tampax che assorbono il male, candeggina che lava via i peccati, Bugs Bunny, Peter Pan, fruste, siringhe e bambole. In Ingannevole è il cuore più di ogni cosa la devozione si mescola senza soluzione di continuità alla dipendenza, la preghiera all’allucinazione, la tenerezza allo sfacelo. Jeremiah ha solo quattro anni quando scopre che i suoi veri genitori non sono quelli, amatissimi, che lo hanno cresciuto fino a quel momento: la sua vera mamma è Sarah, una ragazza ancora adolescente che adesso ne ha ottenuto la tutela e che lo coinvolge in una vita nuova, diversa, terribile. Eppure in qualche modo, giorno dopo giorno, Jeremiah accetta le regole che gli vengono imposte, i travestimenti, la vita randagia da uno stato all’altro, nel cuore di un’America marginale, fatta di roulotte fatiscenti e parcheggi per camionisti, ma anche di immense notti stellate nel deserto, fra la disperazione degli spostati che si fabbricano la droga in cantina e la dolcezza materna delle cameriere nei diners. Le avventure di Jeremiah e Sarah, raccontate in prima persona con la voce incantata e ingenua di un bambino proiettato in un mondo a volte magico e a volte orribile, formano uno straordinario romanzo a episodi che non ha eguali nella letteratura contemporanea per intensità lirica e forza stilistica. Con Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, J.T. LeRoy è stato consacrato il migliore scrittore americano della sua generazione. Come ha scritto un critico alla pubblicazione del libro negli Stati Uniti, forse nessun altro autore vivente sa rendere quanto LeRoy la grazia angelica di un bambino di fronte al mondo, nessuno quanto lui sa trasformare il dolore in bellezza e dolcezza.

«La prima volta che lo incontrai aveva 15 anni e viveva per strada. Ovunque andasse si portava dietro un fax, lo collegava nei posti più strani e mi spediva fax in continuazione. Per anni ho pensato che potesse morire da un momento all’altro».
Dennis Cooper

«La scrittura di JT LeRoy è selvaggia, autentica e di una bellezza terrificante».
John Waters

«Ingannevole è il cuore più di ogni cosa mi ha fatto perdere la testa».
Bono Vox

«Magico comico, nero, indimenticabile».
Suzanne Vega

«Ingannevole è il cuore più di ogni cosa è un libro affascinante, che rimescola istantaneamente le emozioni e coinvolge i lettori nella vita dei personaggi. L’aspetto più straordinario del libro è che si viene catturati dalle circostanze e dalle vite dei personaggi e si rischia di lasciarsi sfuggire la qualità della scrittura, che è eccezionale. Uno dei motivi per cui il libro è così potente ed efficace è il modo bellissimo in cui è strutturato e scritto».
Hubert Selby, Jr.

«Potente. LeRoy riesce a trattare in modo semplice le emozioni più complesse e a descrivere, senza traccia di odio o autocommiserazione, le gesta più efferate».
«Newsweek»

«Il linguaggio di JT Le Roy è lirico e vivido come un fiammifero acceso davanti al viso».
«New York Times»

«LeRoy ritrae i suoi personaggi malati con la dolcezza di Jean Genet, e descrive i loro atti di sadismo e auto mutilazione con la spietatezza di A. M. Homes. Eppure le storie evitano di cadere in una spirale di mero sensazionalismo. L’opera di LeRoy rappresenta un incredibile traguardo nella sua crescente maestria della forma letteraria».
«Publishers Weekly»

INGANNEVOLE È IL CUORE PIÙ DI OGNI COSA – RECENSIONI

 

Benoit Sabatier, TECHNIKART
– 01/04/2008

 

Leroy est mort

 

 

 

Nathaniel Rich, VANITY FAIR
– 19/10/2006

 

Io che ero il vero J.T.

 

 

 

Luca Mastrantonio, IL RIFORMISTA
– 16/01/2006

 

Gira, gira, il conformista di sinistra finisce sempre lì

 

 

 

Stefano Salis, IL SOLE 24 ORE
– 15/01/2006

 

Non sono io l’autore. Gli strani casi di J.T. Leroy e Frey

 

 

 

Luca Mastrantonio, IL RIFORMISTA
– 11/01/2006

 

L’ingannevole Leroy è come Geronimo Stilton: pupazzo da milioni di copie

 

 

 

Andrea Barolini, L’UNITÀ
– 11/01/2006

 

Travestimento o inganno: ma chi è davvero J.T. Leroy?

 

 

 

Loredana Lipperini, LA REPUBBLICA
– 11/01/2006

 

L’identità perduta di J.T. Leroy

 

 

 

A.F., METRO
– 11/01/2006

 

Giallo Leroy. Lo scrittore cult non esiste

 

 

 

Mario Baudino, LA STAMPA
– 10/01/2006

 

“E’ un uomo, giocava a calcio con noi”

 

 

 

Lester People, GAZZETTA DEL SUD
– 11/01/2006

 

J.T. Leroy, chi era costui?

 

 

 

Do. Tro., IL MATTINO
– 11/01/2006

 

Leroy: “Hosempre detto che non so chi sono davvero”

 

 

 

LA NUOVA SARDEGNA
– 11/01/2006

 

J.T. Leroy è uno scrittore fantasma?

 

 

 

Francesco Gnerre, BABILONIA
– 03/09/2002

 

Ingannevole é il cuore più di ogni altra cosa

 


J.T.Leroy è nato nel 1980, ha pubblicato due anni fa, all’età di vent’anni, il suo primo romanzo, Sarah, dove raccontava, con innocenza e crudeltà, il suo lavoro di “truck-stop whore” (puttana per camionisti) sulle orme della madre, di cui aveva perfino assunto il nome. In questo secondo romanzo risale più indietro nel tempo e racconta, in dieci episodi, l’inizio della sua terribile avventura, quando, strappato ai genitori che lo hanno preso in affidamento, all’età di quattro anni, comincia una vita di orrori e di degrado. Si prostituisce ancora bambino, si droga, subisce uno stupro da un cliente della madre che lo presenta a volte come un fratellino a volte come una sorellina, è costretto alle azioni più umilianti. E al di là dell’universo materno non lo aspetta un mondo migliore. Quando si sveglia sanguinante in ospedale, dopo essere stato stuprato, gli infermieri, i medici, i flash dei fotografi, i poliziotti non gli appaiono certo più rassicuranti (“Dobbiamo mettergli i punti, vi manca molto?” Un altro flash. Il poliziotto che blocca la porta, ancora col bicchiere in mano, tiene l’altra mano sulla pistola. Urlo di nuovo. “Infermiera, le cinghie”). Anche il periodo che vive con i nonni, fondamentalisti ossessionati dall’idea del peccato, aridi e severi con i loro salmi e le loro preghiere, è solo l’altra faccia della violenza che vive con la madre. Da esperienze così traumatiche possono nascere mostri e non scrittori e invece miracolosamente Leroy ha scoperto che le parole possono aiutarlo a esorcizzare i suoi fantasmi e che la scrittura può dare un senso alla sua vita.
Il fascino di questo libro, come e più del precedente, sta nel miscuglio di crudeltà e innocenza, nell’ingenuità e nella tenerezza con cui il giovane scrittore sa coprire l’orrore, un orrore che sembra impresso anche sul suo corpo.
Nel giugno scorso, in una delle serate del Festival Internazionale “Letterature” organizzato a Roma , J.T. Leroy è apparso in pubblico: minuto, protetto da una grande visiera che nascondeva buona parte del volto, sessualmente indefinibile, impaurito, forse drogato. Con voce flebile ha letto un suo racconto inedito, Harold end. E vedendolo di persona, così piccolo e tremante, si percepisce tutta la sua fragilità, si capisce che sta facendo uno sforzo enorme per vincere il panico che lo attanaglia e si ha l’impressione che anche l’acclamazione del pubblico, che lo applaude come una rock star, è forse vissuta come un’altra forma di violenza.

 

IL TEMPO
– 16/11/2002

 

Le sensazioni estreme attorno al cuore e ai suoi inganni

 

E’ difficile fare a meno di notarlo, il libro di JTLeRoy. Tra pile di altri libri la copertina è un flash che va a imprimersi senza mediazioni sullo sguardo di chi indaga tra gli scaffali. Uno sfondo rosso vermiglio, una barbie in mutandine con gala di pizzo che si appoggia mollemente a uno di quei bottiglioni di plastica di colore latteo e dalla forma inequivocabile. Sul flacone si leggono quasi distintamente le istruzioni per l’uso. Acido, solvente, detersivo speciale… Lo saprete solo accettando di lasciarvi trasportare oltre la copertina, assaporando le lusinghe delle lunghe gambe artificiali di una bambola dalle forme di pin up, testimone sorridente e silenziosa dell’infanzia di milioni di teenagers di qualsiasi latitudine.
Se vi metterete in gioco attraverso una lettura non facile e mai scontata, Geremia, il protagonista di questo incantevole viaggio dell’orrore, vi prenderà per mano e vi condurrà pagina dopo pagina alla scoperta di una scrittura viscerale, esplosiva, senza risparmiarvi nessuna delle sensazioni estreme che formano il tessuto connettivo della narrazione. Chi non tenesse dietro lalla scrittura può sempre decidere di non arrivare alla fine.

 

Diletta Pavesi, STRADANOVE.IT
– 01/12/2002

 

Il bel romanzo di LeRoy tocca i vertici del capolavoro.

 

INGANNEVOLE È IL CUORE PIÙ DI OGNI COSA
Il bel romanzo di LeRoy tocca i vertici del capolavoro.
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LIRICO E SCONVOLGENTE, IL NUOVO ROMANZO J.T LEROY TOCCA I VERTICI DEL CAPOLAVORO.
Il suo è un universo a volte magico, a volte orribile,a volte terrificante come solo può essere il buio negli anni della prima infanzia, a volte doloroso come solo può essere un abbandono improvviso. La sua America è un’altra America, marginale, fatiscente, fatta di roulotte sgangherate, diners e parcheggi per camion, ma anche di immense strade che attraversano il deserto nella notte e sembrano condurre verso un sogno impossibile di libertà e cambiamento.
La sua umanità è un’ umanità alternativa, di prostitute bambine, camionisti violenti, cameriere dal cuore d’oro, spostati che si fabbricano da soli la droga, e più in lontananza, sullo sfondo, di una galleria di infermiere e assistenti sociali che arrivano sempre troppo tardi.
Dopo “Sarah” fulgido capolavoro d’esordio,il ventunenne J.T LeRoy ci offre, con il suo secondo romanzo “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa”, un nuovo squarcio del mondo in cui egli stesso è cresciuto tra droga e prostituzione. Mai come in “ingannevole è il cuore più di ogni cosa” il dolore riesce a mescolarsi con la bellezza, la preghiera al panico, lo squallore più deprimente alla tenerezza.
Jeremiah ha solo quattro anni quando improvvisamente viene strappato dagli amatissimi genitori , che lo hanno cresciuto in un ambiente felice e protetto, da Sarah una giovanissima prostituta, che si professa sua vera madre e che ora lo reclama. Al fianco di Sarah e di un inseparabile peluche di Bugs Bunny, inizia per Jeremiah un viaggio magico e doloroso nel cuore dell’America, che la lingua di LeRoy ci consegna , donandogli sfumature di grazia infantile e dolcezza.
Ed è proprio qui che sta la grandezza del romanzo, nella capacità dell’autore di rendere, in modo lirico e vibrante, senza accenti di rabbia, lo sguardo ingenuo e incantato di un bambino dinnanzi al mondo e ai suoi abissi.
Questa storia autobiografica non è solo quella di un’infanzia profanata con allucinante violenza, è anche la storia del rapporto fra una madre e un figlio, un rapporto vischioso, fatto d’amore, sangue e attaccamento. Lei lo trucca e lo veste da bambina, sostenendo che è più facile affrontare il mondo se si è in due ragazze e lui, dal canto suo, nel tentativo di conquistarne l’affetto, le lecca le ferite, ascolta i suoi deliri e inizia in maniera via via sempre più scoperta a volersi calare nella sua identità femminile.
Ed è anche la storia degli incontri che costellano il viaggio dei due protagonisti, incontri con i clienti della madre, violenti, temibili, grotteschi e con infinità di bambini dagli occhi spenti, abbandonati nei fast-food e nei centri di igiene mentale.
Le pagine di LeRoy comunicano una disperazione senza fine, ma al tempo stesso sono anche attraversate da una tale ansia d’amore e di sostegno umano, che ogni attimo viene così portato a un livello di trasparenza e d’incanto in cui è impossibile non perdersi.
Un volto adolescenziale sempre nascosto al mondo, una fragilità fisica propria del corpo di una ragazza, J.T LeRoy è sicuramente oggi il migliore scrittore americano della sua generazione e, intervistato sui motivi che lo spingono a scrivere, risponde che per lui i suoi libri sono una forma di aiuto verso sé stesso e di guarigione.
In lui c’è un grande dolore ma possiamo dire che fortunatamente c’è anche un grande talento per esprimerlo.

 

Alda Teodorani, BLU
– 12/09/2002

 

Ingannevole è il cuore più di ogni cosa

 

Non bisogna lasciarsi sfuggire Ingannevole è il cuore più di ogni cosa di J.T.Leroy. Lo deve leggere soprattutto per chi pensa che il sesso non possa ferire. Per chi non lo conosca dirò che J.T. Leroy è molto giovane (ha 22 anni) e io sto parlando qui del suo secondo romanzo (il primo, Sarah, è stato anch’esso pubblicato in Italia da Fazi).
Al di là delle cronache mondane, al di là delle lacrime di sangue dell’autore, dei suoi giganteschi occhiali, delle parrucche, del suo modo di presentarsi in pubblico, resta il romanzo: una narrazione secca, senza fronzoli, in prima persona, ci conduce sulla strada del piccolo J.T. conteso tra la madre (giovanissima tossicodipendente e prostituta) e il nonno materno (pastore che, per lavare i peccati dei suoi giovani allievi, li ficca a bagno nella candeggina) bollente. Quando è con la madre, J.T. riceve le attenzioni sessuali e le punizioni degli occasionali amanti di lei e subisce le sue follie; insieme al nonno percorre la strada della purificazione. E’ un calvario percorso interamente nella più totale nudità, senza nessuno che lo aiuti.
Da questa infanzia allucinata, da queste ferite, è nato uno dei più notevoli scrittori del momento. Non so se LeRoy guarirà mai le sue ferite, libero finalmente dal suo passato, se scriverà senza l’urgenza di doversi raccontare. Se ci riuscirà potrebbe diventare uno dei più grandi scrittori del nuovo secolo. Tenetelo d’occhio.

 

 

Cristiana Lamanna , LIBRERIA.IT
– 31/07/2002

 

Ingannevole è il cuore

 

Seconda opera di J.T.Leroy. “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” può essere considerato il giusto proseguimento di un discorso cominciato con “Sarah”, romanzo d’esordio del ventiduenne scrittore americano, da cui Gus Van Sant sta traendo un film di prossima uscita. Nella sua ultima fatica editoriale, Leroy racconta la storia di Jeremiah, quattro anni e di sua madre, Sarah, diciottenne ancora immatura e per nulla conscia di cosa significa crescere un bambino. Leroy con una prosa incisiva, mai pedante, ma anzi asciutta e a tratti cruda e terribilmente angosciante ci fa entrare nel mondo del piccolo Jeremiah, costretto a seguire la madre nelle sue scellerate peregrinazioni, spesso anche mentali. Si avvicinerà alla droga, sperimenterà la fame, la violenza, i soprusi e conoscerà i nonni, convinti sostenitori dell’efficacia di un’educazione rigida e fortemente religiosa. Il piccolo protagonista, dapprima spaventato da ciò che gli si prospetta, finirà con l’accettare tutto quello che gli capiterà adattandosi alla vita allucinata che sarà costretto a vivere, fino a giungere ad un finale catartico che lo stesso Jeremiah in cuor suo avrà auspicato…

 

 

Tommaso Ottonieri, CARTA
– 01/08/2002

 

L’odissea americana del cuore di LeRoy

 

Che cosa è in arte (in letteratura, nel caso) una vocazione? cioè da quale forza, da quale voce indifferibile inattesa, accade che si possa essere chiamati all’espressione, come emergendo da un cunicolo scavato lungo il midollo di una cecità di cui non si era immaginata via d’uscita? E al cospetto, allora, di quale entità (di quale crudeltà), si è convocati – quale inedita tremendissima qualità di rito si è chiamati a officiare, in quel tempo che la vocazione si è adempiuta – ogni volta, iniziandosi all’esprimere, come se fosse la prima volta – scrutando nell’incandescenza d’un buio il cui punto di fuga non potrà essere noto che al termine di ogni suo attraversamento?
J.T. (battezzato Jeremiah, nominato ‘Terminator’) LeRoy, ad esempio. Ventiduenne del Sud, West Virginia, subito esploso con due libri pazzeschi (il primo, Sarah, pubblicato a nemmeno venti; il secondo, scritto anche prima), d’una intensità e pienezza di scrittura che travalica le ribattiture/riverniciature di qualsiasi editor immaginabile (le quali pure, a leggere le sue pagine di così ricca e strana e mozzafiato perfezione, e ad auscultare la tempistica ineccepibile, impietosa dei suoi montaggi, non si può fare a meno d’immaginare al lavoro): per grazia (assoluta/dissonante forma di grazia) d’una presa di parola che, per poter salire alla luce, ha dovuto fendere lo spessore di oscurità abissali, compatte come una colata di panna acida mista a ketchup e sciroppo d’acero sopra un agglomerato di corn flakes, al tavolino dell’autogrill più ottuso e senza speranze – ha dovuto mesmerizzarsi su ogni scheggia di meteorite in avvicinamento, giusto verso il sommo della fronte, steso orizzontale lungo il cuore depresso della Death Valley, a cuneo tra i fantasmi dei cercatori d’oro morti di sete e dei motori pazzi di Charles Manson e dei milioni di neon di Las Vegas sflashati, strobo, svenendo ovunque, dritto sugli occhi.
Stralcio, più o meno, queste immagini da Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, il suo secondo libro ma anche, per stesura, il suo primo. Il titolo – uno dei più potenti fra i titoli-frase che costellano le ultime narrative – è un versetto biblico, dal libro – appunto – di Geremia; e la materia prima del romanzare di JT (che scritto così come lui lo scrive dà qualcosa come ‘It’, allude a un’identità di ‘genere’ inquietante e non precisamente definita), questa materia non è altro che l’autobiografia-limite di lui, la sua memoria di una violazione irrimediabile, subita da un tempo primario e fondante. Jeremiah strappato a quattro anni al limbo dorato costruitogli intorno da premurosissimi genitori adottivi, e catapultato in un’odissea americana senza termine, selvaggia come un’incubo ad alta temperatura, a ruota degli sbandamenti della madre, Sarah, pazzissima e bambina, magnetica burrascosa evanescente, “lizard” (cioè, diremmo noi, “lucciola” da parcheggio camion) che finirà per avviare alla vita – e alla dipendenza – lui stesso ultraminorenne, già pluristuprato peraltro dagli occasionali uomini di lei (lui, quando comincerà a battere ragazzino, deciderà di prendere lo stesso nome della madre…); o, alternativamente, affidato alle cure del nonno predicatore fondamentalista, scrupoloso praticante di “correzioni” degne del più esclusivo dei club sadomaso, che a suon di frustate e amenità del genere gl’insegnerà a mandare bene a mente le Sacre Scritture. – “L’unico modo di ricevere amore da mio nonno”, ricorda lui, intervistato, “l’unico modo di essere toccato da lui, era essere punito, e spesso era così anche con la mamma. E quando ci cresci con questo tipo di cose, l’idea di essere picchiato sembra dolce”. Insomma (a dirla ancora con JT) non c’è che dire, proprio un “bel casino”. Nell’ultimo episodio, Nacoma Street, ritroviamo Jeremiah adolescente, al termine di questa disastrante educazione sentimentale, sul fondo di un seminterrato accessoriatissimo di ammennicoli sadomaso, che negli spasimi d’un atterrito desiderio, si appresta a farsi massacrare, un po’ come l’indiano di Johnny Depp alla stanza dello snuff movie, nella terribile, terminale elegia di The Brave.
A un certo punto del romanzo, la voce di Jeremiah piccolo non ancora rinata in Terminator (“Quando ero sulla strada, gli altri ragazzi mi avevano dato quel nomignolo apposta per prendermi in giro, perché è proprio il contrario di come sono, fuori e dentro”: ma Terminator sarà poi per lui il nickname nelle prime apparizioni in internet, fra gruppi di chat e narrazioni in proprio) viene riprodotta ‘en abyme’ dal giovane autore, in quello che possiamo immaginare, miticamente, come un embrione di vocazione: “Nel mio blocchetto ho scritto cinque parole su ogni pagina. Mentre viaggiavamo scrivevo racconti, ma mettendo solo una parola ogni tanto, così quando Sarah me lo prende […] non saprà il codice, non saprà la storia e non me la potrà portare via”; quasi che una voce non potesse prendere vita se non dalla medesima sua cancellazione. La cartuccia per una pianola meccanica, trapassata da una ricamatura di buchi. L’urgere (ustorio) d’una forma che “come un fiammifero acceso davanti al viso” (così il “New York Times”) viene in luce dai suoi vuoti, dal suo stesso incomunicabile segreto, dalla luminescenza del suo fantasma di fuoco, traforandosi per intero in qualcosa come un piercing senza termine.
La scrittura, quella che in modo improprio, e persino un po’ loffio, usiamo chiamare “creativa”, nascerà infine – questo ci narra il mito – come pratica terapeutica, ‘commissionata’ dal suo stesso analista, Terrance Owens (a cui Ingannevole è debitamente dedicato…), a uso di un corso post-laurea per aspiranti psicoterapeuti; JT apprenderà il potere dello scrivere (e lo scrivere come potere… “Mi piaceva l’idea di avere un po’ di potere […] ho cominciato a dipendere dai loro commenti”, ricorda lui… e nel romanzo: “Chiudo gli occhi e assaporo la sua attenzione come un soldato fermo in piedi su una mina davanti al resto del battaglione”) e così l’uso estetico della verità (cioè della sua ingannevolezza…): e apprenderà, infine, la dipendenza ad esso, quasi un catartico e non meno ossessionante, terminale additivo, quasi una specie insicura di dominio in cui “le parole si sciolgano nelle mani”. Cioè, “come accendere la luce”, dirà (in intervista), “e vedere gli scarafaggi che corrono da tutte le parti”. Oppure (qui un’immagine ancora da Ingannevole), “come se avessi lanciato un palloncino pieno d’acqua da un tetto e restassi a guardarlo, senza poterlo fermare, mentre precipita su una strada affollata”.
È qui che, incontrata una vocazione, tutto il vissuto (il suo dolore) può affabularsi rettificandosi in ‘finzione’: cristallizzandosi nel vivo della visione – quasi un processo alchemico, o semplicemente animale, da cui dipenda la possibilità stessa di sopravvivere alla sostanza traumatica a cui si soggiace: o di offrirsi in sacrificio, per intero, ad essa; conversando con Tom Waits (che come un buon re magio ha voluto rendergli omaggio intervistandolo per “Vanity Fair”), JT ricorda lo scarabeo meraviglioso, con cui si fanno gioielli solo a dargli del filo d’oro. “Beh, credo che in realtà se lo mangi e poi lo caghi fuori. Diventa un gran bel gioiello”.

 

 

Giampiero Cinque, GIORNALE DI SICILIA
– 07/07/2002

 

NOVITA’ IN LIBRERIA

 

La memoria di Jeremiah, un bambino di quattro anni, è colma di cose buone; il profumo dolce della mamma, i regali chiusi nel primo cassetto, l’amorevole baby-sitter. Ora è cambiato tutto. Un’altra mamma senza profumo né parole dolci, quella vera, è venuta a riprenderlo e lo ha portato con sé per le strade di un’America con poca ricchezza e tenerezza dove lei vive di molti uomini e molti espedienti. Fusione magistrale di dolore e dolcezza nel secondo romanzo di uno scrittore poco più che ventenne che già al suo esordio ha conquistato milioni di lettori.

 

Maria Laura Giovagnini, OGGI
– 21/06/2002

 

JT LeRoy non è un extraterrestre ma un ragazzo in cerca d’amore

 

New York (Stati Uniti), giugno –
E’ così perfetto come scrittore ‘maledetto’ che molti al suo debutto hanno
pensato fosse una creazione del marketing: androgino, si presenta
rarissimamente in pubblico, e comunque sempre travestito; viene idolatrato
da
rockstar toste (Bono, Tom Waits, Courtney Love; i Garbage gli hanno persino
dedicato una canzone, Cherry Lips); narra episodi talmente tremendi che uno
si chiede “Come avrà fatto a inventarli?”. Semplice (e drammatico): non li
ha
inventati. E di maledetto JT LeRoy non ha nulla, se non la maledetta
sfortuna
di avere avuto un’infanzia simile. Quando nel primo libro Sarah (pubblicato
a
vent’anni, nel 2000), parla del dodicenne Cherry Vanilla e del suo sogno
(travestirsi e diventare una prostituta famosa in Virginia gareggiando con
la
madre Sarah, appunto), c’è molto di autobiografico. Per non parlare dei
racconti appena usciti da Fazi Editore. In Ingannevole è il cuore più di
ogni
cosa
, da un versetto biblico di Geremia, compare un bambino strappato ai
genitori adottivi e restituito a una madre che lo porta con sé mentre va coi
‘clienti’ o si inietta eroina; un bambino picchiato dal nonno; un bambino
vittima di abusi…
Ma lasciamo a lui la parola: sul palco è reticente, come sa chi lo ha da
poco
applaudito a Roma al Festival della Letteratura, in compenso nelle
interviste
si apre, purché siano per telefono o per e-mail (il suo indirizzo è nel sito
www.jtleroy.com)

“Sono stato allontanato da mia madre appena nato: era solo quattordicenne.
Ho
vissuto in una famiglia normale fino a quattro, cinque anni: cercarono di
adottarmi ma la mamma, ormai maggiorenne, fece causa per riavermi. E vinse.
Però era troppo giovane e tenermi con sé a volte la stressava: ogni tanto mi
davano di nuovo in affidamento o mi mandavano dai nonni, in Virginia. Mio
nonno era un predicatore e mi educava religiosamente, soprattutto con lo
studio della Bibbia. Poi mamma tornava e ripartivamo: dormivamo dappertutto,
in macchina, in camion, in albergo. Mia madre aveva una teoria: se
incontrava
un uomo, lui si sarebbe sentito sfidato da un figlio maschio. Con una
bambina
o una sorella, sarebbe stato più semplice: così mi faceva travestire e il
concetto di identità sessuale era piuttosto incerto. Come è stato? Un caos,
benché allora non me ne rendessi conto: a dodici anni ero un animale
selvatico. L’unico modo di ricevere amore da mio nonno, l’unico modo di
farsi
toccare da lui era essere punito. E spesso capitava pure con la mamma.
Quando
cresci con questo tipo di esperienze, l’idea di essere picchiato sembra
dolce. Mi hanno proprio incasinato: ancora oggi mi viene voglia di farmi
frustare o di farmi male. Di bruciarmi, di tagliarmi. Prima lo facevo
davvero, ora ho smesso.

Dopo aver tanto girato, ci siamo fermati a San Francisco: mamma se ne è
andata per sempre, io sono rimasto lì perché avevo incontrato un terapeuta.
Il dottor Terrence Owens mi ha aiutato a rimettermi in sesto, per quanto
possibile: facevo una seduta al giorno e trascorrevo periodi in ospedale. Ho
lavorato parecchio con lui per capire la mia natura: a volte mi va di uscire
vestito da ragazzo, a volte da donna. Ecco il motivo per cui, se appaio in
pubblico, ho bisogno di proteggermi: non voglio mostrare su un palcoscenico
o
davanti a una telecamera la fatica che faccio per capire chi sono!
A 15 anni lo ‘psico’ mi chiese di scrivere qualcosa per gli aspiranti
analisti cui insegnava. Lui sapeva quanto odiassi quel genere di persone e
mi
ha convinto dicendomi che avevo l’occasione di educarli offrendo loro della
materia vera. “Quando ho cominciato, qualcosa in me si è mosso. Scrivevo a
mano, facevo le fotocopie e le portavo al mio strizzacervelli in tempo per
la
lezione del lunedì: ascoltavo quel che ne pensava la classe. Mi ha sorpreso
scoprire quanto mi piacesse. “Ero già un grande lettore e l’autore che
preferivo era Dennis Cooper: mi riconoscevo nei suoi adolescenti smarriti.
Ho
mosso mari e monti per conoscerlo: mi ha invitato a leggergli le mie cose e
mi ha incoraggiato. Adesso siamo amicissimi.
“Mi hanno presentato la poetessa Sharon Olds e, da quel momento, il
desiderio
di entrare in relazione con scrittori ha cominciato a essere più forte di
quello della droga. A 17 anni, quando mi hanno offerto il primo contratto
per
un libro, mi facevo ancora: grazie alla terapia ho smesso.

“Per due anni mi sono bloccato: mi sentivo come una che volesse diventare
ballerina e non avesse le gambe. Mi sono limitato ad articoli giornalistici.
Usavo come pseudonimo Terminator, una specie di coperta di Linus: era un
soprannome datomi da alcuni ragazzi per prendermi in giro, visto che sono
l’esatto contrario, ma mi faceva sentire protetto. Dopo la ‘crisi’, la prima
cosa che ho scritto è stata Sarah. L’ho partorito direttamente dal cuore:
non
c’era niente di premeditato e spesso non sapevo dove stessi andando”.
Nei libri di LeRoy colpisce la mancanza di rabbia o di autocommiserazione…
“I bambini vengono molestati, fatti prostituire, picchiati e violentati. Se
ti è capitato, l’esperienza può coesistere con l’innocenza, con la dolcezza.
Se uno nasce senza gambe, non è in grado di provare gioia o avere senso
dell’umorismo a causa del danno?”.
Il successo, almeno, compenserà un po’ ‘il danno’…
“Un tempo me lo aspettavo ma, con l’entrata del libro nella classifica dei
best seller, niente è cambiato: ero ancora nella mia pelle a odiarmi. Non
c’è
nulla che mi aiuti tranne il lavoro interiore con l’analista. Se me ne
stessi
là fuori a beccarmi gli applausi, ci metterei un attimo a tornare alla
droga.
Nel profondo ho ancora un bisogno enorme delle attenzioni non ricevute da
piccolo, e gli applausi non potranno mai colmare quel vuoto”.
Gli applausi, comunque, non mancheranno. JT sta lavorando a un nuovo libro e
a una serie televisiva, ha appena terminato una sceneggiatura prodotta da
Diane Keaton e da Gus Van Sant (il regista di Good Will Hunting e Finding
Forrester), che prepara anche un film tratto da Sarah.
“Per la parte vorrei Russell Crowe. Sì, mi rendo conto che ha più di dodici
anni. Ma dei muscoli così io non li avrò mai!”.

 

 

Alda Teodorani, IL PICCOLO
– 23/06/2002

 

LeRoy: una mitragliata di poesia

 

Non ho mai letto nulla di così sgradevole (intendiamoci, sgradevole non nella lettura, ma nei fatti narrati) e potente allo stesso tempo. Sto parlando del secondo (e ultimo) libro di J. T. LeRoy, «Ingannevole è il cuore più di ogni cosa» (Fazi editore), in cui un protagonista bambino viene strappato dalle braccia dei genitori adottivi per essere restituito alla madre, prostituta, tossicodipendente, ninfomane e, come se non bastasse, affetta da gravi turbe della personalità. Su tutti i disturbi psichici di madre e figlio incombe la minacciosa figura di un padre-nonno, sadico e religioso (binomio esplosivo).
È dalla madre che il protagonista Jeremiah impara la poesia e la dolcezza della tortura, il piacere di essere preso a cinghiate dagli amori occasionali di lei, il dolore e l’apprensione per la sua indifferenza, il terrore di essere abbandonato, fino a un punto di non ritorno, fino alla consapevolezza che, per evitare di perdersi e arrivare a salvarsi, c’è una sola strada da percorrere, un unico gesto da fare (trovo solo un precedente esempio di descrizione dell’amore per la sofferenza che sia altrettanto bello – pur se meno sofferto e sanguigno e probabilmente più professionale – e cioè «Crash» di Ballard).
Questo libro è un incantevole affresco della vita interiore di madre e figlio, di un legame indissolubile, per quanto i due cerchino di scioglierlo. Ma «Ingannevole è il cuore» non è solo questo: è pure uno straordinario «on the road» che racconta dell’America e delle sue passioni, ma anche della sua povertà, una povertà interiore.
Il linguaggio di LeRoy è secco, sincopato, estremamente visionario; l’autore ha un raro potere di condurre le descrizioni: pochi dettagli bastano a renderci impeccabilmente una scena, ma poi le stesse descrizioni vengono sospese e alleggerite, fino a diventare poesia. Le sue frasi sono mitragliate, non si diluiscono mai, e sono accompagnate a una maniera di narrare pressoché inedita: i ricordi sono sempre spezzettati, per quanto siano importanti, per quanto abbiano contribuito alla formazione del carattere e alle esperienze della vita, si rincorrono nel cervello senza un legame apparente.
È da questi ricordi, narrati esattamente nello stesso modo in cui nascono, in maniera frammentaria, affastellata, costruzioni dentro costruzioni nel bel mezzo di una azione, che apprendiamo della vita del giovane protagonista e di come si faccia strada in lui, lentamente, il piacere di essere torturato e l’odio contro quello che lui chiama «coso», in una paradossale volontà di identificazione nella figura materna, che è stata a sua volta torturata. L’amore è troppo fragile, sembrano voler urlare insieme il giovanissimo protagonista (nella scena finale ha sicuramente meno di 15 anni) e il giovane autore (nato nel 1980). Di sicuro LeRoy merita di essere ai vertici delle classifiche, lo meriterà ancor di più quando riuscirà (se mai potrà farlo) a chiudersi fuori dal suo cuore e vedere le vicende da un altro punto di vista; più depurato.
Resta solo un piccolo commento: se questo libro fosse stato scritto da un autore italiano, son sicura che una casa editrice italiana avrebbe avuto dei grossi problemi a stamparlo o probabilmente non lo avrebbe mai pubblicato. A volte è una fortuna nascere americani…

 

 

Giulio Brusati, L’ARENA DI VERONA
– 25/06/2002

 

La vita urlante di J. T. LeRoy

 

 

A 22 anni è considerato il nuovo fenomeno della letteratura Usa

Ci sono posti al mondo in cui nessuno sente urlare i bambini, luoghi dove la violenza e i soprusi cancellano l’innocenza, dove parole come madre e padre sono ferite che sanguinano e la sessualità è mortificata da un’educazione sadica. È stupefacente come l’arte, in particolare la scrittura, possa nascere da luoghi così.
È bellezza costruita sulle macerie dell’anima; vita urlante, trasposta nei segni silenti di una pagina.
Con un’infanzia devastata alle spalle e un’adolescenza passata tra prostituzione, violenze e droga, J.T. LeRoy, a 22 anni appena, è considerato il nuovo fenomeno della letteratura americana. Dopo una serie di racconti firmati con lo pseudonimo Terminator, ha scritto due romanzi, «Sarah», pubblicato nel 2000, e «Ingannevole è il cuore più di ogni cosa», edito lo scorso anno (entrambe le opere sono uscite in Italia per i tipi della Fazi editore).
I suoi romanzi sono diventati un caso letterario negli Stati Uniti e in Inghilterra, rimanendo per diverso tempo nelle classifiche dei libri più venduti.
J.T. deve la sua fama anche all’accoglienza straordinaria che gli ha riservato il mondo del rock e del cinema. Tom Waits lo ha intervistato per Vanity Fair, tessendone le lodi; la rock band Garbage ha scritto per lui una canzone, «Cherry Lips (go baby go!)»; Suzanne Vega e Bono degli U2 si sono dichiarati suoi ammiratori, mentre il regista Gus Van Sant ha intenzione di girare un film tratto da «Sarah». Alla notorietà del giovane scrittore ha contribuito l’alone di mistero che circonda ancora oggi la sua persona. Qualcuno è arrivato a ipotizzare che neanche esistesse, nome-schermo utilizzato da un autore famoso. L’incertezza è aumentata quando LeRoy ha cominciato ad apparire in pubblico. Parrucca bionda, labbra femminili truccate, nessun pelo sul volto, un fisico esile, femmineo, portato con grazia adolescenziale su gambe magre.
La confusione sessuale, inquietante dal vivo, diventa urticante nelle opere.
Per capire «Sarah», storia di un ragazzo dodicenne, prostituta bambina dal sesso incerto, tra parcheggi di camionisti, alcool e droga di poco prezzo, bisogna affrontare «Ingannevole è il cuore…», la storia di LeRoy dai quattro anni alla fine dell’adolescenza.
Come in una discesa agli inferi, tra De Sade e il Salten di «Josefine Mutzenbacher», il piccolo Jeremiah viene strappato ai genitori adottivi, consegnato alla madre naturale, appena diciottenne e periodicamente affidato al nonno, fanatico religioso e sadico.
Il carattere costante dei continui spostamenti di J.T. è la violenza delle persone che gli stanno accanto. In un’educazione sentimentale (anzi, fallimentare) che passa dalla negazione del proprio sesso allo stupro e alla confusione dei generi, Jeremiah impara l’amore nell’unica forma per lui apprendibile. La cinghia del nonno, le mani pesanti degli amanti della madre e i pugni di lei, lo spazzolone dello zio, le fruste, le lame e le unghie: sono questi gli unici contatti fisici che J.T. ha con gli altri esseri umani, gesti che il suo cuore ingannevole traduce in atti di amore.
Parabola straziante, non priva di momenti di umorismo nero, «Ingannevole è il cuore…» è una presa di coscienza notevole per spessore linguistico e capacità espositiva. Un analista ha convinto LeRoy a iniziare a scrivere ma J.T. aveva già in sé questo dono (il racconto dei suoi sotterfugi per poter scrivere all’insaputa della madre è emozionante come l’episodio del canto di Ulisse in «Se questo è un uomo»). Vederlo ballare come migliaia di altri ragazzi, a un concerto dei Garbage, fa ben sperare sul suo futuro. Dalle sue pagine si avverte il talento di un grande scrittore. Sarebbe un peccato, ora che è uscito allo scoperto, perderlo.

 

Bia Cesarini, IL SECOLO XIX
– 04/06/2002

 

Leroy, il terrore di stare tra la gente

 

 

Da questa sera nessuno potrà più dire che J.T. Leroy non esiste. L’autore di “Sarah” e “Ingannevole è il cuore sopra ogni cosa” (entrambi pubblicati da Fazi), lo scrittore che è diventato subito una leggenda pop, come di rado succede a chi scrive, il ragazzo dalla vita terribile che si racconta nei suoi libri ma che rifugge dai contatti diretti, alle 21 si mostrerà al pubblico di massa a Roma, nella basilica di Massenzio, per il Festival delle letterature. Asia Argento e Nada interpreteranno alcuni brani dei suoi libri già pubblicati, mentre lui leggerà una parte di un racconto inedito in Italia, “Harold’s end”.
Anche chi non ha ancora letto i suoi libri, ne ha sentito parlare. Per le storie crude che racconta del mondo delle lucertole, le prostitute che vivono nei parcheggi frequentati dai camionisti delle grandi strade americane. Perché, restituisce, in una lingua forte e limpida, lo sguardo chiaro del bambino. Che tutto subisce e tutto vede, e per qualche via misteriosa, da nulla è toccato. Nonostante la sua vita. Nonostante che a quattro anni siano finiti per lui i tempi felici vissuti con i genitori affidatari, quando l’amata madre Sarah, appena diventata maggiorenne a 18 anni, lo trascinò con sé nella sua vita di strada. E’ dunque grande l’attesa per l’incontro con questo ragazzo, ha 22 anni, che ha soggiogato stelle pop come Bono Vox degli U2 e Tom Waits, scrittori come Dennis Cooper e Mary Gaitskill . Il ragazzo che le rare volte che si è fatto fotografare ha sempre indossato dei travestimenti. JT (J è jeremiah, il suo nome, e T sta per terminator, il soprannome con cui firmava i primi racconti su internet) non è un transessuale o un travestito, tantomeno è spavaldo o aggressivo. E’ se stesso. Non molto alto. Con i capelli biondi e sfrangiati come una ragazza degli anni sessanta. Occhiali neri che non si toglie mai. Una voce che fa a fatica a uscire. C’è in lui qualcosa del bambino che parla nei suoi libri. Forse per il linguaggio del corpo così diretto. L’agitazione continua, le smorfie, tutto quello che comunica il terrore di stare in mezzo a gente sconosciuta. Il fatto che dica senza pudori di avere vomitato un minuto prima. Fa riconoscere la voce autentica di quello che ha scritto. Non è facile fargli domande. Le parole escono una per una, quasi indecifrabili.

A che punto è il progetto del film che Gus Van Saint vuole trarre da “Sarah”?

“Non posso dire nulla. La sceneggiatura è a buon punto. E non abbiamo ancora scelto l’attrice per la parte di Sarah”.

Per lei scrivere è stata una terapia?

“Il mio terapista Terrance Owens insisteva molto perché scrivessi. Ma io a quel tempo vivevo per strada, andavo alle sedute e non avevo mai niente di scritto. Poi una volta mia ha convinto a scrivere per gli assistenti sociali, tutti stronzi secondo me. Una volta, visto che lui doveva tenere un corso rivolto a loro, mi ha chiesto di aiutarlo. Così ho comprato un fax, che mi portavo sempre dietro, nello zainetto. Eravamo d’accordo che dovevo spedire tutto entro il lunedì. Entravo nelle tabaccherie, in qualunque posto. E spedivo. E’ cominciato così. Poi mi sono accorto che scrivere era come la cioccolata. Mi nutriva”.

Suo nonno è un pastore fondamentalista. E le ha inculcato l’idea della colpa e del peccato. Ora lei è credente?

“Si penso di avere un qualche tipo di fede. Forse non proprio fede in Dio. Ma non potrei dire di avere lo stesso tipo di fede di mio nonno. La mia è più astratta”;

Lei è così timido, come mai si è fatto convincere a venire a Roma?

“Non lo so, è la prima volta che esco dagli Stati Uniti. Grazie, mi sento come se mi avessero benedetto. Certo quando è uscito “Sarah” non avrei mai potuto fare una lettura pubblica. Ora mi sembra che le mie competenze in socialità siano aumentate. La cosa terribile è che nelle prime interviste tutti mi chiedevano solo di me, della mia vita. Se sono maschio o femmina, cose di questo tipo. Tutto questo mi ha dato notorietà, ma ora voglio puntare più sulla scrittura che sugli aspetti personali”.

Quindi cambia qualcosa, anche nel suo modo di lavorare?

All’inizio, con tutti quei fax, scrivevo addirittura a mano. Ora vivo in una casa dove ci sono dei bambini. Scrivo di notte, per avere pace. E nel mio nuovo libro, il centro focale cambia”.

 

Andrea Colombo, LA REPUBBLICA DELLE DONNE
– 04/06/2002

 

Scrivo per capirmi

 


Ha 22 anni ed è uno degli scrittori più popolari d’America. Ha raggiunto il successo con due libri, Sarah, cronaca di un’infanzia passata sulla strada al seguito della madre prostituta nei parcheggi per camionisti, e Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa (entrambi editi in Italia da fazi). Adottato da scrittori come Dennis Cooper e Mary Gaitskill, da rockstar come Bono degli U2, Tom Waits, Shirley Manson dei Garbage, J T Leroy si è fatto fotografare decine di volte sempre in abiti femminili ma non è quasi mai comparso in pubblico. Sarà a Roma il 4 giugno, al festival delle letterature. “Essere invitato a questa rassegna è un onore. Cinque anni fa mi convinsero a partecipare a un reading. Fu un incubo. Usavo ancora droghe e pensavo che mi sarei fatto abbastanza da non essere nervoso. Invece mi tremavano tanto le mani da non riuscire a leggere. Cominciai a balbettare alla prima parola e vomitai. La gente pensava fosse una performance e applaudiva. Spero che stavolta le cose saranno meno drammatiche.

Lei ha passato l’infanzia in una situazione familiare molto difficile. Qual è oggi la sua famiglia?

“Sono un co-padre, anche se non in termini biologici, e ciò mi ha aperto il cuore in una misura che non avrei creduto. Il mio boyfrend è il padre e la mia migliore amica è la madre. Siamo un nucleo familiare insolito, ma lavoriamo duro su noi stessi. Viviamo a San Francisco in una casa arredata soprattutto con vecchi mobili trovati per strada. Adoro soprattutto la mia scrivania, è incredibilmente disordinata, piena di regali che mi sono stati mandati dai lettori: gioielli, cosmetici, cioccolato”.

Queste manifestazioni di affetto da parte del suo pubblico la aiutano?

“Sentir dire dalla gente quanto i miei libri hanno significato per loro mi fa sentire bene per un po’, ma poi affondo di nuovo nella merda. Sono ancora nella mia pelle e odio me stesso. La sola cosa che funziona è il duro lavoro in terapia”.

L’ambiguità sessuale è fondamentale nella sua vita?

“Io sono ogni giorno del genere sessuale che preferisco. Una ragione per cui non amo comparire in pubblico è che la gente si abitua a vederti in un ruolo fisso, mentre io sto cercando di capire chi sono. Non ho scelto di farlo in scena o di fronte alla cinepresa, ma coi miei scritti”.

Rimpiange sua madre?

“Probabilmente la cosa migliore per me sarebbe stata essere adottato dalla famiglia a cui ero stato dato in affidamento. Non avrei scritto i miei libri, e forse non sarei neppure diventato uno scrittore. In compenso sarei stato più felice, non avrei avuto tutta questa confusione sulla mia identità, né la tendenza all’autodistruzione”.

Quali sono i suoi sentimenti per Sarah e i nonni fondamentalisti?

“Sarah cercava davvero di essere una buona madre. Era solo troppo giovane per capire cosa stesse facendo, sommersa dai suoi problemi. Vivere con lei è stato difficile, ma ciò non significa che il mio mondo fosse privo di calore e attenzione. Mio nonno era predicatore, quando vivevo con lui l’educazione religiosa era molto intensa, arida, severa. Le sole occasioni in cui mi sentivo amato, le sole volte in cui mi toccava, era quando dovevo essere punito. Succedeva anche con mia madre. Quando si cresce così, l’idea di essere picchiati diventa una consolazione. Ancor oggi ogni giorno vorrei uscire, farmi picchiare, ferirmi da solo”.

A che punto è il film che Van Sant sta preparando da Sarah?

“Patti Sullivan ha completato la prima stesura della sceneggiatura. Del resto non so nulla, tutto è nelle mani di Gus. E’ il suo bimbo ora”.

 

 

Paolo Petroni, IL TIRRENO
– 04/06/2002

 

Lacrime e sangue nella vita di J. t. Leroy

 

Nato nel 1980, quando quattro anni dopo la sua vera madre, divenuta maggiorenne, se lo andò a prendere dai genitori adottivi, iniziò per lui una vita sulla strada fatta di prostituzione, furti e droga. E’ la storia che Jeremiah “Terminator” Leroy racconta in “Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa” (Fazi), che lo scrittore è venuto a presentare a Roma.
Grazie ai suoi libri, ormai un piccolo mito di qua e di là dell’oceano, è la prima volta che accetta di incontrare dei giornalisti ed è insieme a Asia Argento. Con lei leggerà in pubblico un suo testo, stasera al Festival Letterature.
La sua fama di ragazzo sessualmente ambiguo, troppo duramente provato dalla vita, appartato, tanto che qualcuno ne ha persino messo in forse l’esistenza, appare subito inferiore alla realtà.
Dietro gli occhiali scuri e un caschetto di capelli biondi, col rossetto sulle labbra molto femminili, appare fragile, tirato e spaventato, inizia col muovere nervosamente le gambe e finisce per tremare quasi tutto, non parla al microfono, ma sussurra le risposte alla traduttrice, incapace di alzare la voce. Ma se racconta che, prima di rispondere alle domande, è passato in bagno a vomitare per la paura e il nervosismo, come gli accade spesso, ci tiene anche a sottolineare che “solo qualche anno fa una situazione come questa era impensabile per me: la mia socialità va pian piano migliorando”.
Il merito è del successo, certamente, ma soprattutto del suo terapeuta, che, cercando di aiutarlo a trovare un qualche suo equilibrio, a vestirsi da donna o uomo secondo come si sente, senza dover prendere una decisione definitiva, lo spinse a scrivere. “Me lo diceva da tempo, ma io me ne guardavo bene, poi, con un trucco, mi costrinse a farlo. Mi chiese di scrivere la mia esperienza con consigli per gli assistenti sociali cui dava lezioni e che io reputavo una manica di stronzi. Cominciai, a mano, e lui voleva un pezzo ogni lunedì, che gli inviavo dal mio peregrinare con un fax portatile che tenevo nello zaino. Fu subito come mangiare cioccolata: scrivere era un cibo, mi dava nutrimento. Così a un certo punto nacque il mio primo libro”.
Si tratta di “Sarah”, uscito due anni fa, dedicato a sua madre e scritto con una tendenza anche visionaria e favolistica, come a tener lontana la forza di quel realismo che è esplosa nel secondo libro, tutto fisicità, sangue, vomito e lacrime, ma anche molta anima e stomaco, quale sede in cui restano sepolti ma vivi i sentimenti e le sensazioni, che danno verità forte alle sue pagine.
E’ il successo d’autore di best seller, lo amano e cercano Bono e Tom Waits, a quest’ultimo concede persino un’intervista davvero emozionante uscita su Vanity Fair, i Garbage gli dedicano la canzone “Cherry lips” (Labbra di ciliegia), da mesi in testa alle classifiche di vari paesi, e si stanno ultimando i preparativi per girare un film proprio da “Sarah” col regista Gus Van Sant.
“Quelli che mi comprano le caramelle non durano molto. Quelli che la prendono a schiaffi durano di più, ma mai quanto quelli che picchiano lei con i pugni e me con la cinta”, scrive degli occasionali compagni di sua madre, subito dopo la frase che dà il titolo al libro: “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa”, tratta dalla Bibbia. “La leggevo tanto da piccolo, avevo un nonno molto religioso, poi ho letto di tutto – racconta – e ovunque andavamo entravo in una libreria o biblioteca e rubavo libri. Ne ho rubati tanti, da Dickens ai moderni, e tutti mi hanno lasciato un segno. Amavo molto la lettura”.
E’ la prima volta che esce dagli Usa, dove oggi abita con una signora che ha una figlia piccola e che è una cantante con cui sta lavorando su musica e testi di alcune canzoni. Scrive, corregge e riscrive al computer, quando la casa è tranquilla, la sera. “Ci metto molto a carburare – dice – ma poi se parto vado vanti per qualche ora”. L’ultima cosa è un racconto, “La fine di Harold”, molto lodato dalla critica, di cui offrirà un assaggio stasera, a Massenzio.

 

 

Laura Cinelli, LA NAZIONE
– 06/06/2002

 

Quell’angelo nero chiamato Jeremiah

 

 

ROMA-È arrivato tremando, con una visiera nera che gli copriva completamente gli occhi. Con un filo di voce ha raccontato di droga, sesso e di una lumaca di nome Harold, poi è fuggito lasciando a Nada la lettura delle sue pagine di dolore e stupro. JT LeRoy, adolescente androgino di 22 anni, scrittore “maledetto” sopravvissuto a un’infanzia infernale, è comparso per la prima volta in Italia per partecipare a “Letterature. 1° Festival Internazionale di Roma”. L’enfant prodige americano è arrivato nella Basilica di Massenzio al Foro con il suo carico di inquietudine e mistero. Ha letto tremante un racconto di “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” il suo ultimo libro edito da Fazi, in cui narra in prima persona l’infanzia di un angelo, Jeremiah (cioè JT) e della sua discesa agli inferi, quindi è tornato al suo “buio” e alla sua parrucca bionda, che non toglie mai come gli occhiali neri a specchio, maschera di angoscia e voglia di “normalità”.

Schivo, spregiudicato, disperato e redento, Jeremiah Terminator Leroy è diventato un caso letterario dopo “Sarah” il romanzo che racconta dell’amore dolente e inossidabile per una madre “lucertola da parcheggio”, che fin da bambino lo aveva avviato alla prostituzione.

Il successo del libro, da cui il regista Gus Van Sant sta traendo un film,ha acceso i riflettori su questo spregiudicato ragazzo passato attraverso l’inferno della droga, della prostituzione e salvatosi solo con la scrittura. Quasi per sfida. E grazie alla psicanalisi. JT ha parlato di sé pochi giorni fa durante una conferenza stampa. Ha raccontato del suo amore per la lettura: “Ho sempre letto molto – ha confessato dietro i suoi occhialoni e la folta capigliatura bionda – dalla Bibbia a Dickens. Fin da piccolo, ovunque andavo, entravo in una libreria o in una biblioteca e rubavo libri. Ne ho rubati tanti e tutti mi hanno lasciato un segno. Amavo molto la lettura”.

Oggi LeRoy vive a San Francisco con l’inseparabile amica Speedy e il figlio di lei che ha 4 anni. Scrive, corregge e riscrive al computer quando la casa è tranquilla, la sera. “Ci metto molto a carburare – dice – ma poi se parto vado avanti per ore”. E il merito è del suo terapeuta che anni fa, cercando di aiutarlo a trovare un suo equilibrio, a vestirsi da donna o uomo secondo come si sentiva, lo spinse a scrivere quando ancora viveva per strada. “Mi costrinse a farlo. Mi chiese di raccontare la mia esperienza con consigli per gli assistenti sociali a cui dava lezione. Cominciai a mano, inviandogli un pezzo ogni lunedì con un fax portatile che tenevo nello zaino durante il mio pellegrinaggio. E fu subito come mangiare cioccolata: scrivere era un cibo, mi dava nutrimento. Così a un certo punto nacque il mio primo libro”. Cioè “Sarah”, uscito due anni fa e dedicato alla madre, che un giorno, quando lui aveva 4 anni, si presentò a casa dei genitori adottivi per riprenderselo e trascinarlo con lei, che aveva 18 anni, nel suo folle viaggio da prostituta dei camionisti. Autostrade, motel, miseria, anfetamine, hamburger riesumati dalla spazzatura. Sarah traveste il figlio da bambina perché i suoi amanti lo accettino meglio e ne abusino con maggior soddisfazione. Poi un giorno lo molla a casa del nonno, un predicatore che fa conoscere a Jeremiah la cinghia e la follia; Una vita da marciapiede, la droga, poi la scrittura. E l’amicizia con Bono e Tom Waits;

“Ho letto cinque volte “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” e mi ha sconvolto. È stata una delle esperienze più importanti dei miei ultimi anni” ha detto Asia Argento che nella Basilica di Massenzio ha “recitato” le pagine del libro. E lui, che prima di andare in scena è andato in bagno a vomitare, ha ringraziato Roma. “Non ero mai uscito dagli Stati Uniti, qui mi sento come se mi avessero benedetto”.

 

Mariaella Radaelli, IL GIORNO
– 11/06/2002

 

Il cuore tenero sotto la maschera

 


MILANO – Ventidue anni ed è già un autore cult JT LeRoy. Il giovane scrittore americano, stella soprattutto per le rockster di tutto il pianeta, firma pagine autobiografiche profuse di intenso lirismo. Sono incredibili le sue storie, ma reali, vissute, consumate attraverso la sua carne lacerata. E ce lo ha dimostrato leggendo personalmente con un filo di voce alcuni lunghi brani di Ingannevole è il cuore più di ogni cosa (l’ultimo romanzo edito in Italia da Fazi), ieri sera, durante un incontro pubblico alla Fnac (via Torino ang. via della Palla).
Verararità. Perché LeRoy, mistero vivente, non si mostra quasi mai pubblicamente. Alcuni dubitano persino della sua esistenza. “Forse nessuno riuscirà mai davvero a vederlo, ma sapere che è lì fuori, da qualche parte, è già abbastanza”, ha scritto un critico della rivista “The Face”.

Molta attesa, estenuante per i lettori che hanno aspettato fiduciosi la giovane promessa della letteratura americana in clamoroso ritardo. Finalmente LeRoy ha fatto la sua comparsa insieme con la sua convivente e Asia Argento (tra il pubblico c’era il marito, Morgan, dei “Blue Vertigo”) che lo ha accompagnato per una settimana in un tour toscano.

LeRoy si presenta mascherato. Indossa un cappello nero a tese larghe. Ha il viso coperto da una bandana verde bottiglia. Si intravedono alcune ciocche di capelli biondi. Quale messaggio in bottiglia ci vorrà dire? Dicono sia timidissimo. E ce lo conferma, quando dopo aver fatto capolino giusto per incontrare per un istante il flash dei fotografi, si scaraventa con dolcezza sotto il tavolo destinato alla presentazione del volume, da dove la sua voce incantata e angelica incomincia il suo lento agonizzante reading fatto di pause, quasi singulti e un’infinita concatenazione di immagini bellissime, strazianti e dure, una narrazione con una grande forza stilistica, e con la pregnanza della poesia.

La sua biografia è atipica. Ha avuto una vita estrema. Si è prostituito fin da ragazzino: faceva la lucertola al parcheggio. Il suo rapporto con la figura materna è morboso: lo leggiamo nei suoi libri

Tom Waits lo ha definito un “Bugs Bunny vissuto nella spazzatura”. Il grande cantautore americano, che lo ha voluto intervistare per le pagine di “Vogue”, ha scritto che “i suoi libri sono destinati a rimanere nel tempo”. LeRoy è amato anche da Bono Vox.

LeRoy non ha avuto una educazione regolare. “Sono autodidatta”, ha affermato tutto tremante. La mia è una sorta di fiction autobiografica. Penso che continuerò in questo modo”.

Improvvisamente l’autore ha mostrato il viso, infantile, coi tratti gentili. Tiene gli occhiali scuri. Continua ad essere laconico.

“Cosa pensa del suo Paese?”.
“L’America è un posto unico. Ma non voglio parlare di questo argomento”.

 

HEMING-WAY.IT
– 14/06/2002

 

Il secondo libro del nuovo talento americano

 

 

Jeremiah, 4anni.
Sarah, appena 14 di più.
Jeremiah viene affidato a Sarah, la sua madre naturale, ed è costretto ad abbandonare la famiglia adottiva e la vita precedente, fatta di giocattoli e di capricci, di altalene e scivoli nel giardino di casa, di baci e di cioccolata calda con biscotti.
Adesso c’è lei, Sarah, con la sua vita già segnata, a ricordargli che è suo, che è l’unica cosa che ha, e di come le fosse stato impedito di sbarazzarsene.
Inizia così per Jeremiah una nuova vita, diversa, orribile, violenta, sbandata e tuttavia, attraverso il suo sguardo incantato da bambino, anche folle e magica. Una nuova vita di cui è costretto a imparare alla svelta le regole: furti, travestimenti, solitudine, privazioni, disincanto. Una nuova vita che è un disperato viaggio al seguito di Sarah, da uno stato all’altro, da un uomo all’altro, da un sogno all’altro, per non farsi raggiungere dai ricordi di un passato, ancora bruciante, carico di disarmante amoralità e disattenzione. Una nuova vita in cui violenza e punizione lo marchieranno a tal punto da rendergliele indispensabili.
Dopo il successo mondiale del precedente Sarah, il talentuoso ventiduenne j.t.Leroy torna alla ribalta letteraria con un altro romanzo di dirompente intensità in cui, con sapiente maestria, crudeltà e dolcezza, orrore e malinconia si mescolano stordendo il lettore e privandolo di ogni certezza o rassicurazione.
Leroy, ancora una volta, conferma la sua indiscutibile capacità di raccontare, con stile lucido, calibrato e schietto, storie dure, inquietanti, ruvide attraverso la voce infantile dei suoi piccoli protagonisti.
E dalle sue pagine, ancora una volta, emerge la descrizione di un toccante, dilaniante, assordante bisogno di attenzione e d’amore.

 

 

 

 

Valentina Pigmei, VIVEREROMA
– 05/06/2002

 

E JT Leroy impazzisce per i carciofi alla giudia

 

 

“È stato bellissimo, c’erano tutte quelle arance sugli alberi”. JT Leroy ha tenuto a Roma la prima conferenza stampa della sua vita. Lo scrittore, 22 anni, vero e proprio angelo della letteratura, con talento da vendere e una grazia fuori dal comune, è venuto allo scoperto nel bellissimo chiostro della Biblioteca dell’Orologio, per l’appunto sotto l’ombra degli aranci.
Non era mai stato in Italia prima d’ora. Non aveva mai partecipato ai numerosi reading fatti in suo onore negli USA, cosa che è eccezionalmente avvenuta ieri sera in occasione del Festival “Letterature”. “Non sono mai stato nemmeno fuori dagli Stati Uniti”. JT, nuovo srittore di culto, si nasconde dietro giganteschi occhiali a specchio e una parrucca bionda. Negli Stati Uniti è celebre proprio per la proverbiale ritrosia a mostrarsi. Ritrosia che gli era valsa tra l’altro la leggenda della sua mancata esistenza.
Ma JT esiste. Eccome. S’è mosso incuriosito tutto il giorno per le strade della città con la sua voce da bambino. Il sorriso di chi ha attraversato l’inferno, di chi non ha mai avuto una casa, né è mai andato a scuola (“rubavo i libri di Dickens in biblioteca”), ha vissuto per strada fin da piccolo insieme alla madre prostituta e con il supporto di ogni tipo di droga. Finché non è arrivata la letteratura:”Scrivere è come la cioccolata”.
Per inaugurare la sua vacanza romana, due sere fa, l’hanno portato in un ristorante del ghetto “il pompiere”. A tavola JT è impazzito letteralmente per i carciofi alla giudia (“sono la mia verdura preferita insieme al finocchio”) e ha mostrato autentica gioia di fronte al gelato alla crema (“è molto più buono di quello americano !”). Ma nulla lo ha reso più felice delle ciliegie che ha voluto a tutti costi portare in albergo, dalle parti di Villa Borghese. Il pomeriggio romano l’ha dedicato a una lezione di Capoeira, danza e insieme lotta brasiliana, insieme alla sua amica e “madrina” Asia Argento. attrice lo ha poi “accompagnato” ieri sera a Massenzio, leggendo un brano da Ingannevole è il cuore più di ogni cosa (Fazi, Editore), il romanzo che ha fatto impazzire mezzo mondo. Asia dichiara di essere stata profondamente colpita dal libro di JT, forse “come da nessun altro nella mia vita, l’ho letto circa cinque volte e mi ha davvero sconvolta”.
Anche Nada, la cantante toscana che insieme ad Asia Argento ha partecipato ieri alla serata dedicata a Leroy, è stata incuriosita da questa miscela esplosiva di bravura e precocità. Nessuno scrittore è riuscito negli ultimi anni, a catalizzare l’attenzione di così tanti personaggi dello spettacolo e della musica. Si sono scomodati per lui Tom Waits, Bono Vox, John Waters, Gus Van Sant, Suzanne Vega. Shirley Manson dei Garbage gli ha dedicato la canzone, Cherry Lips.”. Ma una cosa nella notte ha fatto impazzire di gioia JT, ragazzino entusiasta, fragile e perfettamente androgino: la vetrina di Feltrinelli a Largo Argentina dove s’è fatto fotografare di fianco alla fila dei suoi libri esposti.

 

 

Andrea Colombo, ALIAS
– 01/06/2002

 

Dai bassifondi dell’impero

 

Il prossimo quattro giugno J T Leroy, come usa firmarsi, apparirà per la prima volta in pubblico, sul palco del festival delle letterature, a Roma. La cosa strana è che nonostante la ritrosia e la timidezza che lo hanno tenuto lontano dalle kermesse letterarie, leroy è una star, uno dei pochissimi scrittori asceso al firmamento delle icone pop. Certo, autori come Stephen King o Jonh Grisham sono delle superstar, con centinaia di migliaia di fans nel mondo. Ma il caso è diverso, un po’ perché Leroy non scrive best sellers ma è tutti gli effetti uno scrittore mainstream, ancor più perché diverso è il tipo di popolarità di cui gode e che non si misura solo nella quantità , peraltro ragguardevole, di copie vendute. Courtney Love lo porta alle stelle nel suo sito. I Garbage gli dedicano una canzone, che scala rapidamente le classifiche. Tom Waits insiste per intervistarlo personalmente. I principali fotografi di moda lo ritraggono nelle riviste patinate, truccato da donna. Lo adottano autori come Mary Gaitskill e David Cooper, ma anche un regista geniale come Gus Van Sant, che sta per trarre un film dal suo primo romanzo, Sarah. Per rintracciare un altro fenomeno del genere, una simile capacità di influenzare non solo la letteratura ma l’intera cultura di massa, bisogna risalire alla prima ondata beat, nei 50. Con i beat, Leroy qualcosa a che spartire ce l’ha davvero, e ancor più con Nelson Algren, l’autore di Walk on the wild side. Leroy racconta quel che succede nelle zone d’ombra d’america, nei parcheggi per camionisti dove la madre batteva e se lo portava dietro, in vesti femminili per non infastidire i clienti. Nelle catastrofi continue di un’infanzia disastrata, alla quale solo i bambini possono a volte resistere. Nelle siringhe e nelle marchette, ma anche nei palazzi austeri e sinistri del fondamentalismo protestante , come quello dove abitavano i suoi nonni. Ma i beat e Algren scrivevano mezzo secolo fa. Leroy parla dell’oggi, e sa come guidare i suoi lettori nei labirinti moderni di un’identità sessuale incerta e ambigua, più androgina che semplicemente omosessuale. Nei suoi romanzi, Sarah e Ingannevole è il cuore più d’ ogni altra cosa, entrambi pubblicati in Italia da Fazi, Leroy ha raccontato la sua storia e ha saputo renderla molto più di un’autobiografia: la descrizione universalmente valida, orrifica e fascinosa insieme, di una confusione radicale che abbraccia l’intera dimensione dell’esistenza, dall’identità sessuale agli affetti, capace però di coniugare distruttività e creazione. Ora, a 22 anni, J T Leroy si misura con l’obbligo di superare la gabbia della propria personale esperienza. In attesa del prossimo libro lo fa con questo racconto, pubblicato sinora da McSweeney’s e inedito in Italia. E forse lo fa anche, dopo anni di analisi e due romanzi catartici, trovando il coraggio di comparire in pubblico senza la maschera da ragazzina perversa con cui,è apparso sulle riviste di mezzo mondo

 

Paolo Petroni, LA SICILIA.IT
– 14/06/2002

 

Leroy, la nausea del mondo esorcizzata con la scrittura

 

 

ROMA – Nato nel 1980, quando 4 anni dopo la sua vera madre, divenuta maggiorenne, se lo andò a prendere dai genitori adottivi, iniziò per lui una vita sulla strada fatta di prostituzione, furti e droga. E’ la storia che J.T. Leroy racconta in «Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa» (Fazi) che è venuto a presentare a Roma.
Grazie ai suoi libri, ormai un piccolo mito di qua e di là dell’oceano, è la prima volta che accetta di incontrare dei giornalisti ed è insieme a Asia Argento. Con lei ha letto in pubblico un suo testo, al Festival Letterature. La sua fama di ragazzo sessualmente ambiguo, troppo duramente provato dalla vita, appartato, tanto che qualcuno ne ha persino messo in forse l’esistenza, appare subito inferiore alla realtà. Dietro gli occhiali scuri e un caschetto di capelli biondi, col rossetto sulle labbra molto femminili, appare fragile, tirato e spaventato, inizia col muovere nervosamente le gambe e finisce per tremare quasi tutto, non parla al microfono ma sussurra le risposte alla traduttrice, incapace di alzare la voce. Ma se racconta che, prima di rispondere alle domande è passato in bagno a vomitare per la paura e il nervosismo, come gli accade spesso, ci tiene anche a sottolineare che «solo qualche anno fa una situazione come questa era impensabile per me: la mia socialità va pian piano migliorando».
Il merito è del successo, certamente, ma soprattutto del suo terapeuta, che, cercando di aiutarlo a trovare un qualche suo equilibrio, a vestirsi da donna o uomo secondo come si sente, senza dover prendere una decisione definitiva, lo spinse a scrivere. «Me lo diceva da tempo, ma io me ne guardavo bene, poi, con un trucco, mi costrinse a farlo. Mi chiese di scrivere la mia esperienza con consigli per gli assistenti sociali cui dava lezioni e che io reputavo una manica di stronzi. Cominciai, a mano, e lui voleva un pezzo ogni lunedì, che gli inviavo dal mio peregrinare con un fax portatile che tenevo nello zaino. Fu subito come mangiare cioccolata: scrivere era un cibo, mi dava nutrimento. Così a un certo punto nacque il mio primo libro».
Si tratta di «Saraha», uscito due anni fa, dedicato a sua madre e scritto con una tendenza anche visionaria e favolistica, come a tener lontana la forza di quel realismo che è esplosa nel secondo libro, tutto fisicità, sangue, vomito e lacrime, ma anche molta anima e stomaco, quale sede in cui restano sepolti ma vivi i sentimenti e le sensazioni, che danno verità forte alle sue pagine. E’ il successo d’autore di best seller, lo amano e cercano Bono e Tom Waits, a quest’ultimo concede persino una intervista davvero emozionante uscita su ‘Vanty Fair’, i ‘Garbage’ gli dedicano la canzone «Cherry lips» (Labbra di ciliegia), da mesi in testa alle classifiche di vari paesi, e si stanno ultimando i preparativi per girare un film proprio da «Sarah» col regista Gus Van Sant.
«Quelli che mi comprano le caramelle non durano molto. Quelli che la prendono a schiaffi durano di più, ma mai quanto quelli che picchiano lei con i pugni e me con la cinta», scrive degli occasionali compagni di sua madre, subito dopo la frase che dà il titolo al libro: «Ingannevole è il cuore più di ogni cosa», tratta dalla Bibbia. «La leggevo tanto da piccolo, avevo un nonno molto religioso, poi ho letto di tutto – racconta – e ovunque andavamo entravo in una libreria o biblioteca e rubavo libri. Ne ho rubati tanti, da Dickens ai moderni, e tutti mi hanno lasciato un segno. Amavo molto la lettura».
E’ la prima volta che esce dagli Usa, dove oggi abita con una signora che ha una figlia piccola e che è una cantante con cui sta lavorando su musica e testi di alcune canzoni. Scrive, corregge e riscrive al computer, quando la casa è tranquilla, la sera, e – dice – ci metto molto a carburare, ma poi se parto vado vanti per qualche ora». L’ultima cosa è un racconto, «La fine di Harold», molto lodato dalla critica.

 

Francesco Fantasia, IL MESSAGGERO
– 04/06/2002

 

Io, maledetto, nonostante il successo

 

Per prima cosa, allacciate le cinture e reggetevi forte: la macchina narrativa di JT Leroy corre infatti a precipizio, getta lo stomaco in subbuglio. E catapulta il lettore nel cuore nero dell’America, negli inferni della miseria, della droga, del sesso declinato in ogni forma di perversione. Un viaggio allucinante? E’ probabile. Ma una volta saliti su quella macchina scendere sarà difficile.
Perché Leroy possiede il raro talento di mantenere viva la bellezza anche dove sembrano regnare solo la morte e lo squallore.
Il talento di trasformare il dolore in dolcezza e l’orrore in letteratura. Una capacità di scrittura così sorprendente è di certo un dono. Nel caso di JT Leroy può apparire qualcosa di meno: un risarcimento appena sufficiente per essere cresciuto e sopravvissuto nelle backstreets più infami del West Virginia, in un mondo di disperazione vera, popolato da pedofili, transessuali, stupratori, spacciatori. L’unica scuola è la strada, dove JT vive una vita randagia. E passa buona parte della sua adolescenza a fare la “lucertola da parcheggio”, prostituendosi coi camionisti. Presto il ragazzo si guadagna tutti i gradi per essere assegnato allo stato maggiore dei maledetti: s’imbottisce di droga, fa il pieno di alcol e finisce in manicomio.

La svolta arriva a San Francisco, a 16 anni. Leroy incontra uno psicoterapeuta che lo fa disintossicare e lo spinge ad impugnare la penna per esorcizzare sulla pagina i fantasmi del passato. JT scopre la sua vocazione. In poco tempo butta giù un folgorante romanzo d’esordio dedicato alla madre, una prostituta tossicodipendente che lo aveva avviato alla vita on the road (“Oggi è morta – dice lo scrittore – non si è mai voluta curare un ascesso. I tossici sono fatti così, non si curano”). Il libro s’intitola Sarah (in Italia è pubblicato da Fazi) e fa scoppiare un clamoroso caso letterario che fa nascere paragoni con Flannery O’Connor e Mark Twain, William Borroughs e Jean Genet.

In una manciata di mesi JT Leroy si trasforma in un autore di culto. Viene preso sotto l’ala protettiva di scrittori come Dennis Cooper e Mary Gaitskill, incensato da cantanti del calibro di Bono Vox, adottato artisticamente dal regista Gus Van Sant che sta portando sul grande schermo la storia di Sarah. Un vero mito, insomma, che lo stesso Leroy, con la sua ossessione per le apparizioni in pubblico, finisce per alimentare. Concede interviste col contagocce e accetta di farsi fotografare solo travestito (“Desidero le attenzioni della gente – dice – ma al tempo stesso la gente mi terrorizza. Mi sento come King Kong, accerchiato da persone che vogliono incatenarmi”).
E infatti, eccolo lì, JT Leroy, come te lo aspetti: un ragazzo minuto, timido, impaurito, che oggi ha 22 anni, e che si nasconde dietro grandi occhiali neri e una parrucca bionda. Lo scrittore americano è di passaggio nella Capitale per un doppio appuntamento. Per partecipare stasera al Festival internazionale “Letterature”, alla Basilica di Massenzio (protagonista anche la scrittrice belga Amélie Nothomb), dove leggerà il racconto inedito Hardol’s End. E per presentare il suo ultimo romanzo appena uscito in Italia da Fazi, Ingannevole è il cuore più di ogni cosa (237 pagine, 12,50 euro). Anche in queste pagine c’è carne, sangue e anima: il libro racconta in prima persona l’infanzia e l’adolescenza di un angelo caduto, Jeremy, un ragazzo che viaggia attraverso gli Stati Uniti al seguito della madre prostituta.

Non c’è nulla di ciò che viene narrato che Leroy non abbia vissuto sulla propria pelle. “In realtà – dice lo scrittore – non so bene da dove mi arrivino le cose. Potrebbero venire dal mio passato, ma anche da qualcos’altro che ho introiettato. So solo che la scrittura mi ha salvato: scopro la felicità quando mi siedo al computer e tento di liberare le emozioni che sono intrappolate dentro di me”. Ingannevole è il cuore più di ogni cosa è una sorta di strip-tease letterario senza pudori, un libro che deve il titolo a un passo della Bibbia. “Sono cresciuto leggendo il Vecchio e il Nuovo Testamento – spiega Leroy -. Mio nonno era un reverendo fondamentalista che mi ha spinto sulla strada del sadomasochismo. L’unico modo per ricevere amore da lui, per essere avvicinato da lui, era farsi punire. Quando cresci con questo tipo di cose, l’idea di essere picchiato diventa persino piacevole”.

L’incubo che guasta le notti di JT è di essere di nuovo gettato sulla strada, a prostituirsi. “So di che schifezza si tratta. E non voglio che mi capiti ancora. Negli ultimi tempi ci riuscivo solo imbottendomi di droghe”. In realtà, il rischio che corre oggi Leroy è di assuefarsi ad un’altra droga, quella del successo. “Ma per me non è cambiato niente – giura lo scrittore -. All’inizio mi aspettavo che il successo mi avrebbe cambiato, guarito. Quando sono finito nella lista dei best-seller, ho capito invece che la mia vita sarebbe rimasta il casino di sempre. Continuavo a odiami, a infliggermi tagli e bruciature per provare qualcosa di diverso. No, non c’è nulla che mi aiuti. Tranne la scrittura e il lavoro col mio strizzacervelli”.

 

 

Cristina Missiroli, IL GIORNALE
– 04/06/2002

 

Vita e opinioni di un genio di strada

 

JT Leroy non può fare a meno di angosciarsi. E’ la sua natura. Non dovrebbe, certo. Perché il suo successo nel mondo letterario è grande. Ed è soltanto agli inizi.
L’approvazione del pubblico è bella, ma la sensazione si essere scannerizzato da mille occhi è mostruosa. Così quando entra nel giardino di aranci, dove è atteso per la sua conferenza stampa italiana, JT si fa piccolo piccolo. Ancora più giovane dei suoi 22 anni, ancor più minuto di quel che effettivamente è. E capisci subito il perché dell’ironico pseudonimo con il quale, per anni, Leroy ha firmato le sue pubblicazioni sulle riviste letterarie: Terminator. A vederlo è tutto l’opposto. Enormi occhiali a specchio lo proteggono, ma non abbastanza. Perché lui trema, trema tanto da battere i denti. Le gente lo terrorizza, la folla lo angoscia, i giornalisti non ne parliamo. Prima di entrare in giardino si è fermato in bagno in preda ad un momento di panico, lo stomaco sottosopra. Ora tortura coi denti quel che resta dell’unghia del suo pollice destro, in attesa che l’esame cominci.
Circa un anno fa JT dette una bella scossa al mondo editoriale americano con un romanzo d’esordio fantastico quanto devastante, “Sarah”, la storia visionaria e autobiografica di un bambino la cui mamma è una “lucertola”, una prostituta del parcheggio dei camionisti. Oggi è di nuovo in libreria con “Ingannevole è il cuore sopra ogni cosa”, ancora un romanzo autobiografico, ad episodi. Una sorta di prequel del primo libro. Implacabilmente brutale e scritto senza sbafature, “Inganevole è il cuore” è stato scritto da Leroy tra i 14 e il 17 anni. Precendente quindi al primo romanzo. Testimonia la lotta per l’esistenza di un bambino in un mondo di adulti che sembra destinato a distruggerlo, non importa se intenzionalmente o per negligenza. Racconta la sua vita dall’età di quattro anni, quando la mamma andò a riprenderlo dai suoi genitori adottivi. Ed è la storia di come il dolore, la paura e il bisogno di affetto abbiano fatto di Jeremiah Terminator Leroy la persona che è oggi.
Malgrado il successo, in America Leroy è apparso in pubblico appena un paio di volte. Qualche volta è andato di nascosto in qualche libreria di Los Angeles e di New York per assistere alle letture dei suoi lavori. “Sono stati forse i momenti più belli della mia vita. Vedere persone che stimavo e sentirle leggere in pubblico i miei racconti è stata un’esperienza sconvolgente”. Ogni volta però era lì mimetizzato tra la folla, in incognito. Per questo l’uscita italiana è un vero e proprio evento mediatico-lettarario.
Molte cose sono accadute negli utlimi anni e l’originale refrattarietà mediatica di JT comincia a venir meno. “Ma quando uscì “Sarah” non avrei neppure potuto pensare di affrontare una platea” dice. Ed in effetti è difficile dire cose abbia affascinato di più il pubblico e la critica: se il romanzo o la leggenda del suo giovanissimo e riservatissimo autore.
Sopravvissuto alla vita di strada e a tutti i problemi di sesso, droga e denaro che vanno sovente a braccetto con quell’ambiente, Leroy rifiutò infatti le luci delle ribalta, provocando una vagonata di pettegolezzi. La maggior parte dei quali girava intorno all’ipotesi che in realtà nemmeno esistesse davvero.

Ora quelle dicerie che un tempo sembravano intriganti, suonano quasi offensive. “Oggi – sussurra Leroy – vorrei che l’attenzione nei miei confronti si concentrasse più sulla scrittura che sul personaggio. Sono contento di essere qui. E’ la prima volta che esco dagli Stati Uniti. E vorrei ringraziare il mio editore italiano perché mi sembra una benedizione”. Il suo editore italiano è Fazi ed è riuscito a convincerlo non solo a partecipare a una conferenza stampa, ma persino ad una serata di “Letterature”, festival internazionale di Roma. Questa sera alle 9, alla Basilica di Massenzio, Leroy ascolterà Asia Argento e Nada leggere alcuni dei suoi brani. E si farà anche tanta forza da leggere egli stesso un brano dal titolo “Harold’s End”, uscito per ora solo sulla rivista “McSweeney’s”.
La forza di uscire di fronte al mondo gli sta venendo pian piano. L’entusiasmo di molti nei confronti dei sui scritti fa da puntello alla sua ricostruenda autostima. Segno che, in un modo o nell’altro, la terapia comincia a funzionare. Già perché Terminator ha cominciato (e continua) a scrivere come terapia, per consiglio del suo analista, il dottor Terrence Owens. Fu nei momenti più terribili della sua vita, quando faceva ancora la vita di strada e i servizi sociali gli stavano con il fiato sul collo, che Owens lo convinse a “vomitare” tutto quel che aveva dentro per iscritto. “Mi convinse con un trucco – racconta – Chiedendomi di scrivere per gli assistenti sociali a cui lui faceva lezione e che io consideravo degli emeriti stronzi. Scrivere perché loro potessero imparare. Mi procurai un fax, lo tenevo nello zaino. Quando capitava mi collegavo dai luoghi più impensati e gli mandavo quello che avevo scritto. Divenne un appuntamento fisso. Le mie pagine dovevano arrivargli puntualmente ogni settimana entro lunedì. Sentii subito che scrivere era un po’ come la cioccolata: mi nutriva. Andò avanti così per un pezzo”. E i suoi scritti passarono di mano in mano, fino a conquistare le riviste letterarie.
Oggi Leroy è una star. “Sarah” è diventato lettura obbligatoria e Yale. Shirley Manson ha scritto una canzone su di lui (Cherry Lips) per il nuovo album dei Garbage. Gus Van Sant, regista del premio Oscar “Will Hunting, genio ribelle” e di “My own Private Idaho” sta preparando la versione cinematografica del suo primo romanzo. Dennis Cooper, scrittore culto americano, ha usato JT come personaggio del suo nuovo libro, “Period” e ha messo una sua foto (l’unica conosciuta fino a poco tempo fa) sulla copertina. Tom Waits l’ha intervistato per Vanity Fair. E, come se non bastasse, è tra i pochissimi scrittori (insieme a Jonathan Franzen, l’autore di “Correzioni” e a Myla Goldberg) a far parte della celebre classifica di “Usa Today” dei centi personaggi più importanti dell’anno. JT è al numero 49, Franzen al 56. Tra i suoi fan più accaniti ci sono anche Bono Vox, Suzanne Vega, Courtney Love.
Malgrado una foto su Vanity Fair e un bel po’ di progetti per adattamenti cinematografici in corso d’opera, e malgrado la necessità di promuovere i suoi libri, Leroy passa ancora molto tempo rintanato in casa sua, rispondendo alle e-mail di ragazzini che sono sopravvissuti ad eseprienze di vita simili alle sue e che leggendo Leroy inseguono la stessa salvezza che il loro autore ha trovato nella scrittura. Perché la prosa di Leroy vola alto, anche quando racconta situazioni tremende, reali o immaginarie, che preferiremmo non fossero mai capitate a nessuno. E forse è per questo che i lettori si sono interrogati tanto sula possibilità che lo stesso Leroy fosse pura fiction. Avrebbe sollevato parecchi cuori il sapere non era altro che fiction. L’autore e, di conseguenza, il suo libro.

 

Sandra Cesarale, CORRIERE DELLA SERA
– 04/06/2002

 

JT LeRoy: le mie confessioni dark

 

Parla lo scrittore prodigio americano amato da U2, Tom Waits e altre rockstar

J.T. LeRoy non ha né l’ aspetto né l’ aggressività di Schwarzenegger. «Appena sono arrivato sono andato al cesso a vomitare, ero troppo teso, ma fate in fretta con le domande», dice seduto in un giardino romano mentre massacra con i denti il suo chew ingum e muove nevroticamente le gambe. Eppure, con il nome d’ arte Terminator (per la sua bassa statura), l’ esile e spaventato ventiduenne della West Virginia ha iniziato sei anni fa a firmare i suoi primi racconti. J.T. è l’ anima disturbata, ambig ua e inquieta dell’ America. I suoi romanzi hanno conquistato Bono degli U2 e Courtney Love (la vedova del suicida Kurt Cobain, che di vite devastate se ne intende). Tom Waits, cantore dei dannati, ha detto: «È la versione perversa di Shirley Temple» . I Garbage, invece, gli hanno dedicato una canzone («Cherry Lips»). Tanti complimenti da musicisti non lo hanno lasciato indifferente. «Ho scritto le parole di alcuni pezzi per mia compagna d’ appartamento, una bravissima cantante». Brani ad alta te mperatura rock. Naturalmente. Il bambino prodigio della letteratura statunitense («Sarah» e «Ingannevole è il cuore più di ogni cosa») stasera al Festival Letterature, alla Basilica di Massenzio, leggerà alcuni brani di «Harold’ s end», il suo ultimo racconto. E sarà un piccolo evento perché J.T. ha ridotto i contatti con la gente all’ essenziale, e, di solito, si traveste (anche da donna) per farsi fotografare: «Ma con il tempo il mio grado di socialità sta aumentando». Il reading proseguirà co n Asia Argento e Nada che interpreteranno brani da «Ingannevole è il cuore più di ogni cosa». I suoi romanzi sono autobiografici e raccontano l’ infanzia e l’ adolescenza nomade al fianco di una madre snaturata, fra prostitute, camionisti, droga, abu si sessuali. Le sue storie hanno scatenato la parte «dark» del regista Gus Van Sant che sta lavorando a un film tratto da «Sarah»: «Gus è un amico e una persona straordinaria, la sceneggiatura è a buon punto, ma ancora non sappiamo chi sarà il protag onista». J.T. ha iniziato a scrivere per merito del suo analista. Racconta: «Vivevo per strada, lui diceva che mettere su carta i miei pensieri mi avrebbe aiutato. Ma mi convinse con un trucco, mi propose di scrivere la mia esperienza con consigli pe r gli assistenti sociali cui dava lezioni e che io reputavo idioti. Ho iniziato così, componendo a mano, e inviandogli i fogli con un fax portatile che tenevo nello zaino. Non ho più smesso perché scrivere per me è come mangiare cioccolata». J.T. cam mina con le spalle ricurve e un dito ficcato in bocca. I capelli biondo platino gli coprono il volto, grandi occhiali a specchio gli nascondono lo sguardo, sulle labbra un’ ombra di rossetto. I pantaloni sembra stiano per cadergli per quanto sono lar ghi. Fugge (letteralmente) dai fotografi, ma è un ragazzo gentile. La sua voce è un bisbiglio, flautata e femminile. Sembra perdere il controllo solo quando gli chiedono del nonno, con cui viveva quando la mamma lo abbandonava per strada. «Non lo sen to da molto, è una persona religiosa, per questo da piccolo leggevo la Bibbia». Comunque Jeremiah (è il suo nome) racconta di avere sempre letto tanto: «I classici americani soprattutto. I libri li rubavo, a mucchi». Ora la sua vita è più normale. «V ivo in una casa con degli amici, c’ è anche una bimba di quattro anni. Scrivo quando sono solo, di notte, ho bisogno di tranquillità. Sto preparando un altro libro, ci sarà ancora il mio passato dentro, ma voglio che la gente si interessi alla mia sc rittura e non più a me».

 

Pozzi Gloria, CORRIERE DELLA SERA
– 02/06/2002

 

Waits: «LeRoy è l’ innocenza venuta dall’ inferno»

 

«È la versione perversa di Shirley Temple, un prodigio dei bassifondi». Il cantautore cult Tom Waits parla di JT LeRoy, il ventiduenne del West Virginia proclamato al debutto con Sarah nuovo genio letterario d’ America e di nuovo acclamato per il rom anzo a episodi Ingannevole è il cuore più di ogni cosa (The Heart is Deceitful Above All Things), in Italia fresco di stampa per Fazi Editore (pagine 236, euro 12,50).
Socchiude gli occhi Waits, e cerca nella memoria i ricordi dell’ intervista che, u n anno fa, su commissione di «Vanity Fair», fece allo scrittore-fenomeno, ex bambino prostituto che ha cominciato a scrivere su consiglio dello psicoterapeuta per esorcizzare i traumi della sua fanciullezza negata: «Non chiedo a chi scrive di essere innocente nella vita quotidiana; lo apprezzo se scrivendo esprime sentimenti innocenti», dice Waits. Sostiene che LeRoy è «un’ eccezione in un mondo infernale in cui la cattiva scrittura distrugge la qualità del nostro soffrire», confessa d’ essersi «sorpreso che una persona così giovane scriva in maniera così matura» e assicura che i suoi libri sono tra i più interessanti pubblicati negli ultimi tempi in America: «Li leggi, e ne resti fulminato». Di lettori appassionati e famosi quanto Waits, J T LeRoy ne ha conquistati parecchi con le sue storie d’ ispirazione autobiografica che hanno per protagonisti un ragazzino e la sua mamma adolescente, vagabonda e prostituta, che gli tormenta l’ anima, lo sevizia con frusta e carboni ardenti, lo induce a rubare, a drogarsi, a fare la femminuccia per compiacere i suoi amanti, quando non se lo scorda in un parcheggio, gli insegna a identificare la vita con l’ autodistruzione, il piacere con il dolore. Nell’ elenco dei suoi ammiratori, abbondano le rockstar: Bono degli U2, Sheryl Crow, Courtney Love, Susan Vega; i Garbage di Shirley Manson gli hanno persino dedicato una canzone dal titolo «Cherry Lips», nelle orecchie degli italiani come colonna sonora di una martellante pubblicità tv, che lo descrive come un ragazzo delicato in hot pants e tacchi alti, con labbra che fanno impazzire gli uomini, capace di far apparire l’ arcobaleno e di riappropriarsi della propria esistenza. Tra i fan della prima ora, il regista Gus van Sant, che è pront o a girare un film ispirato a Sarah con Angelina Jolie nel ruolo della mamma; come pigmalione, lo scrittore di fama Dennis Cooper. Ingannevole è il cuore più di ogni cosa comincia con Jeremiah che all’ età di 4 anni viene strappato alla famiglia adot tiva da Sarah, la mamma naturale, figlia di un predicatore ossessionato dal peccato e dalla redenzione, che lo ha partorito appena quattordicenne. LeRoy scrive in prima persona. Racconta esperienze scioccanti, situazioni estreme di violenza e di abus i sessuali con il disarmante candore di un bambino e un linguaggio dal ritmo incalzante e dal doloroso impatto visivo che della crudezza fa poesia. «Non basta aver sofferto per scrivere bene – disse LeRoy nella conversazione con Waits -. Una volta ho letto il libro di uno che era stato in galera. Aveva avuto una vita veramente terribile, ma scriveva così male che non me ne importava niente».
Attorno all’ enfant prodige bestseller Jeremiah «Terminator» LeRoy, un aura di ambiguità e mistero alimen tata da rare interviste concesse esclusivamente via Internet e da set fotografici affrontati puntualmente con il volto mascherato.
Qualcuno addirittura dubita che esista per davvero e insinua che dietro quel nome si nasconda un attempato scrittore ce lebre da tempo; dubbi e insinuazioni che l’ annuncio del suo arrivo al Festival internazionale Letterature di Roma martedì prossimo per il reading di Ingannevole è il cuore più di ogni cosa (con lettrici Nada e Asia Argento) non è riuscito a placare.

L’ incontro con JT LeRoy è previsto per martedì, ore 21, a Roma alla Basilica di Massenzio. L’ autore leggerà il testo inedito «Harold’ s End»

 

 

Brunella Schisa, IL VENERDÌ DI REPUBBLICA
– 31/05/2002

 

Lo scrittore “en travesti” che piace alle rockstar

 


È stato paragonato a Flannery O’Connor, a Charles Dickens e Mark Twain. Certamente le storie che racconta non sono meno strazianti. La differenza è che le sue sono autentiche. JT LeRoy ha raggiunto fama e onori a diciotto anni quando è uscito il suo primo romanzo, Sarah, di cui il regista Gus Van Sant, quello di Will Hunting – Genio Ribelle, sta girando un film. Sarah è la madre di Jeremy, protagonista del primo e del secondo libro, uscito ora in Italia, Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, e che ha conquistato divi rock come Tom Waits e Bono (“Mi ha fatto perdere la testa”).

Diciamolo subito: più che un romanzo è una scarica elettrica, un coltello che si accanisce nella carne. E LeRoy è uno straordinario talento narrativo. Lo vedremo martedì prossimo, 4 giugno, a Roma, ospite al festival di letteratura: un evento, perché lo scrittore ha promesso che, per l’occasione, si presenterà senza travestimenti. Si, perché dell’enfant prodige che adesso ha 21 anni, il pubblico non ha mai potuto vedere la vera faccia. JT ha il terrore di mostrare il suo volto, un po’ perché ha un’identità sessuale piuttosto incerta, un po’ perché definirlo nevrotico sarebbe un understatement.

Il piccolo Jeremy, come il protagonista di Ingannevole è il cuore, ha solo 4 anni quando viene strappato dalla famiglia che lo ha in affidamento per essere riconsegnato alla madre naturale, appena adolescente al momento del parto, che, ora maggiorenne, lo reclama. Figlia di un pastore fondamentalista, Sarah è scappata di casa e vive facendo la lucertola, cioè la prostituta dei camionisti, parcheggiando il figlio nell’auto oppure portandoselo dietro.

Un’infanzia e un’adolescenza on the road tra alcol, droga, sesso, violenza e come unico amico un peluche d Bugs Bunny. Così cresce JT. Il quale, appena adolescente, comincia a battere travestito da donna. Eppure Jeremy non prova rancore, e se gli chiedi se ha mai odiato sua madre risponde: “Succede in tutte le relazioni intense, buone o cattive. A modo suo Sarah ha cercato di essere una brava madre, ma era troppo giovane. E comunque non mi ha mai fatto mancare calore e attenzioni. Ora è morta ma è sempre viva per me”. JT racconta la sua storia senza lamenti né accenti di autocommiserazione: “Se fossi rimasto con i genitori adottivi non avrei scritto libri, forse non sarei neanche uno scrittore, sarei felice, più felice, e non avrei tanta confusione su chi sono. E forse sarei anche meno autodistruttivo”.

Della sua confusa identità sessuale parla con serenità: “Ho lavorato molto col mio terapeuta per capire la mia natura: a volte ho voglia di uscire vestito da ragazzo e lo faccio, altre da donna, e così mi travesto. Voglio cambiare giorno per giorno, ma quando mi mostro in pubblico ho bisogno di proteggermi, non voglio manifestare su un palcoscenico o davanti a una telecamera la fatica che faccio per capire chi sono. Per conoscermi basta la mia scrittura che rivela la mia anima e la mia vera essenza, anche se i miei romanzi non sono autobiografici. In Sarah ci sono i miei organi interni, e tutto il libro è seminato da tracce della mia vita. Ma alcune cose sono pura invenzione: per esempio non ho mai camminato sull’acqua, e mia madre rispetto alla protagonista era più loquace. E aveva meno sfumature”.

 

Gian Paolo Serino, KULT
– 01/05/2002

 

Ingannevole è il cuore più di ogni cosa

 

 

JT LeRoy è la vera rivelazione della narrativa giovane americana degli ultimi anni: non a caso tutte le maggiori riviste letterarie statunitensi hanno salutato il suo romanzo d’esordio, Sarah, come la prova narrativa di un genio, mentre scrittori come Dennis Cooper, registi come Gus Van Sant e musicisti come Bono sono rimasti pubblicamente affascinati dalla prosa di un ragazzino appena ventenne, ma già capace di trascinare sulla carta la propria vita a dir poco disgraziata con la purezza di un classico.

Più che una starlette, però, LeRoy è uno scrittore fantasma: se da una parte, infatti, il contenuto autobiografico dei suoi libri farebbe impallidire “mostri” come William Burroughs, dall’altra di lui non si sa quasi nulla. Come un moderno Salinger in formato “queer”, di LeRoy circola soltanto una foto, non ha mai rilasciato un’intervista dal vivo, non ha telefono, radio e televisione e comunica con il mondo attraverso internet.

Si potrebbe pensare ad una montatura pubblicitaria – le coordinate di mistero ci sono tutte e un “ghost writer”, si sa, incuriosisce sempre – ma ci sono i suoi racconti a sbalordire: e sbalordiscono perché con l’innocenza e la tenerezza di un bambino ti sbattono su una strada dove il teatro dell’assurdo coincide, come raramente accade, con il dramma della vita. I libri di LeRoy sbalordiscono talmente che è impossibile leggerli senza prendere il fiato: attinge nel morboso, e questo innegabilmente avvince, ma è difficile non patirne le ustioni, non cercare una tregua altrove, fuori dalle pagine, nel mondo dei normali, dove tutto non precipita contro il limite.

La voce narrativa di LeRoy è unica perché è una voce disperata che non diventa mai urlo. E la sua grandezza sta proprio in questo: nel farci comprendere la nostalgia e il dramma di chi ha perduto tutto senza avere mai avuto niente.

 

Paolo Biamonte, MUSICA! – LA REPUBBLICA
– 09/05/2002

 

JT LeRoy: l’arte viene dal panico

 

Per trasformare in letteratura l’orrore più atroce ci vuole un talento da Paradiso perduto. Vivere nelle backstreets, prostituirsi, drogarsi, fare i mestieri più infami non forma uno scrittore: solitamente, purtroppo, un universo così genera mostri. J.T Leroy per buona parte dei suoi 22 anni è stato una lucertola, un adolescente che si prostituiva nei parcheggi dei camionisti che mangiano spaghetti con le polpette e amano certo sesso veloce. J.T. Leroy oggi è già una star della letteratura, un concentrato miracoloso di talento che ha scoperto la scrittura grazie a uno psicoterapeuta che lo ha fatto disintossicare e gli ha fatto capire che le parole potevano aiutarlo a fuggire dai suoi fantasmi.

Al resto hanno pensato l’amicizia con Dennis Cooper, lo scrittore più iconoclasta della letteratiura americana moderna e una capacità di scrittura così sorprendente da apparire oggi come una giusta ricompensa per un destino che aveva fatto nascere il genietto del West Virginia in un mondo così orrendo, cresciuto fino a quattro anni con un padre una madre che non erano i suoi genitori. La sua vera mamma era “Sarah” (Fazi, pp. 178, euro 11.36), una prostituta (”oggi è morta, non si è curata un ascesso, sai i tossici non si curano”) cui è dedicato il suo folgorante esordio, un racconto cresciuto fino a diventare un romanzo. Mentre Gus Van Sant sta lavorando alla sceneggiatura del film, dal New York Times al Guardian, da Bono a Tom Waits (che gli ha dedicato una commovente intervista), da Suzanne Vega a Shirley Manson dei Garbage (che gli hanno dedicato la canzone “Cherry lips”) rimbalzano giudizi colmi di sorpresa per l’ opera di questo personaggio di cui fino a poco più di un anno fa si metteva in dubbio persino l’ esistenza. Molti credevano si trattasse di uno pseudonimo adottato da Dennis Cooper, anche perché non esistono fotografie di J.T. Leroy. Lui dal canto suo ha fatto poco o nulla per evitare che il mito crescesse attorno a lui. Il giorno del party per “Sarah” (perfetta la traduzione italiana di Martina Testa), Leroy era in un centro di igiene mentale. Ha semplicemente il panico di apparire in pubblico, accetta di essere fotografato soltanto travestito (”desidero le attenzioni ma al tempo stesso mi terrorizzano, mi sento come King Kong, le persone vogliono incatenarmi”). Dopo un esordio come “Sarah” un artista può anche essere preso dal panico: J.T. invece ha dato alle stampe “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” (Fazi, pp. 237, euro 12.50, bravissima Martina Testa), un gioiello. L’universo raccontato resta quello di “Sarah” ma la struttura di questo romanzo di formazione diviso in episodi aggiunge originalità a un testo che ha fatto nascere paragoni con Flannery O’ Connor, Mark Twain e che fa pensare a uno Hubert Selby jr. del 21mo secolo. Da poco Leroy ha cominciato a partecipare ai dei reading pubblici: il 4 giugno sarà alla prima edizione del Festival Internazionale “Letterature” organizzato dal Comune di Roma. Durante la serata Asia Argento e Nada leggeranno brani da “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa”, poi LeRoy leggerà in inglese un racconto inedito dal titolo “Hardol’d end” apparso sulla rivista “McSweeneys”. Emerso con la forza delle cascate di note della Gibson di Jimmy Page da un universo spaventoso, J.T. Leroy è davvero uno dei pochi scrittori della sua generazione che sia riuscito ad aggiungere qualcosa di nuovo al mondo del già letto. Così come un entomologo riesce a vedere dietro una pietra sollevata da un prato forme di vita invisibili all’occhio comune, J.T. Leroy riesce a mantenere viva la tenerezza laddove sembrano esserci solo morte e squallore. Sembra venire da qui la forza misteriosa della sua scrittura.

 

 

Giorgio Casari , KWMUSICA NOTIZIE
– 08/05/2002

 

J.T. Leroy, ingannevole cuor di scrittore

 

Catalogare sotto: “scrittore maledetto amato dalle rockstar”. Bono e Shirley Manson impazziscono per questo 22enne che ha vissuto molto pericolosamente. L’intervista di kwMusica 

Sta per essere pubblicato in Italia da Fazi Editore il nuovo libro di J. T. Leroy, Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, un giovanissimo (oggi ha ventidue anni) autore americano che con il suo primo romanzo, Sarah (uscito l’anno scorso in Italia sempre per Fazi), si è guadagnato in madrepatria attestati di stima da alcune delle riviste più prestigiose, non solo letterarie, e da alcuni nomi importanti della “pop culture” mondiale, Tom Waits e Bono degli U2 fra i primi.

La sua biografia supera l’epos della beat generation: a pochi anni di vita JT viene strappato dall’affetto dei suoi genitori adottivi e costretto a seguire la sua madre naturale appena diciottenne, Sarah, in un peregrinare randagio attraverso le città e le strade di un’America selvaggia e misteriosa. Appena dodicenne, inizia la vita della “lucertola di parcheggio” si prostituisce nelle aree per camionisti – si ritrova da solo a San Francisco, abbandonato da sua madre e costretto agli espedienti più bizzarri per poter sopravvivere.

Spinto da uno psicanalista dei servizi sociali, Leroy inizia a scrivere racconti che rivelano un talento puro, incredibile. Con lo pseudonimo di Terminator si guadagna un contratto con la prestigiosa casa editrice Bloomsbury e la protezione di scrittori famosi quali Dennis Cooper e Mary Gaitskill e di personaggi della musica e del cinema come John Waters e Suzanne Vega.
Nel 2000 esordisce con il romanzo autobiografico Sarah: il lavoro ottiene riconoscimenti unanimi e clamorosi e viene tradotto in tutto il mondo. Gus Van Sant ne acquista i diritti cinematografici, i Garbage dedicano al protagonista Cherry Vanilla il singolo Cherry Lips. Shirley Manson dichiara: “Quando ho letto JT Leroy è stato come quando ho ascoltato per la prima volta Billie Holiday o Kurt Cobain”. Ingannevole è il cuore più di ogni cosa , entra subito nelle classifiche dei romanzi più venduti e segna il definitivo affermarsi del suo talento: è un autentico pugno allo stomaco e nello stesso tempo possiede squarci di una dolcezza inquieta ed inattesa. Leroy, notoriamente restio ad apparire in pubblico, farà una sola straordinaria eccezione proprio per l’Italia, il 4 giugno a Roma, in una serata a cui prenderanno parte Asia Argento e Nada, dove presenterà un CD musicale messo insieme assieme a due suoi amici e compagni

Un personaggio ai limiti dell’incredibile, quindi, a cui abbiamo avuto la fortuna di poter rivolgere qualche domanda e di ottenere qualche risposta decisamente fuori dal comune.

La sua scrittura esprime ribellione, contro tutti e tutto.
Mi ribello pure alla mia scrittura; il mio terapista può confermare che mi sono ribellato molto anche a lui.

Domanda d’obbligo: quanto c’è di autobiografico nei suoi libri?
L’impressione che ho è che quando si leggono i libri, che si tratti di materiale autobiografico o di finzione, alla fine questi hanno come il sapore delle viscere di qualcuno. Non c’è modo di evitarlo. In Sarah c’è tutto, la mia essenza, come sono. I due lavori sono profondamente interconnessi, quindi posso dire che si tratta di fiction autobiografica.

Perché tanta spudoratezza nel raccontare di sé e tanta resistenza ad apparire in pubblico?
Il “lavoro interiore” è ciò che fa di me una persona migliore. Se fossi là fuori a prendermi tutti gli applausi e l’attenzione, tornerei in poco tempo ad essere un tossicodipendente. Il mio obiettivo principale è quello di stare alla larga dalle droghe! Quando sono alle feste, invece, c’è sempre chi mi offre della droga. In un certo senso, è come se bramassi quell’attenzione positiva che non ho ricevuto da bambino.

Non crede che l’ammirazione di tante rockstar nei suoi confronti sia in definitiva anch’essa un cliché?
Per niente. Sono uno scrittore, un artista, e sono attratto dal lavoro di altri artisti. Non mi importa della fama, ma della qualità del lavoro. Io, come milioni di altri, sono toccato da persone come Bono degli U2. La musica è importantissima per me, ed è stato meraviglioso riuscire a incontrare i miei eroi. Bono ha scritto su Rolling Stone di essere stato letteralmente folgorato dai miei libri, e mi ha invitato a un suo concerto. E’ stato fantastico riuscire a conoscerlo. E poi c’è Shirley Manson, che su di me/Sarah ha scritto la canzone Cherry Lips, contenuta nell’album Beautiful Garbage. Sono uscito con Michael Stipe ed Eddie Vedder: che onore! E’ come un muratore che esce con altri muratori e dice “Hey, mi piace come lavorate!”. Nessuno direbbe che si tratta di un cliché.

Con quale musica è cresciuto?
Mi piace tutta la musica, ma quello che preferisco è il buon vecchio pop rock. Adoro Shirley Manson e i Garbage, Bono e gli U2, Michael Stipe e i R.E.M., Eddie Vedder e i Pearl Jam, i Weezer, gli Strokes. Ho una vera e propria venerazione per Madonna, ma mi piacciono anche gruppi meno mainstream come Jawbreaker, Jawbox e New End Original. In Italia apprezzo moltissimo Asia Argento e il modo in cui risponde alle domande nelle interviste.

In Rete:

Jtleroy.com
J. T. Leroy su Village Voice
Leroy su Fazi

 

 

Di Alessandro Cassin, da New-York, L’ESPRESSO
– 25/04/2002

 

American pulp

 


American pulp
Ames, Gaitskill, Leroy : scrittori per stomaci forti. Da scoprire sul web. E presto anche in libreria

Sono giovanissimi, hanno una notorietà acquista come opinionisti di riviste underground (come Ny Press) e on line (Nerve.com). Il loro siti sono formidabili uffici stampa autogestiti nonché portali per una comunicazione diretta con il pubblico. Sono cresciuti lontani da i corsi di scrittura creativa: la loro scuola è la strada. Questo è l’identikit dei nuovi ragazzi terribili della letteratura americana. I loro alter ego letterari incarnano il lato oscuro della vita, la dipendenza dalle droghe, il sesso declinato in ogni sua perversione. Libidine e autodistruzione fanno da sfondo a vicende in cui abbondano esibizionismo, umorismo scatologico e prostituzione transessuale. Il linguaggio tagliente, crudo, pieno di slang ricorda, fatte le dovute proporzioni, quello di William Burroughs. Sono oggetto di culto tra gli studenti, ma anche scrittori di fama come Philip Roth ne apprezzano il talento e la spregiudicatezza. Una letteratura per stomaci forti.
A 23 anni, Jonathan Ames è lo scrittore più rappresentativo della New York trasgressiva. Vive a Brooklyn, più precisamente a Dumbo (Down Under Manhattan Bridge Overpass), il quartiere vicino al ponte di Manhattan che sta emergendo come il nuovo Grennwich Village, dimora della nuova generazione degli arrabbiati. Nella fiction di Ames, New York diventa una sorta di personaggio. Il suo rapporto con la Big Apple è fortissimo: “Non riesco a immaginarmi altrove. A Parigi o in California tutti sognano New York, e allora perché andarmene?”. La sua è una scrittura che parte dall’autobiografia per cercare un rapporto diretto con il reale; lui stesso la definisce “exagerated non-fiction”.
Dopo il successo del primo romanzo, “I Pass Like Night”, la consacrazione arriva con “The Extra Man” (in Italia lo pubblicherà Einaudi con lo stesso titolo), un romanzo di formazione di fine secolo, in cui l’educazione (a)morale del protagonista ci trascina attraverso ogni possibile perversione psico-sessuale, il tutto condito con un umorismo graffiante e uno stile alla Raymond Carver. Una selezione dei suoi articoli, ammirati da Brian De Palma, è uscita con il titolo “What’s not to love? Adventure of a Mildly Perverted Young Writer” (Che significa non amare? Confessioni di un giovane scrittore leggermente pervertito). Nonostante i suoi punti di riferimento siano extraletterari, è difficile non pensarlo come un nipotino di Charles Bukowsky. Ames è anche un pugile dilettante (un suo incontro trasmesso via Internet alle tre di mattina è stato seguito da 4.400 aficionados), e si esibisce in teatri e club nel circuito degli “spoken word artist”. Un suo monologo, “Oedipussy” (dove “pussy” sta per vagina), ha vinto un Guggengeim Fellowship. Per conoscerlo meglio, basta aprire il suo sito (www.jonathanames.com), ricco di filmati che ne descrivono le varie attività, o cercare la sua rubrica “City Slicker” (il viscido di città) su NyPress.com.
Se Ames è il cantore di New York, JT Leroy, 22 anni, è più vicino all’America profonda. Originario della Virginia, ha vissuto un po’ dovunque fino a stabilirsi a San Francisco. Molto prolifico e grande promotore di se stesso, è oggi una star contesa da salotti letterari, cinema, rock star e chat rooms. Ha alle spalle un’infanzia traumatica che esorcizza scrivendo. A quattro anni viene prelevato dalla famiglia adottiva dalla madre, diciottenne tossicodipendente, che lo trascina on the road. La madre, Sarah come la protagonista del romanzo omonimo (pubblicato in Italia da Fazi), vive prostituendosi con camionisti negli svincoli autostradali.
A 14 anni un assistente sociale gli consiglia di scrivere e cosi “JT” trova la sua vocazione. Tra i 14 e 17 anni butta giù di getto i racconti autobiografici che diverranno “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” (in uscita da Fazi); JT, che è senza fissa dimora, si compra un fax e diventa una sorte di agente letterario a se stesso, inviando i suoi scritti a siti su Internet, case editrici e ai suoi idoli letterari. In breve viene “adottato” da fratelli e sorelle maggiori che lo presentano al grande pubblico. Tra i suoi promotori ci sono Courtney Move, la band Garbage, Gus Van Sant e gli scrittori Mary Gaitskill e Dennis Cooper.
I racconti di Leroy sono una sorta di strip-tease letterario senza pudore. E offre ogni informazione su di sé nel sito www.jtleroy.com, aggiornato settimanalmente. Nella vita invece, desidera rimanere invisibile: accetta solo interviste via e-mail o al telefono e fa circolare fotografie con la faccia occultata o coperta da vistose parrucche. JTLeroy ama il cinema e il cinema ama la sua prosa. Il regista Gus Van Sant (“My Own Private Idaho” e “Good Will Hunting”) girerà un film tratto da “Sarah” e ha opzionato due racconti. Al momento Leroy sta lavorando a un altro romanzo, completando una sceneggiatura insieme a Van Sant per il canale Tv Hbo e creando una serie televisiva chiamata “House Arrest”. Se non bastasse, sta completando anche una raccolta di poesie.

La più anziana del gruppo, Mary Gaitskill, la cui antologia “Because They Want To”, nel 1998, era stata sei settimane nella lista dei best-seller del”New York Times”, è tornata sulla cresta dell’onda facendo da sponsor a JTLeroy. Il suo stile è certamente più maturo, complesso e ricco di valenze metaforiche, ma le tematiche sono affini. La Gaitskill ci trascina con feroce onestà nella vita di personaggi che la società e la letteratura generalmente ignorano, e li racconta senza sentimentalismi o pudori.
Anche per lei una biografia da road movie: nata in Kentucky nel 1954, scappa di casa a 16 anni e comincia a fare la spogliarellista. Si trasferisce nel Michigan, si laurea in giornalismo e a 21 anni pubblica le sue prime prose. Il filo conduttore dei suoi romanzi (“Cattiva condotta” e “Due donne, grassa e magra” sono usciti anni fa da mondatori) è l’analisi dei meccanismi che creano o impediscono l’intimità (sessuale e emotiva) tra le persone. Vive tra New York e San Francisco e, come Ames, si esibisce in letture pubbliche e performance. I suoi racconti sono pubblicati regolarmente su Internet da “Salon” o da “Nerve.con”, magazine di letteratura per il web con brevi racconti dark, sessualmente espliciti: ci scrivono regolarmente anche Leroy e Dennis Cooper.
Non immuni dai cliché della letteratura trasgressiva di tutti i tempi, Ames, Leroy e Gaitskill hanno un’arma in più: l’autoironia. Non costituiscono un movimento letterario, ma un trend, capace di attrarre un pubblico variegato che finora alla letteratura preferiva il cinema, Internet e il rock. Scusate se è poco.

 

Maura Murizzi, IL MUCCHIO
– 01/04/2002

 

JT LeRoy. Ingannevole è il cuore più di ogni cosa

 


Abbracciata, o meglio sorretta, a una bottiglia di candeggina, ecco tornare in copertina la mitica Barbie Mattel e le sue irresistibili forme anatomiche. L’occasione è il nuovo libro di JT LeRoy, che a un anno esatto da Sarah torna alla ribalta con un romanzo a episodi che di acidi e giochi, macchie da lavare e trucchi da bambola fa praticamente la sua cifra stilistica. E ancora una volta spiazza con una storia che non sapremmo se definire terribile (in quanto autobiografica) o maledettamente cinematografica, ricca com’è di situazioni estreme, di ambienti e personaggi sopra le righe, di gergo di strada e ritmo sincopato.
Come e più che nel libro precedente, conquista lo stupore infantile con cui il piccolo Jeremiah racconta di travestimenti e carbone, siringhe e fruste, devozione materna e moniti biblici, e l’affetto con cui ricrea un mondo di camionisti, lucertole da parcheggio e fanatici religiosi senza risparmiare episodi di masochismo a tratti comici (quando ad esempio, per spirito di emulazione, si veste col baby doll della madre e ne seduce sculettante l’amante), più spesso sinceramente insostenibili (per l’abbondanza di sangue, lacrime, cinghie e sperma altrui che segnano il corpo androgino del ragazzino).
Scritto con una dovizia di particolari e una spietatezza nei confronti delle proprie perversioni che riportano direttamente a Dennis Cooper, Ingannevole è il cuore più di ogni cosa assomiglia più a una terapia disintossicante che a una storia raccontata per il piacere di scrivere, più a un privatissimo atto d’amore nei confronti della madre, eternamente bella e impossibile, che a un romanzo “per” (spesso compiacere) il pubblico. E tuttavia possiede un ritmo così incalzante, un’alternanza così perfetta tra dialoghi e immagini, riflessioni e personaggi, pause e racconto, da risultare un libro morbosamente visivo e narrativo. Che, stando ai giudizi sbilanciati di Tom Waits e Bono Vox, Shirley Manson e Suzanne Vega, non potrà deludervi.

 

Pierluigi Diaco, IL FOGLIO
– 30/04/2002

 

J. T. Leroy, Ingannevole è il cuore più di ogni cosa

 


Finalmente c’è qualcuno che parla dei Tampax che assorbono il male, della candeggina che lava via i peccati, della polvere di cristallo, di siringhe, acidi, bambole, di poliziotti curiosi e poi di Sarah, Jeremiah e gli altri. Finalmente c’è J. T. Leroy che ne parla con armoniosità e senza quella passioncella da maniaco militante. Dopo il grande successo di “Sarah”, è uscito il suo secondo libro “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” edito da Fazi, un altro libretto per gente che sa trasformare il dolore in bellezza e dolcezza, senza perdere tempo a leggere quei manuali di sopravvivenza scritti dai vari ex comunisti o ex motivati che si interrogano sul loro io apostolico. J. T. Leroy lo mandi giù come una pasticca, se vuoi lo sputi o lo vomiti con il godimento assicurato che regalano queste manifestazioni di rifiuto, oppure perdi la testa come è successo a Bono Vox, facendogli perfino dimenticare per qualche ora i suoi numerevoli e noiosissimi atti di solidarietà. J.T.Leroy è l’eroe della mia generazione, è la risposta gassosa e più divertente ai vari scrittori generazionali come Coupland o la sanremese Santacroce, è letteratura che piace come un disco e che fa sognare con l’LSD. Correte ad acquistare questo capolavoro del giovanilismo transgenico e globale e masturbatevi per l’occasione.

 

Andrea Colombo, ALIAS-IL MANIFESTO
– 04/05/2002

 

Fare la vita e trascriverla: J. T. Leroy

 


Nel paese degli orrori, dell’abbandono, degli stupri e della mania religiosa, della prostituzione infantile e dell’ambigua identità sessuale, Alice resiste e sopravvive in virtù di uno sguardo che sa trovare l’incanto in mezzo alle turpitudini, la meraviglia nella perversione. Alice, in questa sua ultima incarnazione, è un maschio oggi ventiduenne. Ma sua madre, puttana da parcheggio camion, in gergo una “lucertola”, adorava vestirlo da ragazza, presentarlo come sua sorella, farlo partecipare ai giochi sessuali con i clienti. Si chiama j. t. leroy: la “j” sta per Jeremiah, la “t” per Terminator, il nick con cui circolava su Internet prima della fama (e ancora oggi: www.jtleroy.com).
Con il suo primo romanzo, Sarah, è diventato qualcosa di più di uno scrittore di successo: una superstar pop. Gus Van Sant, che dell’autore è diventato grande amico, sta per ricavare un film dal libro. I Garbage hanno dedicato allo scrittore e al suo personaggio, Cherry Vanilla, un hit, Cherry Lips. Courtney Love lo ha portato alle stelle nel suo sito internet, Tom Waits lo ha voluto intervistare di persona per “Vanity Fair”. Su “Vogue” è uscito un servizio fotografico di lusso firmato da Steven Klein. j. t. compare sempre truccato, irriconoscibile, solitamente vestito da donna.
Ingannevole è il cuore più di ogni cosa (Fazi editore, pp. 236, euro 12.50) è il suo secondo romanzo, anche se è stato scritto prima di Sarah e racconta le vicende che precedono quelle narrate nel romanzo d’esordio. Spiega come e perché Cherry Vanilla è diventato quello che i lettori hanno conosciuto in Sarah. Partorito controvoglia da una madre quattordicenne e sbandata, Jeremiah viene dato in affidamento a una famiglia modello, per quattro anni cresce circondato da calore e protezione. Quando compie 18 anni la madre lo reclama, riesce a prenderlo, lo trascina in una vita di strada, tra un fidanzato e l’altro, tra una marchetta e l’altra. Ogni tanto scompare, e il bimbo viene spedito dai nonni, una torva famiglia di sadici maniaci religiosi. È qui, più ancora che nei parcheggi e nei motel dove vive con la madre, che Jeremiah impara a identificare il piacere sessuale con il dolore.
Leroy ha il dono di precipitare il lettore nel suo mondo, di ottenere con il minimo della retorica il massimo effetto di immedesimazione empatica. I primi capitoli del libro, il brusco passaggio del protagonista dalla normale condizione di bambino amato e protetto alla girandola di orrori in cui lo precipita mamma Sarah, sono ancora più duri e strazianti delle efferatezze descritte in seguito. Ma la forza di j. t. leroy è proprio l’evitare metodicamente ogni lamentosità, ogni appello alla commozione facile. Al contrario, senza togliere nulla al crudo orrore della sua storia, riesce a far sentire che il viaggio nella follia è anche, a modo suo, la lunga escursione in un allucinato e allucinante paese delle maraviglie. È per questo che i suoi due romanzi si staccano dalla semplice autobiografia, e gli permettono di dichiarare che, pur basati su esperienze reali, sono opere di fiction.

 

 

PUBLISHERS WEEKLY
– 18/06/2001

 

INGANNEVOLE E’ IL CUORE PIU’ DI OGNI COSA di JT LeRoy

 

L’anno scorso LeRoy ha raggiunto la notorietà con Sarah, la storia di un bambino la cui madre si prostituisce nei parcheggi di camionisti. Il suo nuovo romanzo, Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, ti inchioda alla sedia. LeRoy torna ai temi della colpa e del peccato con la voce in prima persona di un bambino che subisce violenze tali dai suoi custodi da restare con un senso vaghissimo della sua stessa identità sessuale. Jeremiah è un bambino che nessuno vuole, e passa rapidamente dai genitori adottivi alla sua vera madre, Sarah, adolescente vendicativa e piena di rabbia, ai nonni fanatici religiosi. Sarah, a sua volta profondamente ferita dalle punizioni dei suoi genitori ossessionati dalla Bibbia, ha partorito Jeremiah quando aveva quattordici anni; a diciotto anni torna a reclamare il suo bambino.“Nessuno mi leva quel che è mio,” sbraita la giovane donna, sboccata, impasticcata, paranoica. Diventa subito chiaro che a Sarah non importa molto di suo figlio, sgradita palla al piede nelle nomadiche disavventure di lei, che attracca vecchi bavosi, fa spogliarelli, fa marchette ai camionisti e prepara cristalli esplosivi nella cantina di uno dei suoi ragazzi. Jeremiah, che comincia a desiderare le punizioni di Sarah come modo per mantenere qualche forma di equilibrio nella sua vita, viene spesso frustato per aver fatto pipì a letto e viene violentato dai ragazzi di lei. Negare la propria identità sessuale diventa un patetico tentativo di identificarsi con la sua carnefice. LeRoy dipinge i suoi personaggi malati con la stessa dolcezza di Jean Genet, e descrive i loro atti di sadismo e automutilazione con la spietatezza di A.M. Homes. Eppure le sue storie evitano di cadere nella spirale del mero sensazionalismo. L’opera di LeRoy è uno straordinario traguardo verso la sua crescente maestria della forma letteraria.

 

 

Giuseppe Culicchia, TUTTO LIBRI – LA STAMPA
– 04/05/2002

 

Per Jeremy com´è matrigna l´America

 

CHI ha letto Sarah, romanzo d’esordio che l’anno scorso ha rivelato il talento dell’americano J. T. Leroy, certo non l’avrà dimenticato. E l’incredibile delicatezza con cui il giovanissimo autore è riuscito a raccontare in quel libro la vita disperata dell’adolescente Jeremy, che finisce per prostituirsi come sua madre (una “lucertola da parcheggio” di quelle che lavorano con i camionisti nelle stazioni di servizio) e per assumerne il nome quando truccato e vestito come lei va sulla strada, torna miracolosamente a illuminare le pagine terribili di Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, romanzo che deve il titolo a un passo della Bibbia e che riprende i due protagonisti della prima prova narrativa cogliendoli nel periodo immediatamente precedente. Jeremy non ha che quattro anni nel momento in cui per lui il mondo si mette alla rovescia, rivelandosi ingannevole, crudele e pericoloso. I suoi genitori, infatti, non sono quelli (adorati) che lo hanno allevato, e la sua vera madre, Sarah, diventata maggiorenne e ottenuta la tutela del figlio da parte del tribunale è tornata a riprenderselo. Da un giorno all’altro, niente più coccole né attenzioni, né macchinine regalate a ogni progresso nel vestirsi da solo o come premio per il suo comportamento con la baby-sitter quando papà e mamma la sera escono. Per Sarah quelli sono solo i capricci di un bambino viziato, che deve abituarsi a vivere dove capita, in una roulotte, nella cabina di un camion o a casa del primo sconosciuto disposto a fare un po’ di sesso a pagamento con lei. La tenerezza dei genitori adottivi viene sostituita dalla violenza fisica (e non) di sua madre, ragazzina sottrattasi a una famiglia dominata da un fanatismo religioso folle e sadico, che deve i rari istanti di buon umore all’alcol o alla droga e che memore delle torture paterne pratica sul figlio un vero e proprio terrorismo psicologico. A Sarah le lacrime di Jeremy, che non si rassegna alla perdita di quelli che per lui sono i suoi veri genitori, danno fastidio al punto da spingerla a raccontargli cose tremende: loro non solo non lo vogliono più, ma lo odiano, vorrebbero coprirlo di sputi, bruciarlo vivo, addirittura crocifiggerlo. Lo stesso per i poliziotti che si prendono cura di lui quando un giorno tenta di raggiungere a piedi la sua “vera” casa: guai a fidarsi di loro, potrebbero fargli di tutto. Terrorizzato, Jeremy viene lasciato per ore e a volte per giorni da solo davanti ai cartoni animati, e quando bagna il letto viene costretto dalla madre a tenersi le stesse lenzuola e gli stessi pantaloni, “così impari”. Assillata dalla mancanza di soldi, Sarah è costretta a dormire col figlio sulla vecchia automobile. Un tipo col cappello da cowboy conosciuto in un bar se la porta a casa senza accorgersi del bambino, che la madre obbliga a rimanere nascosto nello spazio tra il sedile posteriore e quelli di fronte; poi, quando dopo ore e ore trascorse al freddo Jeremy bussa alla porta, lei lo fa passare per suo fratello, e quando lui se la fa addosso sui cuscini che il cowboy gli ha messo nella vasca da bagno a mo’ di giaciglio, l’uomo lo picchia a sangue con la cintura di cuoio. Altri uomini fanno di peggio, ma quando Jeremy viene violentato Sarah nei suoi confronti non prova altro che gelosia: e se la prende più col figlio che con chi ha approfittato della sua innocenza. Quello che più colpisce, però, è come malgrado tutto l’innocenza di Jeremy resti intatta. Insieme a sua madre impara a rubare nei supermercati e a drogarsi, a bere e a travestirsi. Persino le torture cui viene sottoposto durante i suoi più o meno brevi soggiorni dal nonno (che vorrebbe riportare il nipote sulla retta via a forza di frustate e preghiere, bagni bollenti e passi della Bibbia) diventano per il bambino segni di attenzione, tanto che a un certo punto comincerà a desiderarli; eppure Jeremy non è altro che alla ricerca disperata di affetto, e la cattiveria degli adulti non riesce a corrompere l’ingenuità del suo sguardo continuamente capace di meravigliarsi. Nato nel 1980, J. T. Leroy ha cominciato a pubblicare racconti all’età di sedici anni. Ora ha scritto con Ingannevole è il cuore più di ogni cosa un libro allo stesso tempo incantato e amarissimo, allucinato e pieno di poesia, ricco di sfumature e capace come pochi di raccontare la disperazione attraverso gli occhi dell’infanzia.

Copyright ©2002 La Stampa

 

 

Andrea Affaticati, VOGUE
– 06/05/2002

 

Ingannevole è il cuore più di ogni cosa

 

Ha 22 anni, ma a vederlo sembra uno di quei ragazzini americani che “volano” con il loro skateboard sui piazzali delle shopping mall. Un’immagine che vale la pena tenere a mente quando si inizia a leggere il suo secondo romanzo “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” (Fazi Ed.). Un pugno allo stomaco sin dalla prima pagina. Un pugno ancora più violento se si sa che tutto quello che scrive è storia vera. Certo, anche il suo precedente “Sarah” non era fiction allo stato puro ma leggermente “virato” a questa. E comunque “Sarah” cioè, il protagonista (alias l’autore), che in un disperato tentativo di essere amato dalla madre si fa chiamare come lei, aveva già raggiunto la soglia della pubertà. Aveva già iniziato a lavorare nei piazzali delle autostrade, nei parcheggi dei camion, a essere una lucertola. In questo, no. Qui lo conosciamo bimbo di quattro anni, prelevato da amorevoli genitori affidatari e ora in balia della madre naturale appena 18enne, che senza andare troppo per il sottile lo rende prima partecipe e poi parte attiva della sua vita tra camionisti e balordi di ogni tipo. E se il grande Gus Van Sant ha amato tanto “Sarah” da farne un film, non meno dovrà colpirlo questo “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” (il titolo è tratto da una frase del Libro di Geremia). Un libro che è più convincente del pecedente. Più secco, più asciutto. Stile prendere o lasciare. E si che è stato scritto prima di “Sarah”. “Già, avevo 17 anni e “Baby Doll”, uno dei racconti che lo compongono, era stato inserito nell’antologia di storie vere “Close to the Bone”. Ho iniziato a scrivere su suggerimento del mio terapeuta. Il successo che ebbe quel racconto mi spaventò molto. Lo so che la gente ama frugare un po’ nel torbido delle vite altrui. E va bene così. Solo che io avevo bisogno di altro. Il mio talento, se c’era, doveva reggersi sui suoi piedi. Non sulla mia storia personale. Entrai in contatto con alcuni autori, Dennis Cooper, Mary Gaitskill. Ed è a lei che tra i tanti devo molto. Mi fece leggere Nabokov, Flannery O’Connor. Dovettero passare due anni prima di tornare a scrivere. Iniziai “Sarah” quasi per gioco, volevo raccontare qualcosa sul folklore magico della West Virginia, sugli ossi di pene di procione”. Finora J.T. LeRoy ha evitato di apparire in pubblico (alle presentazioni manda i suoi amici) e se veramente verrà in Italia questo mese come promesso sarà davvero un evento (soprattutto per lui). “Odio la gente che mi dice, ho letto i tuoi libri, sono fantastici non vedo l’ora di leggere il prossimo. Mi prende il panico. E chi mi garantisce che so veramente scrivere e non solo rovistare dentro di me?”. E’ per questo che macina anche sette libri in una settimana. E’ per questo che nelle interviste che fa a rock star, registi e artisti per riviste come “Shout”, “7 X 7” gli preme soprattutto far emergere una cosa: “Credo che l’arte sia un modo per dare un senso alla vita. Quello che a me interessa è sapere come hanno trovato la loro strada, come si sono lasciati andare alla creatività senza perdersi ma trasformandola in qualcosa di valido”. Sarah non l’aveva tolto del tutto dalla strada “ora invece ho travato un altro modo per calmarmi. Vado a correre per le strade di San Francisco, alle due di notte, corro finché non sono sfinito. Poi mi metto a chattare sul mio sito www. jtlereoy.com”. Si firma ancora Terminator, lo pseudonimo che utilizzava ai tempi delle sue prime collaborazioni con il New York Post. “Ho ancora molta strada da fare” così dice lui. E chissà se può aiutarlo sapere che, stando a “Ingannevole è il cuore…”, la distanza che ha posto tra sé e il suo giardino di cemento non è poi così labile.

 

Monica Rolando, “IO DONNA – CORRIERE DELLA SERA”
– 04/05/2002

 

Viaggio nella notte americana

 

CASI LETTERARI. L’amore dolente e inossidabile per la madre che lo ha avviato alla prostituzione. Un paesaggio di autostrade, motel, droga. E la scrittura come terapia per salvarsi la vita. Mentre arriva in Italia il suo secondo bruciante romanzo, parla l’autore rivelazione di Sarah.
L’infanzia non sempre è l’età incantata dei trilli alla Disney, dei dolci Chupa Chups da succhiare ascoltando Biancaneve, dell’incondizionata fiducia nell’amore di mamma. J.T. LeRoy è sopravvissuto a quegli anni d’oro grazie alla scrittura. Anni fa, a S. Francisco, in un ospedale in cui era finito per droga, ha incontrato uno psicoanalista che – grazie a un saggio trucco terapeutico – lo ha indotto a scrivere. LeRoy non ha più smesso e i libri ai quali ha affidato la disperata autobiografia dei suoi primi vent’anni di vita lo hanno salvato. Il suo esordio, Sarah, che il regista Gus van Sant sta ora trasformando in un film, è stato uno straordinario “caso” letterario. J.T. affidava a quel romanzo l’amore dolente e inossidabile per una madre, “lucertola da parcheggio”, che lo aveva avviato fin da bambino alla prostituzione. Il successo ha reso questo ragazzo, che oggi ha 22 anni, ancora più schivo, di lui circola una sola fotografia, non ha mai accettato di mostrarsi in pubblico. Lo farà in Italia, il 4 giugno al Foro Romano, in occasione del festival Letterature del Comune di Roma, che segue alla pubblicazione di Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, in uscita in questi giorni da Fazi. Questo secondo romanzo fa un passo indietro e narra in prima persona l’infanzia di un angelo caduto, Jeremiah, che fino all’età di 4 anni vive affidato alle amorevoli cure di una famiglia normale. Poi, però, Sarah, la madre naturale, compie 18 anni e torna a prenderselo perché “è suo”. Di lì comincia la sua orrenda discesa agli inferi. Autostrade, motel, camionisti, miseria, espedienti, anfetamine buttate giù come aspirine, hamburger riesumati dalla spazzatura dei fast-food. Visioni agghiaccianti filtrate dalla fantasia di un bambino che cerca di sopravvivere, alimentato solo da una tenace passione per sua madre. Sarah traveste il figlioletto da bambina, perché così è più facile che i suoi amanti lo accettino. E lo molestino. A volte, sfiancata dalla droga, lo dimentica o lo abbandona qua e là, e J.T. viene spedito a casa del nonno, un predicatore del Sud che somiglia ai folli di Dio di Flannery O’Connor, tutti Bibbia e sadismo.La sua cinghia implacabile è l’unico gesto che Jeremiah percepisce come amorevole, una pratica ricorrente, più tardi, nei suoi fantasmi sessuali. LeRoy per anni ha fatto marchette. Alla fine, la vita del marciapiede gli era divenuta così insopportabile che per continuare doveva strafarsi di droghe. Poi ha impugnato la penna, ha oltrepassato lo specchio e ha scritto un’acida Alice nel paese delle meraviglie dei nostri tempi duri.
Come ha reagito all’enorme successo di Sarah?
Non me lo aspettavo. Il regista cinematografico John Waters mi disse: “Rifiutare la fama è la cosa più antiamericana che puoi fare”. In realtà, io mi sento molto poco americano. All’inizio credevo che il successo mi avrebbe guarito, che le recensioni positive sarebbero state la mia miracolosa panacea, ma poi il libro è entrato nella lista dei best-seller e la mia vita è rimasta identica. Continuavo a odiarmi, mi infliggevo tagli e bruciature per sentire qualcosa di diverso. Solo il duro lavoro in analisi può curare ferite come le mie. Il desiderio feroce dell’applauso e dell’approvazione del pubblico è la ricerca di un’attenzione che non mi è stata concessa da bambino, ma non posso certo aspettarmi che il successo riempia quel buco nero. Però, devo ammettere che conoscere i miei eroi è stato fantastico. Bono degli U2 ha dichiarato alla rivista “Rolling Stone” che la mia scrittura lo ha travolto. Mi ha invitato a un concerto e ci siamo incontrati. Shirley Manson dei Garbage ha scritto addirittura una canzone per me, Cherry Lips, che è nel loro ultimo album Beautiful Garbage. Ascoltarla è stato un grande onore.
Cos’è la solitudine?
Non riuscire a scrivere, trovarmi nell’impossibilità di raggiungere le emozioni intrappolate dentro di me che gridano per venire alla luce. E’ una terra di nessuno nella quale mi sento solo e tagliato fuori da tutto, finché non riesco a trasferire tutte quelle sensazioni sulla pagina.
Cos’è l’inferno per lei?
L’inferno sarebbe tornare a prostituirmi sulla strada. So bene di cosa si tratta e non voglio che accada di nuovo. Gli uomini sul marciapiede ti scrutano come se fossi una mercanzia in vetrina, ti vogliono solo per il sesso. Alla fine, lo facevo solo imbottendomi di droghe. Non sopporto più che la gente mi guardi. E’ come se riuscissi a sentire il brusio di ciò che pensano di me, un’eco di giudizi terribili che cresce di volume e di intensità come una radio impazzita che non riesci più a spegnere.
Il “sesto senso” che lei dichiara di aver sviluppato grazie alla prostituzione le è servito in altre circostanze della vita?
Credo che sia qualcosa che ho imparato ad ascoltare ancor prima del sesso. La necessità di capire al volo una situazione pericolosa mi ha insegnato un atteggiamento di ipervigilanza. Non era segno di una particolare intelligenza, ma del puro istinto di sopravvivenza. Tempo fa sono stato a Hollywood a scrivere una sceneggiatura e mi ha colpito la somiglianza di quel mondo con quello del marciapiede. Per fortuna avevo un buon allenamento per l’abitudine a trattare con i magnaccia. Pensavo di essermi lasciato la prostituzione alle spalle, ma mi sono accorto che non c’era poi una gran differenza.
In Internet, un mondo che frequenta volentieri, lei si fa chiamare Terminator. Perché?
Era il mio pseudonimo quando facevo marchette. Era il soprannome che mi avevano dato gli altri ragazzi di strada perché ero timidissimo. Quel nome giocava sul fatto che Terminator era proprio l’opposto della mia personalità.
Scrivere è un processo naturale oppure è una dolorosa fatica?
La mia routine è quella di evitare di scrivere a tutti i costi. E’ un odio-amore. Scrivere è la cosa peggiore del mondo, ma a volte non riuscire a farlo è ancora più doloroso. Quando scrivo è come se la mia pancia fosse direttamente collegata alla tastiera del computer, ma allo stesso tempo c’è una specie di distacco, perché mentre scrivo non provo emozioni. E’ come se stessi tessendo le ortiche senza guardarmi le mani finché non ho finito. Di solito scrivo tutta la notte. Sarah è nato da un’infinità di notti in bianco a tè verde e latte di soia.
Perché ha scelto San Francisco come base?
Ero lì con mia madre quando lei se n’è andata per sempre. Volevo uccidermi. L’unica cosa che mi tratteneva era il terrore dell’inferno. Così cominciai a cercare qualcuno che mi convincesse che l’inferno non esiste. Per questo mi rivolsi a uno psicoanalista. Li vedevo come intellettuali razionali e atei, quindi perfetti per il mio scopo. Aspettavo solo di liberarmi da quella fobia per potermi finalmente suicidare. San Francisco è la città che ho scelto perché è in questa città che abita il mio analista. Oggi è lui la mia vita.

 

 

Monica Capuani, “MARIE CLAIRE”
– 01/05/2002

 

Vorrei essere invisibile

 

Con Sarah è diventato un caso. Una giovanissima marchetta che passa dall’adescamento sul marciapiede a una scrittura dolente, potente e di sconvolgente impatto visionario non è storia di tutti i giorni. E così, in un attimo, il ragazzino che sulla strada i clienti chiamano Terminator, balza alla gloria delle cronache letterarie con il suo vero nome, J.T. Leroy. I critici gridano al miracolo, Suzanne Vega diventa sua amica, Tom Waits lo intervista per “Vanity Fair”, Gus Van Sant lo convince a trasformare quel suo primo romanzo in un film. Oggi J.T., che vive appartato dietro lo scudo di una terapia analitica che lo ha strappato alla tossicodipendenza, ci regala il secondo, bellissimo e devastante capitolo della sua autobiografia, Ingannevole è il cuore più di ogni cosa (Fazi). Se Sarah è il romanzo di formazione della giovane “lucertola da parcheggio” che tenta di affrancarsi dalla madre adorata che dà il titolo al libro, qui conosciamo il piccolo Jeremiah e la sua infanzia spaventosa di abusi e violenze, sballottato tra una madre-bambina che ha fatto della prostituzione la sua nemesi contro il mondo e la famiglia del nonno, implacabile predicatore del Sud come quelli che vivono tra le pagine di Flannery O’Connor.
Qual è il suo rapporto con questa straordinaria scrittrice del Sud?
La amo moltissimo. Mi piace il suo modo di creare un legame tra la vita dei suoi personaggi e la Bibbia, che nel Sud degli Stati Uniti è fondamentale, perché influenza l’esistere quotidiano della gente, oltre a essere un documento religioso. Nei romanzi di Flannery O’Connor, la gente utilizza la Scrittura per assorbirla e incastrarla tra le pieghe della propria patologia. La Bibbia garantisce ai suoi personaggi la soddisfazione di quel bisogno di controllo, punizione e sacrificio che credono ciecamente li porterà alla redenzione.
Lei è credente?
L’interpretazione letterale e riduttiva della Bibbia ha colorato la mia infanzia. Le uniche occasioni in cui mi sentivo amato da mio nonno era quando mi puniva, quando si consumava tra noi il solo possibile contatto fisico, che era quello delle frustate della sua cinghia. Se cresci con questa esperienza, l’idea di essere picchiato diventa un modo di alleviare il dolore. Nel Sud molti genitori ancora picchiano i figli basandosi su una lettura perversa delle Scritture, e questo mi riempie di rabbia. So che il mio sistema ha subito un grave corto circuito, una perdita irreparabile, a causa di quell’equivoco, e non vorrei mai che accadesse ad altri ragazzi. Eppure, qualche volta prego. Ancora oggi.
Lei ha dichiarato che è stata la terapia a salvarle la vita…
Sì, è stata la grazia di Dio o qualche altra forza spirituale dell’universo a condurmi dal dottor Owens, facendo sì che non mi rifiutasse. Se non fosse per lui, oggi sarei morto da un pezzo. Sono qui solo grazie al duro lavoro che mi ha costretto a fare in terapia. Per i primi tre anni siamo andati avanti al ritmo di una seduta al giorno, ma lui non mi ha mai spinto a passare per le forche caudine. Sapeva che ci vuole tempo per addomesticare un animale selvatico. All’inizio mi lanciava croste di pane da una certa distanza, poi ho cominciato a mangiare dalla sua mano, finché un giorno non mi sono sentito abbastanza sicuro da avvicinarmi. Mi incoraggiava a scrivere perché sentiva che avevo un problema con la discontinuità. All’epoca avevo 14 anni e proprio non mi andava di farlo. Mi convinse quando mi disse che faceva lezione all’università di San Francisco a una classe di assistenti sociali e gli serviva che descrivessi per loro una vera esperienza di prostituzione e droga. Ho cominciato così. Scrivere oggi è la sola cosa che mi tiene in vita, è il mio legame con la gente, il senso della mia esistenza.
Come definirebbe il suo analista?
Brillante. Intelligente. Taumaturgico. Altruista. Nobile. Integro.
Qual è la bellezza dell’“invisibilità”, che lei ricerca oggi?
Quando battevo, me ne stavo in piedi ad aspettare all’angolo di una strada e tutti mi guardavano come se fossi merce esposta in vetrina. L’unica possibilità per riuscire a sopportarlo era strafarmi di droghe. Oggi è molto doloroso per me uscire nel mondo senza essere fatto, ma mi ci sto abituando. E’ come se avessi sempre portato gli occhiali da sole e all’improvviso li avessi persi. Il sole mi fa male, mi ci vorrà un po’ per adattarmi alla luce del giorno. Non riesco più a sopportare di essere guardato, mi sembra di riuscire ad ascoltare quello che la gente pensa di me e di solito sono cose terribili. Il volume di quei pensieri aumenta nella mia testa e non riesco più a spegnerlo. E ora, vivere senza alcol né droga è come abitare un mondo completamente nuovo.

 

 

Henry Flesh, “NEW YORK PRESS”
– 14/12/2001

 

intervista a jt leroy

 

Il nuovo libro di JT LeRoy, “Ingannevole è il cuore più di ogni cosa” – incredibile romanzo a episodi su Jeremiah, ragazzo che viaggia attraverso gli Stati Uniti con la madre prostituta – è una sorta di “prequel” del suo primo romanzo, “Sarah”, ed è altrettanto brillante. L’ho letto un paio di settimane fa, tutto d’un fiato, e non vedevo l’ora di parlarne con JT, che adesso ha ventun’anni. Finalmente sono riuscito a contattarlo e a intervistarlo per telefono.

Henry Flesh: Una delle cose che mi piacciono di più di Ingannevole è il cuore più di ogni cosa è il modo in cui esso cattura il dolore dell’infanzia. Alcune delle esperienze che descrivi sono terrificanti, eppure sono del tutto credibili. Cos’è stato a darti la capacità di scrivere di queste cose in modo tanto efficace?

JT LeRoy: Il mio terapeuta e io abbiamo lavorato molto, molto intensamente. Facevo una seduta al giorno, e poi periodi di ospitalizzazione, tutta quella roba. Continuava a dirmi di scrivere, perché pensava avessi un problema con la continuità. Quando avevo più o meno quindici anni lui insegnava a un corso post-laurea all’Università di San Francisco, per gente che voleva diventare psicoterapeuta. Mi ha chiesto di scrivere per loro, perché io davvero non li sopportavo tutti quegli assistenti sociali/terapeuti e quello poteva essere un modo per rispondergli. Mi piaceva l’idea di avere un po’ di potere, così mi sono messo a scrivere, e ho cominciato a dipendere dai loro commenti. Era la prima volta che ricevevo un feedback che non fosse sessuale. È diventato più importante che farmi. Dopo ho continuato a scrivere perché ne avevo bisogno.

H.F.: Com’è stata la tua infanzia?

JTL.:Ho avuto una famiglia normale fino a quattro, cinque anni. Fui allontanato da mia madre quando lei ne aveva quattordici e io ero in fasce. Vivevo in una splendida famiglia. Cercarono di adottarmi, ma la mamma gli fece causa per riavermi quando aveva diciotto anni, e vinse, dato che era la madre naturale. Mio nonno l’aiutò, perché odiava ogni tipo di ingerenza del governo. La mamma era giovane e tenermi con sé a volte era troppo stressante per lei, così ogni tanto mi davano in affidamento, e poi, quando scoprirono che avevo dei nonni, capitava che mi mandassero a stare con loro nel West Virginia. Mio nonno era un predicatore, così quando stavo da loro ricevevo un’intensa educazione religiosa, come studiare la Bibbia. Ma poi partivo con la mamma, e quando stavo con lei vivevo un po’ dappertutto: in macchina, in camion, in albergo. Capitava che, uh, ci separassimo. E allora daccapo: in affidamento e poi dai nonni.
Com’è stata? Un bordello. –ride- Ma non me ne rendevo conto allora. A dodici anni ero come un animale selvatico. Il mio terapeuta e anche l’Alcolisti Anonimi mi hanno aiutato a rimettermi in sesto, per quanto possibile.

H.F.: Le emozioni che esprimi e il tuo modo di vedere l’infanzia mi ricordano Charles Dickens, in particolare Oliver Twist. Dickens era uno dei miei scrittori preferiti quand’ero piccolo, e ha avuto una forte influenza sui miei stessi romanzi. A te piace?

JTL.: Ho letto Dickens quando vivevo con mio nonno, mi è piaciuto un sacco il film Oliver! –ride- Sognavo spesso di essere portato via in qualche posto, in una famiglia. Penso che Dickens fosse grandioso nel descrivere quel sottoproletariato che la maggior parte della gente snobba. I suoi migliori personaggi, secondo me, sono i criminali. Sembra che gli siano più cari di quelli moralmente corretti. Questo mi piace.

H.F.: Quali altri scrittori ti hanno influenzato?

JTL.: Leggo in continuazione, e ce ne sono di grandi là fuori. Ho letto Ziggy di Dennis Cooper quando avevo quattordici o quindici anni, e l’ho trovato fenomenale. Mi ha preso così tanto che mi sono messo a fare marchette usando il nome del protagonista, Ziggy. Ero scioccato dal fatto che qualcuno potesse creare una cosa così toccante e autentica senza il melodramma che di solito accompagna le storie sui ragazzi vittime di abusi. Non avevo mai letto nulla in cui mi identificassi così tanto. Dennis è stato il mio mentore quando finì il corso del mio strizzacervelli. Se non avessi avuto Dennis probabilmente avrei smesso di scrivere.
Anche Mary Gaitskill ha avuto un’enorme influenza sul mio scrivere. I suoi libri sono incredibili – il modo in cui descrive la gente, le situazioni, è semplicemente brillante.
Lei mi ha veramente formato come scrittore. Mi ha spedito roba di Nabokov e Flannery O’Connor indicandomi cosa cercare.
Un sacco di gente mi ha offerto il proprio consiglio, in diversa misura: Bruce Benderson, Joel Rose, Tom Spanbauer. Era quello di cui avevo bisogno in quel periodo. È un po’ uno schifo dover fare nomi, perché finisci per tralasciarne milioni.

H.F.: Quando scrivi dei nonni di Jeremiah in Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, sembra che ci sia un collegamento tra il sadomasochismo e la negazione della sessualità per motivi religiosi. È stato intenzionale?

JTL.: L’unico modo di ricevere amore da mio nonno, l’unico modo di essere toccato da lui, era essere punito, e spesso era così anche con la mamma. E quando ci cresci con questo tipo di cose, l’idea di essere picchiato sembra dolce. La Bibbia é piena di queste stronzate. La gente la prende alla lettera e picchia i propri figli perché lì si dice che è così che si fa. Voglio che le persone si rendano conto di quanto malato sia tutto questo. Mi ha incasinato proprio per bene. Non passa giorno senza che io pensi “Hmm, mi piacerebbe farmi picchiare un po’. O farmi male.” Proprio come le altre persone vanno a farsi una corsa, a me viene voglia di essere picchiato, di bruciarmi, di tagliarmi. Non ho niente contro le comunità sadomaso, c’è gente con cui il sadomaso funziona. Magari funzionasse anche con me! ma al momento non è così. È come con la droga. Non riesco a pormi dei limiti, a prenderne solo un po’. Sarei capace di ammazzarmi. Andrei in overdose. C’è una parte di me che lo vorrebbe proprio, che si sente eccitata all’idea di morire in quel modo. Vorrei capire il sesso normale, ma al momento non ci riesco. Quando lo vedo nei film, una parte di me è sempre lì che aspetta che uno picchi l’altro e la situazione si scaldi davvero. Le mie connessioni sono state incasinate, e la sento questa perdita.

H.F.: Una delle cose che mi piacciono di più di “Ingannevole è il cuore” e di “Sarah” è il modo in cui tratti l’identità sessuale e il genere. La linea che separa i sessi nei tuoi scritti è così incerta, è confortante, come in quella scena in “Ingannevole è il cuore” dove Jeremiah, con grande disinvoltura, dice che a volte non è un maschio. Cosa ne pensi?

JTL.: Mia mamma aveva una teoria: se incontrava un uomo, lui si sarebbe sentito sfidato da un figlio maschio, ma se il figlio era una bambina o una sorella, sarebbe stato più facile. Io semplicemente notavo che le persone erano più gentili con me quando pensavano ch’io fossi una bimba, e mi piaceva avere quel potere. Inoltre, dai nonni, le ragazze venivano trattate decisamente meglio. Mio nonno non era così duro con loro. Pareva proprio che i bambini maschi non se la spassassero per niente. E quindi sì, il concetto di identità sessuale era parecchio incerto quando stavo con la mamma. Immagino che fosse semplicemente diverso da come è di solito nelle famiglie. Bel casino.

H.F.: C’è questo mistero che ti circonda adesso, che penso abbia molto a che vedere con la confusione dei generi sessuali nei tuoi libri. È come se la gente non riuscisse a gestire l’ambiguità sessuale. C’è chi ti crede maschio, chi ti crede femmina, chi pensa tu sia un transessuale. Come ti senti al riguardo?

JTL.: Bé, questo è in parte il motivo per cui preferisco starmene lontano dallo sguardo del pubblico. Davvero, sto solo cercando di capire chi sono. Uscire dalla droga e dall’alcol già mi ha trasformato la vita, e cambio di giorno in giorno. Le persone si abituavano a un mio ruolo o a una mia identità fissa. Ci sono gay che mi vogliono gay come loro, oppure vogliono che io sia un bambino, e i transessuali vorrebbero che fossi dei loro. Io vorrei solo poter essere quello che voglio, quando voglio. Non mi va di camminare per strada e sentire qualcuno che mi dice: “Ehi, io so cosa sei veramente!” Sarebbe pericoloso, cazzo, emotivamente mi ammazzerebbe. La gente ama distruggere le cose che non capisce, stanarle, metterle sotto i riflettori e dire “Aha!” Io voglio solo fare le mie cose ed essere chi mi va di essere. Ancora non l’ho capito. Non ho capito perché le persone non si sentano apposto con questo, però sto imparando a dire “fanculo loro”.

H.F.: Il tuo mistero è andato oltre. Pare che molte persone non credano che uno della tua età e con la vita che hai fatto tu, possa davvero aver scritto roba buona come la tua. Dicono che sei stato aiutato da Dennis Cooper o da Mary Gaitskill o da qualcun altro. Come ti senti al riguardo? Pensi che queste voci siano offensive?

JTL.: Ne ho sentite talmente tante. È buffo perché mi è capitato di sentirle con le mie orecchie: stavo in libreria e quei tizi non sapevano che era con me che parlavano. Indossavo la mia parrucca e gli occhiali. Dicevano che era impossibile che io avessi scritto quel libro, che sono uno troppo sballato. E voglio dire, sì, fa male sentire certe cose. Un libraio mi disse addirittura di conoscere personalmente il vero autore di “Sarah”. Entrò proprio nei particolari. Ero col mio ragazzo e fu davvero difficile non scoppiare a ridere. Ma allo stesso tempo mi piace avere così tanti schermi tra me e il mio lavoro. Non scrivo poi di cose tanto innocue. Mi piace che la gente si domandi chi sono veramente. Rende le cose molto più sicure.
Prima che tutto questo cominciasse, Dennis Cooper e io decidemmo che la cosa più sicura per me era di evitare ogni tipo di contatto pubblico. Non sono molto bravo a mettere paletti, ma sto imparando a tenerne qualcuno. Voglio dire, in “Sarah” c’è già tutto quello che si potrebbe voler sapere. Lì c’è la mia essenza. È molto doloroso per me starmene là fuori, nel mondo, con la gente che mi guarda. Ti sembrerà strano, ma io sento quello che la gente pensa di me, e di solito sono cose molto brutte. Le persone ti squadrano, tutte carine e sorridenti, e intanto continuano a squadrarti e a pensare cose di te, a giudicarti. E allora comincio a sentire i loro pensieri nella testa, sempre più forti, ed è impossibile spegnerli. Ma anche se mi assicurano che non è quello che pensano, io non riesco a sopportarlo. Quindi se la gente pensa ch’io sia Dennis Cooper o chi per lui… benissimo. Anche se ogni tanto mi fa arrabbiare. Come dire: “Vaffanculo, ho lavorato tanto per avere una mia voce e adesso me la volete togliere? Vaffanculo!” Allo stesso tempo però, è il mio paracadute.

H.F.: Come te la cavi col successo?

JTL.: Non mi aspettavo niente del genere. Voglio dire, non mi sono cercato un contratto né un agente. Il mio scritto è passato di mano in mano, da Dennis Cooper a Bruce Benderson a Joel Rose al suo agente ed editor, e io mi sono ritrovato con un contratto prima ancora che con una casa. Ma in realtà non sono famoso per niente. Piuttosto sono in adorazione di tantissimi scrittori che sono ben più avanti di me. Come scrittore ci sono quasi, ma c’è ancora una voce dentro di me che continua a ripetermi che tutto questo finirà. Ne ho parlato con altri artisti, musicisti, pittori, attori, e tutti dicono che quella voce non se ne va mai. Puoi solo continuare a lavorare e dire alla voce di stare zitta.
John Waters mi ha detto che la cosa più anti-americana che si possa fare è rifiutare il successo. Bé devo dire che mi sento alquanto anti-americano. Una volta mi aspettavo che quello che mi stava succedendo mi avrebbe sistemato. Ma quando il mio libro entrò nella classifica dei bestseller, la merda non era cambiata. Ero ancora nella mia pelle a odiarmi. Non c’è nulla che mi aiuti tranne il lavoro col mio strizzacervelli, il lavoro interiore. E anche gli Alcolisti Anonimi, mi aiutano a restare sano. Se me ne stessi là fuori a beccarmi gli applausi, ci metterei un attimo a tornare alla droga. Perché nel profondo ho un bisogno enorme di quelle attenzioni che non ho ricevuto da piccolo. E gli applausi, per quanto numerosi, non potranno mai colmare quel vuoto.

H.F.: Ho letto che non ti piace leggere le tue cose in pubblico, che ti piace siano altre persone a leggerle per te. È vero?

JTL.: La prima volta che mi hanno pubblicato avevo diciassette anni. Laurie Stone aveva inserito un mio racconto “Baby Doll” in un’antologia intitolata Close to the Bone. Qualcuno mi ha convinto a darne una lettura per l’uscita del libro, ed è stato un incubo. All’epoca mi facevo ancora e pensavo di aver preso abbastanza roba da non essere nervoso. Ma le mani mi tremavano così tanto che non riuscivo a leggere le parole. Ho cominciato a balbettare alla prima parola, e poi ho vomitato. La cosa strana era che la gente pensava fosse una performance, e così mi hanno applaudito mentre io scappavo via. Lo giuro, mai più.
È stata Mary Gaitskill ad avere l’idea di fare leggere le mie cose da altri. Sapeva che io non avrei letto, così le venne in mente che poteva essere lei, o altri amici, a leggere. Per me è stato decisamente più interessante ascoltare le voci di altri.

H.F.: Gus Van Sant sta facendo un film su Sarah, non è vero? Quando cominciano le riprese? Sarà Mike Pitt a interpretare il protagonista?

JTL.: Non so quando avranno inizio le riprese effettive, ma stanno facendo il casting proprio in questo periodo. Mike Pitt non avrà il ruolo di Sarah/Cherry Vanilla, perché l’attore deve essere più giovane. Spero che Pitt ci sia comunque, ma ovviamente non sta a me decidere. Mi verrebbe da pensare che il protagonista dovrebbe farlo qualcuno di sconosciuto, ed è emozionante pensare che quella persona è là fuori, da qualche parte. Penso che dovrebbe essere qualcuno con la stessa espressività di River Phoenix in Stand by Me, la stessa capacità di comunicare il dolore.

H.F.: Da quel che ho letto tu e Van Sant avete legato molto. Puoi dirmi qualcosa al riguardo?

JTL.: Gus mi ha preso sotto la sua ala e mi è stato vicino in più modi. Sarah è come il mio bambino, e avevo bisogno di essere sicuro che sarebbe stata amata e trattata bene. Gus ha scelto Patti Sullivan per la sceneggiatura, e lei è veramente incredibile. Penso che sarà bellissimo visivamente, perché Gus è fatto così, è un’artista. È diventato come un lavoro di famiglia con Gus e Patti, molto stretto, e mi piace moltissimo il copione che lei ha scritto. La amo con tutto il mio cuore. Non avrei saputo farlo diversamente.

H.F.: Adesso a cosa stai lavorando?

JTL.: Sto lavorando con Gus a un sacco di progetti, incluso un film per la HBO. Sto scrivendo la sceneggiatura. E poi collaboro con Todd Kessler e Rebecca Goldstein a No Hands Productions in una serie televisiva indipendente, House Arrest, e in un film animato per ragazzi. Ho delle idee per dei romanzi, che devo ancora tirare fuori, così scrivo per delle riviste e faccio interviste per il “New York Press”. Voglio scrivere il seguito di Sarah. Non sono ancora pronto a lasciare andare il suo personaggio. O la mamma.

Inoltre un giorno voglio diventare Miss America. Tutto questo lo faccio per avvicinarmi a quel traguardo.

© New York Press

Traduzione di Adelaide Cioni

 

David Wiegand, WWW.JTLEROY.COM
– 01/02/2002

 

J.T. Leroy esiste

 

Organizzando una serie di incontri sul tema dell’identità, non mi veniva in mente una persona migliore di JT Leroy. Se avete letto i libri di JT – sia Sarah sia Ingannevole è il cuore più di ogni cosa – saprete i motivi per cui mi è venuto così naturale pensare a lui. Sarah è la storia di un ragazzo la cui madre è una “lucertola”, una prostituta del parcheggio dei camionisti. La donna veste il figlio come una bambina e lo trasforma in una lucertola. E i camionisti impazziscono per questa bella ragazzina bionda con le labbra color ciliegia.
Non conosco nessuno per cui la questione dell’identità sia più importante.
Tantomeno conosco qualcuno che più di JT controlli così puntigliosamente, in modo, quasi ossessivo direi, quella sua identità. Per ironia della sorte più lui si impegna a difendere la sua identità pubblica e più cresce la leggenda attorno alla sua persona: nulla lo fa arrabbiare più delle inesattezze legate a questa leggenda. JT Leroy è recluso. Non partecipa ai suoi stessi reading, che è poi il motivo per cui io sono qui stasera. Non è una messa in scena.
Leroy è patologicamente timido. In effetti ha partecipato a due reading in vita sua. La prima volta che ha letto in pubblico, l’intervento è stato caratterizzato da una bella vomitata. Il pubblico pensava fosse una performance e applaudiva.
L’ultima volta Dave Eggers e Arthur Bradford lo hanno convinto a provare ancora. Lui ha deciso di leggere insieme a loro alla libreria Booksmith di San Francisco. Dopo la prima pagina si é ritirato in una stanza sul retro dove ancora una volta si é messo a vomitare.
Non avevo idea di chi fosse JT Leroy quando, più di due anni fa, mi sono imbattuto nella sinossi del romanzo Sarah sul catalogo di Bloosmbury. Dopo averlo recensito per il “San Francisco Chronicle”, ho ricevuto un e-mail dall’autore e ho risposto. Abbiamo iniziato una corrispondenza che è durata qualche settimana. Un giorno al lavoro mi arriva una telefonata. Rispondo e dico: Pronto? Ma dall’altra parte un silenzio di tomba. Dico ancora Pronto? Silenzio di tomba.
Ho aspettato un minuto e poi ho detto, JT?
Dire che ha una voce flebile è un eufemismo. Ogni parola sembra a forza spinta fuori dalla bocca come un enorme macigno. Appena cercava di parlare sentivo dall’altra parte una mostruosa fatica .
A poco a poco l’iniziale balbuzie e la difficoltà nel parlare sono sparite. JT ha imparato a fidarsi di me e io, col tempo, ho imparato anche un sacco di cose di lui. Sono arrivato a pensare a lui come a una sorta di Mago di Oz della vita reale, l’uomo dietro la tenda che spinge bottoni, gira maniglie, spinge leve per controllare la sua carriera e la sua identità pubblica.
Di solito non incontra molti intervistatori di persona. Se deve fare un servizio fotografico lo fa sempre travestito.
Ma nonostante la sua timidezza, è disposto ad andare a Los Angeles a conoscere Diane Keaton per via di un lavoro per la TV che ha scritto per lei.
Se ne va in giro con Gus Vant Sant, che vuole fare di Sarah un film. Nonostante la sua timidezza, si presenta nel backstage di Eddie Izzard, o a una festa esclusiva quando Bono Vox lo invita ad aggregarsi a loro dopo un mega-concerto.
Io e JT parlavamo l’altra sera dell’identità e ho notato questa cosa a proposito dei pronomi. Non sapeva che cosa intendevo. Ho notato che usa raramente i nomi propri durante una conversazione se sta parlando di un amico. Usa sempre lei o lui la prima volta che li nomina. Allora tu gli chiedi: Chi? Lui esita un po’ e poi dice: Lo sai. Lui.
Credo che il fatto di non distinguere l’identità dei nomi propri dei suoi amici venga dal periodo in cui batteva per strada. Alcuni aspetti dell’identità sono fluidi per JT. Lui si veste come una ragazza in una foto, come un ragazzo nell’altra, per esempio.
All’inizio della nostra amicizia gli ho chiesto come voleva che io lo chiamassi. Suo nonno lo chiama Jeremy, altri JT. Nelle sue prime apparizioni da scrittore si faceva chiamare Terminator.
La domanda l’ha messo a disagio e ha evitato di darmi una risposta precisa. Non faceva nessuna differenza per lui come lo chiamavo e tuttora è così. Lo chiamo JT perché non ha importanza come lo chiamo.
Gli autori sono spesso confusi con le vite dei personaggi delle loro storie, ma quando un personaggio è costruito sulla vita dell’autore, l’azione di filtro della realtà attraverso il processo narrativo ci costringe comunque ad accettare il personaggio come qualcosa di diverso dalla vita dell’autore.
JT è intransigente su questo punto. Sarah è un’opera di fiction, Ingannevole è il cuore più di ogni cosa è un’opera di fiction.
Immagino che molti di voi abbiano letto le opere di JT e anche se sono opere di fiction sapete che i suoi scritti traggono ispirazione dalla sua vita reale più che per qualsiasi altro scrittore.
JT visse per certi periodi con la madre, per altri con il nonno fondamentalista, così come con i suoi genitori adottivi. Alcuni penseranno che la vita di JT sia stata una sorta di tragedia. Ma è solo una questione di punti di vista. Quando si giudica la realtà partendo da un proprio standard, non si è in grado di giudicare decentemente la vita di altre persone.
Quando era appena un adolescente JT iniziò a scrivere incoraggiato dal suo psicoterapeuta. I suoi primi racconti facevano parte della terapia. Non metto in dubbio la bravura del dottor Owens, ma credo che JT Leroy sia nato per scrivere. Lavorando con lui ho capito quanto è portato per la scrittura, davvero.
A volte penso che confronto a lui Joyce Carol Oates sembra una dilettante.
Sono stato fortunato a leggere la maggior parte degli scritti di JT in bozza. Ho fatto un piccolo editing e gli ho dato qualche suggerimento occasionale sulla trama e i personaggi.
Mi sono trovato a lavorare su racconti durissimi sulla vita di strada, di ragazzini che fanno le marchette con riccastri di mezza età. JT non accettava sempre i miei suggerimenti e io ne sono contento perché questo conferma quanto JT conosca se stesso come scrittore. Non accetta niente che non risulti autentico per la sua voce e la sua visione.
Il pezzo che leggerò stasera è un estratto di un racconto che JT ha scritto per “McSweeney’s”, la rivista di Dave Eggers. Il titolo è Harold’s End. Un titolo che evoca E.M. Foster e vi lascio immaginare quanto il racconto di Leroy sia lontano da quest’ultimo.
Il racconto inizia come una sorta di vignetta teneramente perversa che ha per protagonista un ragazzino abbandonato che vive per strada e che ha una lumaca come animale domestico, ma la porta dal veterinario perché non capisce cosa sia quel liquido verde scuro che ha nel guscio.
Il racconto ha anche un altro livello di lettura, ma noi lo abbiamo scoperto in tempi differenti. Per alcuni giorni io e Dave abbiamo stiracchiato la storia in due diverse direzioni.
Il racconto si è triplicato ed è scivolato verso una dimensione più cupa, più dura, e più pungente. Per me è una delle cose migliori che JT ha scritto, e non lo dico perché ci ho lavorato io, o Dave, ma perché JT è così incredibilmente sicuro della propria voce e della propria identità.
Uno degli elementi più stabili della mitologia su JT Leroy è che lui non esista.
Quando per la prima volta è comparso sulla scena letteraria, la gente ha iniziato a dire che un adolescente non poteva scrivere così bene e che doveva essere perlomeno più vecchio, se non addirittura uno scrittore affermato come il suo amico Dennis Cooper.
Credo la maggior parte delle persone ora sappia come stanno le cose, ma c’è ancora chi assicura che Leroy non esiste.
So che JT Leroy esiste. È del resto del mondo che a volte metto in dubbio l’esistenza.
(Traduzione di Valentina Pigmei)

 

Intervista a JT LeRoy di Tom Waits, “VANITY FAIR”
– 01/07/2001

 

Strana innocenza

 

L’anno scorso, quando è uscito il primo romanzo di JT LeRoy, Sarah, il ventenne ex-bambino prostituto è diventato immediatamente una figura di culto. Il libro, che prende il titolo dal nome della madre (che lo vestiva da bambina e gli insegnava il mestiere) è il resoconto romanzato della sua vita da “lucertola” (prostituta dei parcheggi dei camionisti) ed è stato accolto con entusiasmo non solo dal mondo letterario ma anche dal “Guardian” e dal “New York Times”. Estremamente timido e insicuro riguardo alla sua sessualità, JT è stato fotografato di rado. Per il suo secondo libro, Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, ha accettato di posare per Mary Ellen Mark e di parlare con il cantautore Tom Waits.

Le storie di JT sono come punti, come ferite, come una liberazione o una testimonianza.
Lui osserva senza essere visto, brillante, pieno di talento, profondo. Per finire il suo nuovo libro avrete bisogno di fazzoletti e anestetico. È una campana da immersione dorata che procede lentamente attraverso le acque infestate dagli squali della sua giovinezza. JT è il testimone di tutte le storie che accadono nell’oscurità, anche quelle nostre, che non abbiamo il coraggio di ricordare.

Tom Waits: Il mondo è un inferno, e la cattiva scrittura distrugge la qualità del nostro soffrire. Banalizza e degrada l’esperienza umana, mentre dovrebbe ispirare ed elevare. Tu sei un’eccezione.

JT LeRoy: Wow, grazie. Una cosa che ho capito è che non basta aver sofferto. Una volta stavo cercando di rubare un libro. Un tipo se ne accorse e cominciò a seguirmi. Allora, per non sembrare un ladro, gli chiesi se aveva dei libri trasgressivi, una parola che avevo appena imparato. Mi diede il libro di uno che era stato in prigione e aveva scritto della sua esperienza. Aveva avuto una vita veramente orribile, ma scriveva così male che non me ne importava niente.

T. W.: Dopo il successo iniziale, è stato difficile evitare che ti inscatolassero come una nuova linea di prodotti piuttosto che come un artista che attinge a un pozzo profondo?

J. T. L.: Si, ho smesso dopo aver fatto il contratto per il libro. Ho smesso di scrivere per due anni perché non volevo finire come “il caso umano”, per tutte quelle cazzate sulla memoria turbata. Ho avuto la sensazione che fosse quello che speravano di farmi diventare. Così ho preso i miei soldi e sono scappato. Ho continuato a scrivere i miei articoli per “New York Press” e altre riviste. Per mia fortuna dei grandissimi scrittori mi hanno preso sotto la loro ala e mi hanno guidato.

T.W. Credi che l’amore e l’accettazione da parte del pubblico abbiano la capacità di nutrire o guarire? O è come tirare noccioline a un gorilla?

J.T.L. Il problema è che io continuo ad aspettarmi che l’amore che ricevo dal pubblico e il successo sistemeranno ogni mio problema, e intanto continuo a guardare la mia vita e a chiedermi “Quand’è che arriva la fata turchina?” Sai, è come lo scherzo che ci facciamo a casa: “Ma come, non sai chi sono io? Cosa vuol dire fai i piatti? O vai a terapia?”

T.W. Penso sia proprio questo il punto quando si ha successo o un minimo di notorietà. Si ha l’illusione di non dover più stare alle regole, le regole della vita.

J.T.L. Già, come quando siamo usciti con Gus Van Sant. Ci hanno dato il tavolo migliore e un sacco di gente ci stava addosso…Non ci hanno fatto pagare e tutte quelle cose lì. E so benissimo che in quegli stessi posti, un paio di anni fa, non mi avrebbero fatto nemmeno entrare. Posso immaginare quanto sia facile diventare dipendenti da questo tipo di cose.

T.W. Come fai a essere così presente nelle tue storie? Sono così palpabili e vive, come se le cose ti accadessero mentre le scrivi.

J.T.L. Moltissimo di quello che scrivo viene da cose che ho assorbito. C’è uno scarabeo con cui si fanno i gioielli, gli si dà filo e materiale, e lui lo trasforma in un bellissimo oggetto. Bé, credo che in realtà se lo mangi e poi lo caghi fuori, o qualcosa del genere. Diventa un gran bel gioiello. Io ho la sensazione di non sapere mai da dove mi arriveranno le cose. Potrebbero venire dal mio passato, ma potrebbero anche venire da qualcos’altro che ho introiettato. Mi siedo davanti al computer e lo cago fuori, ecco.

T.W. Quando rivisiti un’esperienza passata, ne hai un ricordo perfetto? Le cose le rivedi o le ricrei?

J.T.L. Ci sono parti di me che rimangono congelate quando succede qualcosa. È come con le cassette di emergenza – scrivere è come aprirne una a martellate, le parole mi si sciolgono nelle mani.

T.W. Ti senti al sicuro mentre scrivi tutte queste cose? Un po’ come indossare una di quelle tute imbottite che si mettono i poliziotti quando addestrano i cani ad attaccare?

J.T.L. Sì! È esattamente così. Finché me ne stavo a scrivere i cani potevano assalirmi quanto volevano. È stato molto strano: una volta mi è capitato di mettere giù la penna e avere la sensazione di essermi tolto la tuta protettiva, di essere di nuovo vulnerabile.

T.W. Capisco. La penna è più potente della spada.

J.T.L. O di un pitbull.

T.W. Nel tuo nuovo romanzo, uno dei personaggi infila un’unghia nel filo del telefono e si domanda: “Mi chiedo se posso morire fulminato se arrivo troppo a fondo.” Mi è saltata agli occhi come una metafora del tuo scrivere. Mentre leggevo mi chiedevo se potevo morire fulminato, perché vai così a fondo.

J.T.L. Bé, mi fa piacere che tu dica questo. Ma è come per uno squalo. Nessuno direbbe che uno squalo è coraggioso solo perché nuota.

© Vanity Fair

 

 

Alice Fisher, THE FACE
– 01/08/2001

 

Nei panni di un ragazzo

 

JT LeRoy è una superstar. Sarah, primo romanzo del ventunenne del West Virginia, è lettura obbligatoria a Yale. Courtney Love ne ha parlato in modo più che entusiastico sul suo sito. Shirley Manson ha scritto una canzone su di lui – “Cherry Lips” – per il nuovo album dei Garbage. Gus Van Sant, regista del premio oscar Will Hunting, genio ribelle, sta lavorando alla versione cinematografica di Sarah. L’autore di culto Dennis Cooper ha usato JT come personaggio del suo nuovo libro, Period, e l’ha messo in copertina. Tom Waits l’ha intervistato su “Vanity fair”. Dio mio, appare persino sul catalogo della collezione autunno di Abercrombie & Fitch! È una superstar che non riuscirete mai a vedere bene in faccia; che adora le attenzioni ma trova quasi impossibile gestirle. Quando è uscito Sarah lui era in un istituto di igiene mentale, e non è andato alla festa per il suo nuovo libro, Ingannevole è il cuore più di ogni cosa, perché, semplicemente, era terrorizzato.
JT accetta di essere fotografato solo se la sua identità resta nascosta. Gli piace travestirsi perché “è come entrare in un costume da gorilla, qualcosa di diverso da me”. Come mi ha spiegato l’ultima volta che gli ho parlato (“The Face”, 46): “desidero le attenzioni, ma allo stesso tempo mi terrorizzano… Mi sento come King Kong. Le persone vogliono incatenarmi e mettermi in vetrina, svelare il mistero – il mistero che loro hanno creato.” Anche se tutti i suoi scritti hanno un che di autobiografico, JT odia parlare di sé. E in effetti, considerate le cose di cui gli viene sempre chiesto – abuso, droga, prostituzione, le disfunzioni della sua famiglia – non lo si può certo biasimare.
Al momento, però, la sua celebrità e i problemi che essa gli porta sono lontani dai suoi pensieri. Oggi si è divertito a posare per il servizio fotografico di “The Face”vestito da scolara, da ‘sposa ubriaca’ e da Jodie Foster in Taxi Driver, sullo sfondo di un parco giochi. E ora, alle 12 e 30 si sta sistemando nel suo appartamento nel quartiere Tenderloin di San Francisco per parlare del suo nuovo libro con quell’accento dolce e un po’ strascicato, tipico del sud. Ha preferito fare l’intervista al telefono perché non ama parlare di cose ‘spinose’ di persona.
E Ingannevole è il cuore…, titolo citazione dal Libro di Geremia, è piuttosto spinoso. Scritto prima di Sarah, Ingannevole è il cuore… è un romanzo autobiografico a episodi. Dall’età di quattro anni, quando la madre se lo andò a riprendere dai genitori adottivi, il libro è una storia degli abusi subiti da JT da parte dei ‘ragazzi’ della madre, il fragile senso della realtà di lei, la sua dipendenza dalla droga. Ma soprattutto è la storia di come il dolore, la paura e il bisogno d’affetto abbiano fatto di JT la persona che è oggi.
“Sono fiero di quel che ho scritto,” dice JT. “Sono contento che stia lì fuori. Quando ho scritto quelle cose era come se si alzasse la temperatura: mi veniva un attacco di scrittura, ed era come vomitare – bleeuurrrgh! – mi sembrava di parlare di qualcun altro. La mia vita era così incasinata allora. Vivevo ancora per strada quando ho scritto la maggior parte di quelle cose.”
Ingannevole è il cuore più di ogni cosa racconta nei dettagli esperienze che pochi hanno sopportato, ma la sua vita a oggi è nel complesso più strana ancora della finzione.
Jeremiah Leroy (il suo primo nome è biblico, la ‘T’ viene da Terminator – nomignolo ironico che si è guadagnato per la sua bassa statura) nasce dalla quattordicenne Sarah, nel 1980. Dopo quattro anni di vita stabile in affidamento, la madre lo torna a prendere e lo porta con sé in un’odissea americana, alla ricerca di una felicità che sempre le sfugge. Si spostano continuamente e a un certo punto, la vita diviene così priva di meta che scelgono la direzione da prendere in base a un pezzo della stoffa dei pantaloni di Henry Rollins che Sarah appende allo specchietto retrovisore dell’auto (“Lei diceva che lui era l’unico uomo vero, per tutta la sua rabbia”). Dove vanno i pantaloni di Rollins, vanno loro.
JT ha passato dieci anni cercando di stare a galla. A volte Sarah voleva la sua compagnia, a volte lo abbandonava, a volte lo vestiva da bambina e lo presentava agli altri come la sua sorellina, a volte lo nascondeva in macchina mentre se ne andava con un nuovo ragazzo. Condividevano le droghe (“non le piaceva quando io mi addormentavo e lei aveva voglia di parlare… i miei denti si sono consumati a forza di digrignarli”), e a volte gli uomini. Quando lei scompare senza lasciare tracce, i servizi sociali gli piombano addosso. JT passa quegli anni in affidamento, con i suoi nonni oppure badando a se stesso da solo, facendo marchette per strada. Suo nonno gli instilla il timore di Dio a forza di orrendi pestaggi e punizioni.
Quando JT ha 14 anni, lui e la madre finiscono a San Francisco, e lui semplicemente non ha la forza per proseguire. “Vivevo in un albergo con uno dei ragazzi di Sarah. Lui voleva andarsene e io sapevo che sarei dovuto tornare per strada. Volevo suicidarmi ma avevo paura di andare all’inferno. Invece andai in terapia, sperando che mi dicessero che potevo tranquillamente suicidarmi.” Il suo terapista, il dottor Terrence Owens capì quanto JT avesse bisogno di aiuto. Adesso ci va sei giorni a settimana.
A JT è sempre piaciuto leggere e scrivere. “Quando stavo coi miei nonni dovevamo scrivere delle scenette, tipo: Gesù incontra Mosé, scrivi una scena… ho imparato il potere di scrivere qualcosa ad arte. E a scuola – non andai bene ai test sull’intelligenza, risultai disturbato e così mi misero nelle classi speciali – mi lasciavano da solo e io leggevo.” Ma Owens gli dà la possibilità di avere un pubblico. JT odiava gli assistenti sociali che cercavano di toglierlo dalla strada, così Owens gli consiglia di scrivere le sue esperienze per un corso postlaurea di psicoterapia in cui lui insegna, così che possano sentire come é veramente la sua vita. Per JT diventa quasi una droga: “Come accendere la luce e vedere gli scarafaggi che corrono da tutte le parti”. È stato il dottor Owens a fargli sapere che Sarah era morta. “Aveva un ascesso e non se l’era curato. I tossici non si curano.”
Nello stesso periodo, JT si immerge nella lettura di Dennis Cooper. “Uno con cui uscivo mi diede da leggere Ziggy (Tropea, 1997) quando avevo 14 anni. Era la prima volta che leggevo qualcosa che mi prendesse completamente.” Al punto che, quando si prostituisce, adotta il nome del protagonista, Ziggy. Chiede un’intervista a Dennis Cooper e i due diventano amici. Contemporaneamente, un amico editor del dottor Owens gli presenta Sharon Olds, e nasce l’amicizia con Mary Gaitskill, autrice di Due donne, grassa e magra (Mondadori, 1992). Tutte queste persone cominciano a dargli dei feedback sulla sua scrittura.
JT comincia a scrivere per il NY Press a 17 anni, e manda in porto un contratto per un libro con Bloomsbury. I clienti gli battono a macchina gli scritti – si vestono da segretarie e lui detta (anche se gli concede delle pause per masturbarsi). Esce dalla droga a 18 anni, quando va a vivere con il suo ragazzo e la sua migliore amica e decidono di avere un bambino (un figlio di cui JT è ora fiero co-papà).
“Mi hanno detto ehi, se hai intenzione di bazzicare qui attorno devi smetterla con quella merda. Non sono mai stato un tossico, però. Volevo semplicemente della roba che mi stordisse. Qualunque cosa sortisse l’effetto.” Finalmente, a 20 anni, consegna Sarah a Bloomsbury.
Sarebbe facile congedare LeRoy per la simpatia. Scuotere la testa in segno di orrore per la sua storia e dare per scontato che lui meriti un elogio già solo per il fatto di saper scrivere, ma sarebbe un modo per sottovalutarlo. Sarah è stato uno straordinario debutto sotto ogni punto di vista, come testimoniano le splendide recensioni e la schiera mondiale dei suoi fan. “Le persone si sono sentite chiamate in causa”, dice JT. “Sul forum di Terminator [sul sito di JT, www.jtleroy.com] c’è gente dalla Norvegia, una signora di cinquant’anni con figli adolescenti che mi scrive; in Giappone ha sfondato, le ragazze lo adorano. C’è una studentessa che ci sta scrivendo la tesi. Potrebbe sembrare un titolo di nicchia, ma ha così tante sfumature – la ricerca del sé, il rapporto con la famiglia. Anche gente che non ha avuto esperienza dei dettagli vi si può relazionare. È roba universale, e se si è onesti, è facile ritrovarle.”
E JT è comprensibilmente orgoglioso dei suoi celebri ammiratori. “Parlare con Courtney Love è stato come andare a udienza dalla regina, e Shirley Manson ha letto per me alla festa per il mio nuovo libro. Mi sento come in Wayne’s World (Fusi di testa), ‘non valgo abbastanza, non valgo abbastanza!’ Però cazzo, è grandioso!” E’ molto amico di Gus Van Sant: “È come se qualcuno che adori diventasse il tuo buon amico. È un tipo fico con cui passare tempo.”
È ormai un anno che Shirley Manson gli manda email. “Lui è il mio piccolo angelo,” tuba lei. “Leggere Sarah è stato come ascoltare per la prima volta Billie Holiday o Kurt Cobain. Come un pugno in faccia – mi ha stesa. La mia reazione è stata viscerale. JT è stato costretto a sezionare gli strati infernali della sua stessa vita, e lungo questa corsa folle ha raggiunto l’illuminazione. La forza vitale di JT è incredibile. È riuscito a scovare una via d’uscita dall’abisso in cui si trovava.”
La capacità di scrivere di JT fa sì che il lirismo della sua prosa innalzi le sue visioni al di sopra delle semplici confessioni. “Sono sempre stato consapevole del linguaggio e ho quella che il mio terapista chiama ‘iperattenzione’. Sono in grado di decifrare una situazione molto in fretta, mentre la maggior parte della gente non avrebbe idea di cosa succede: è una capacità che ho dovuto sviluppare. Non si tratta di particolare intelligenza, ma di pura sopravvivenza.” Una capacità che fa sì che i ragazzi passeggeri di Sarah siano tutti descritti con straordinaria profondità; ogni scena è colma di stupefacenti dettagli. E gli permette di riportare in vita sua madre con impressionante compassione. “Volevo renderla simpatica. Non sopporto quando la gente legge il libro e pensa “Lei è un mostro”. Non è così. La faccenda é molto più complessa. Lei era come danneggiata, ecco. Succede, con la gente: il corpo cresce, ma se non cresce anche la parte delle emozioni, si resta fregati.”
Non è certo il caso di JT. Al momento sta lavorando a un libro con Dennis Cooper. Ha anche scritto il soggetto per un film della HBO prodotto da Diane Keaton e aspetta con trepidazione l’inizio delle riprese di Sarah, di Gus Van Sant.
Nonostante tutte le attenzioni che riceve, JT sogna cose incredibilmente semplici: “Una stanza tutta mia; un garage, perché al momento dobbiamo parcheggiare molto lontano. Una lavastoviglie. E quello che desidero di più è una lavatrice. E anche un’asciugatrice, perché laviamo i vestiti una volta al mese, occupiamo l’intera lavanderia automatica e tutti ci guardano. Voglio dire, mi ricordo quando era grandioso già solo avere un letto: io me ne stavo steso ed ero così felice. Mi piacerebbe tornare a quella sensazione.”
Questo è JT. L’anticelebrità con i fan di una celebrità. Il ragazzo la cui storia sta per diventare un film di Hollywood, ma che odia essere fotografato. Forse non riuscirete mai a vederlo davvero, ma sapere che è lì fuori, da qualche parte, è già abbastanza.
© The Face

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