William Blum

Il libro nero degli Stati Uniti

COD: 2f2b265625d7 Categorie: , Tag:

Collana:
Numero collana:
64
Pagine:
912
Codice ISBN:
8881124548
Prezzo cartaceo:
€ 27,00
Data pubblicazione:
28-11-2003

Traduzione di Giorgio Bizzi, Maria Fausta Marino, Riccardo Masini, Chiara Vatteroni e Isabella Zani

«Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente, controlla il passato». Con questo esergo di George Orwell si apre l’abnorme reportage che avete in mano: l’opus magnum di un maestro del giornalismo di denuncia, frutto di trent’anni di ricerche, che negli USA ha avuto decine di edizioni a tiratura forzosamente limitata ed è stato salutato dai maggiori intellettuali radical come il Repertorio Definitivo delle marachelle statunitensi. Se nell’avvertimento orwelliano sta il motivo ispiratore di questo Libro nero e nella completezza – insuperabile – il suo pregio più evidente, la forza vera è nei documenti, sempre di prima mano, nelle argomentazioni, stringenti e appassionate, nello stile, che vira imprevedibilmente dall’oratio severa all’ironia al sarcasmo e di nuovo all’invettiva. Questa edizione italiana è unica al mondo. Ai cinquantasei capitoli firmati da William Blum, che percorrono vicende note (ma veramente note?) e oscure (chi saprebbe dire cos’è successo in Albania fra il ’49 e il ’53 o in Ghana nel ’66?), Nafeez Mossadeq Ahmed, autore di Guerra alla libertà (Fazi 2002), ha aggiunto con la supervisione dello stesso Blum dieci nuovi capitoli sulle vicende degli ultimi anni e sui possibili scenari futuri. Quali? Come scrive Blum, «purtroppo, a quelli come me, grazie ai governi americani, il lavoro non manca mai».

LL LIBRO NERO DEGLI STATI UNITI – RECENSIONI

 

Antonio Carioti, IL CORRIERE DELLA SERA
– 13/11/2006

 

Il Che e le colpe degli USA

 

 

 

Enzo Di Mauro, ALIAS
– 14/02/2004

 

La sanguinosa mappa dell’imperialismo “morale”

 

Dopo il dolente encomio riservato al pamphlet anticomunista di Martin Amis e relativo mea culpa circa il mancato anticomunismo suo e di un’intera generazione, sarebbe adesso oltremodo utile (per noi che lo seguiamo con attenzione e, sia detto con forza e per inciso, con apprensione e partecipazione), che Adriano Sofri dicesse qualcosa sul libro di William Blum, un ex funzionario del dipartimento di Stato americano che nel 1967 si dimise dal proprio incarico per marcare la protesta contro l’operato statunitense in Vietnam e che, sei anni dopo, si impegnò fin da subito (e senza mai fermarsi) nella ricerca della verità sui mandanti del colpo di stato in Cile. Dopo Con la scusa della libertà, pubblicato nel 2002 dalla Marco Tropea, ecco ora Il libro nero degli Stati Uniti (con aggiornamento a cura di Nafeez Mossadeq Ahmed, traduzione di Giorgio Bizzi, Maria Fausta Marino, Riccardo Masini, Chiara Vatteroni e Isabella Zani, Fazi Editore, pp. 899, euro 26,50). Le cose che un tempo Sofri scriveva e diceva in quanto leader di Lotta Continua le ricordiamo bene e (non se ne stupisca) ancora in larga parte le condividiamo. Allora le sue posizioni sulla politica imperialistica, di guerra e di ingerenza, della Casa Bianca non erano dissimili da quelle ora espresse, attraverso l’immensa mole di documenti e di testimonianze accuratamente riportate, da Blum. Anzi – essendo Sofri, in quella stagione, un militante comunista, a differenza di Blum – saranno state di certo più dure, più investite di inveterata passione ideologica, insomma più tagliate sulle necessità dell’agire politico e meno sulle carte dimostrative che, oggi assai più di ieri, rendono i fatti meno controvertibili. Si può e si deve, tra l’altro, notare una differenza cruciale tra il libro di Amis e quello di Blum. Ed è che il primo, firmato dall’inglese, racconta eventi e cifre (soprattutto cifre) già ampiamente note e discusse da vari decenni da storici di ogni tendenza. Non così per questo Libro nero che rivela e organizza materiali d’archivio spesso inediti secondo criteri ferrei sia geografici, area per area del mondo, sia cronologici, a partire dalla Cina del 1945 e fino, nella parte di aggiornamento, all’aggressione (immotivava e senza alibi, come si vede, che non siano meno che risibili) al popolo iracheno, ultima tappa (per ora) di una lunga linea rossa che trovò nel “divide et impera” degli avvenimenti jugoslavi un passaggio decisivo, un sanguinoso salto di qualità, intanto con l’umiliazione della vecchia Europa e non meno con la demonizzazione del popolo serbo (eppure Peter Handke raccontava e sosteneva cose diverse e opposte, ed entrambi, lui e Sofri, se ne stavano lì, mentre l’arbitrio si consumava).
Dal volume di Blum risulta chiara la demarcazione, ovvero l’arroganza che serve ogni diritto. La politica di aggressione, da quel momento, viene resa esplicita, teorizzata, giustificata addirittura da regole “morali”. Genocidi e massacri, ad esempio, non si demandano più a generali e militari felloni e golpisti, a torturatori di professione, a squadroni della morte. Essi, quando è il caso, vengono perpetrati in maniera diretta, senza schermi e meditazioni.
Appunto: come ha scritto Edoardo Galeano, oggi si pratica al meglio l’arte dell’eufemismo e, occorre aggiunger, del più sfacciato eufemismo, ossia l’imperialismo che diventa processo di globalizzazione e la povertà il risultato dell’inefficienza. Il trucco permane, e permangono con esso le famose ragioni pratiche al servizio dei potentati e delle lobby. Semplicemente lo sterminio diventa umanitario. La democrazia, magari come nel Nicaragua del 2001, si promuove mediante i brogli elettorali o impedendo di fatto le elezioni. Oppure con le armi e con i bombardamenti. Ma (ricordato da Norman Mailer in un discorso tenuto il 20 febbraio 2003 al Commonwealth Club di San Francisco, ora raccolto nel libretto Perché siamo in guerra?, Einaudi “Stile libero”) ecco il dato incontestabile che riporta Ralph Nader: “Il consumo petrolifero quotidiano degli Stati Uniti è di 19,5 barili, ovvero il 26% dell’intero consumo quotidino mondiale…Gli Stati Uniti [sono costretti a importare] 9,8 milioni di barili al giorno, ovvero più della metà dell’intero fabbisogno petrolifero quotidiano della nazione…L’unico modo che hanno gli Stati Uniti per mantenere questa incredibile dipendenza dal petrolio è assumere il controllo del 67% delle riserve petrolifere mondiali accertate, 67% che giace sotto le sabbie dell’area del golfo Persico. Soltanto l’Iraq ha riserve accertate di 122,5 miliardi di barili, vale a dire l’11% delle restanti riserve mondiali. L’unico paese a possedere riserve ancora maggiori è l’Arabia Saudita”. Ecco la democrazia secondo la junta Bush-Cheney. Il “Presidente della guerra” – come si è definito il capo della Casa Bianca ancora in queste ore – non mostra alcuna intenzione di fermarsi. Basta tirare le somme, a lettura ultimata, del meticoloso lavoro di ricerca e di scavo di William Blum. Allora, eufemismo per eufemismo, non è inutile ricordare il filosofo Alain Badiou (in Metapolitica, edito da Cronopio nel 2001), secondo il quale “la parola ‘democrazia’ è oggi il principale organizzatore di consenso. Si pretende di comprendere sotto questa parola tanto il crollo degli Stati sociali quanto il supposto benessere dei nostri paesi o le crociate umanitarie dell’Occidente”, come a dire che la democrazia è diventata “opinione autoriatria” da cui, pena la armi, non è possibile derogare. Cosicché “ogni soggettività che si suppone non democratica è considerata patologica” e va, dunque, mediante il “diritto di ingerenza dei legionari e dei paracadutisti democratici”, rieducata. Come un tempo – e il libro di Blum di nuovo lo testimonia – andavano “rieducati” i comunisti. Che la “democrazia” degli anticomunisti altro non sia, ieri come oggi, e al pari del patriottismo, l’estremo rifugio dei peggiori mascalzoni?

 

 

Irene Panozzo, LA NUOVA SARDEGNA
– 09/02/2004

 

Tutti i crimini a stelle e strisce, il libro nero degli Stati Uniti

 

“L’esatto dolore, nel punto esatto, nella quantità esatta, per l’effetto desiderato”. Questo il motto di Dan Mitrione, ufficialmente capo missione a Montevideo dell’Ufficio per la sicurezza pubblica (Ops), branca dell’Agenzia per lo sviluppo internazionale statunitense (Usaid). In realtà uomo della Cia, istruttore e fine teorico dell’arte della tortura nell’Uruguay della seconda metà degli anni Sessanta.
Quella di Mitrione è una delle tante figure di cittadini americani e non, solitamente sul libro paga dell’Agenzia, che emergono dalle fitte pagine de “Il libro nero degli Stati Uniti” di William Blum. Pagine in cui l’autore – funzionario del Dipartimento di Stato fino al 1967, quando decise di dare le dimissioni per protesta contro le azioni del governo Usa in Vietnam – ricostruisce e racconta senza tralasciare dettagli più di cinquant’anni di operazioni della Cia nei cinque continenti.
Anche solo scorrendo i titoli dei capitoli, salta subito all’occhio che nessun angolo del pianeta manca all’appello. Le crisi o guerre più famose, come quella del Vietnam o le ricorrenti tensioni con Cuba; i colpi di stato organizzati dalla Cia contro leader democraticamente eletti, tra cui Mossadegh nel ’53 in Iran, Arbenz nel ’54 in Guatemala, Salvador Allende nel ’73 in Cile; le vicende meno conosciute: c’è tutto. E per ogni scenario, l’autore svela il ruolo giocato dagli Stati Uniti basandosi sia su fonti primarie (rapporti delle commissioni d’inchiesta, documenti desecretati, dichiarazioni dei principali attori) che secondarie. Nel farlo, parte dall’assunto che la politica estera Usa è sempre stata determinata da uno spiccato anticomunismo: dal “terrore rosso” degli anni Venti al maccartismo degli anni Cinquanta fino alla crociata reaganiana contro l’Impero del Male degli anni Ottanta. Solo tenendo presente questo ininterrotto filo rosso si può, scrive Blum nell’introduzione, “provare a comprendere le contraddizioni della politica estera statunitense a partire dal secondo dopoguerra e, in particolare, la documentazione riportata in questo libro di ciò che i militari, la Cia e altri settori del governo hanno fatto ai popoli del mondo”.
L’attenzione di Blum si focalizza in particolare sull’operato della Cia dal 1947, anno della sua creazione, a oggi. Il ritratto che emerge è quello di un’amministrazione quasi indipendente, dotata di un numero maggiore di funzionari (ufficiali e non) rispetto al Dipartimento di Stato, con dotazioni militari proprie e che fino alla disfatta della Baia dei Porci del 1961 non è mai stata sottoposta a indagini parlamentari o controlli esterni. Ciò ha permesso all’intelligence americana di perseguire spesso una politica estera autonoma, anche se di solito non in linea con i principi e gli obiettivi fondamentali della politica estera del governo.
L’opera di Blum ha avuto largo seguito e varie riedizioni negli Stati Uniti. L’edizione italiana per i tipi della Fazi Editore è però unica al mondo. Accanto a 56 capitoli firmati da Blum, il volume presenta infatti altri dieci nuovi capitoli firmati da Nafeez Mosaddeq Ahmed con la supervisione dello stesso autore. Con il titolo “Terrore di Stato all’alba del nuovo secolo americano”, le 125 inedite pagine di Ahmed trattano tutte le principali crisi degli ultimi dieci anni, dalla Jugoslavia alla Somalia, dall’America Latina all’Afghanistan all’Iraq, lasciando spazio per i possibili scenari futuri.

 

Giuliano Malatesta, IL VENERDÌ-LA REPUBBLICA
– 05/02/2004

 

Vi svelo la sporca guerra di Bush. E Clinton

 


Gli Stati Uniti non hanno mai aspettato suggerimenti e illuminazioni esterne per produrre i propri anticorpi. Non c’è mai stato nella loro storia un periodo o una linea di governo che non abbia trovato chi dissentiva. Forse è per questo che il libro del giornalista americano William Blum (Il libro nero degli Stati Uniti, pp.900, Fazi Editore), nonostante alcune sue tesi fortemente provocatorie, e apertamente critiche nei confronti della condotta americana in politica estera negli ultimi cinquant’anni, rientra in pieno nella tradizione del dissenso americano e si inserisce nella scia contestatrice di altri autori di culto della cultura radical statunitense come Gore Vidal o Naom Chomsky che ha definito questo testo “Il miglior libro al mondo sugli interventi americani”.
Blum, nel suo libro lei accusa gli Stati Uniti di aver attuato, a partire dalla seconda guerra mondiale, un progetto “imperiale” e repressivo, sul modello del vecchio English Imperium. Ma la storia non si ripete mai…
Non so se la storia si ripete. Io sto ai fatti e registro delle forti somiglianze, e delle differenze. L’obiettivo finale era e resta identico in entrambi i casi: il profitto economico, la gestione fu invece differente. Gli inglesi preoccupati dei loro affari trasformarono la vecchia compagnia delle Indie in un impero vero e proprio, occupando le colonie per poi imporre stili di vita e standard anglosassoni; al contrario gli Stati Uniti hanno deciso di esercitare la propria egemonia senza sconfinare, assicurandosi il controllo dei paesi satellite attraverso leader approvati da Washington, rovesciandone altri che non gairantivano sufficiente stabilità e sfruttando il potere dell’economia americana, dal Fondo Monetario Internazionale alla Banca Mondiale. Anche se le ultime vicende in Afghanistan e in Iraq si avvicinano al modello inglese.
Lei individua un solo leit motiv della politica americana degli ultimi cinquant’anni, con qualsiasi governo: l’ossessione per il complotto comunista internazionale. Non le sembra un po’ troppo riduttivo e semplificativo mettere sullo stesso piano Kennedy e Bush, Nixon e Clinton?
Nel corso degli ultimi cinquant’anni si sono alternate, in seno alla Casa Bianca, differenti strategie politiche ma esse hanno riguardato quasi esclusivamente gli affari interni, le questioni nazionali. In politica estera tutti si sono dimostrati interventisti, brutali e anti-comunisti, sensibili e attenti più al profitto delle multinazionali che non alla difesa dei diritti umani. Il bombardamento di Clinton nella ex Yugoslavia è stato illegale, immorale e basato su menzogne allo stesso modo delle invasioni di Bush in Iraq e Afghanistan. Dico questo per fare un esempio recente sulla vicinanza di intenti dei due maggiori partiti in politica estera.
Riferendosi ai danni causati dai numerosi interventi militari americani all’estero, lei ha parlato addirittura dell’esistenza di un olocausto americano: da un punto di vista storico è una interpretazione molto azzardata.
C’è molta reticenza a usare la parola “olocausto” per descrivere qualcosa di diverso dai crimini nazisti. Si pensa che usandola per indicare altro, implicitamente si rischi di minimizzare l’olocausto nazista. Ma guardando al problema in maniera meno emotiva e con maggiore obiettività, scopriamo che dal 1945 a oggi gli Stati Uniti hanno rovesciato più di cinquanta governi stranieri, hanno annientato più di trenta movimenti di liberazione che combattevano contro regimi oppressivi, bombardato 25 Stati sovrani, causato la morte di alcune milioni di persone e condannato altrettante a una vita di agonia e disperazione. Credo che questi dati siano sufficienti per giustificare la parola olocausto.
Nel testo si parla anche di un regime di censura preventiva, presente nel tessuto educativo e mediatico americano. Che cosa sta cambiando oggi nel rapporto tra guerra e informazione con l’introduzione dei new media e la crescente pervasità dei mezzi di comunicazione di massa?
C’è una storia di un gruppo di scrittori russi in viaggio negli Stati Uniti ai tempi della guerra fredda che mi sembra esemplificativa. Essi rimasero meravigliati nello scoprire, dopo aver letto i quotidiani e guardato la televisione, che quasi tutte le opinioni riguardanti le questioni più importanti erano le stesse. “Nel nostro paese”, disse uno di loro, “dove le dinamiche sono simili, noi abbiamo una dittatura. Imprigioniamo le persone. Le torturiamo. Qui nulla di tutto questo accade. Come è possibile? Qual è il segreto?”. Credo che sia molto difficile trovare negli Usa anche un singolo quotidiano americano che si sia inequivocabilmente opposto ai bombardamenti in Iraq nel 1991, in Yugoslavia nel 1999, in Afghanistan nel 2001 e di nuovo in Iraq nel 2003. In una società apparentemente libera, con una stampa presumibilmente libera, con circa 1500 quotidiani, la diversità di opinioni dovrebbe essere legittima.
Il fallimento americano in Iraq sembra dovuto principalmente all’assoluta mancanza di un serio progetto di ricostruzione e di pianificazione del dopoguerra. Secondo lei è ancora possibile un’inversione di rotta?
Ritengo che fino a quando gli Usa rimarranno in Iraq come una forza di occupazione militare, che colpisce e bombarda il popolo irakeno umiliandolo ogni giorno nei modi più diversi, continueranno a essere odiati e a essere il bersaglio della resistenza. La questione fondamentale è che gli Stati Uniti non hanno fatto nulla per alleviare le condizioni della popolazione locale, per contribuire al miglioramento del loro tenore di vita. Washington si è occupata solo di espandere il proprio impero, di aprire il paese alle multinazionali, e di aiutare Israele.
Nel suo libro due capitoli sono dedicati all’ingerenza dell’intelligence americana in Italia. Che giudizio si è fatto sulla attuale situazione politica italiana e sul nostro rapporto con gli Stati Uniti?
E’ sconvolgente per me sapere che qualcuno come Berlusconi possa essere il leader di una delle maggiori potenze occidentali. Ma non sono affatto sorpreso dall’alleanza con Bush in politica estera. Mi sembra di capire però che la maggioranza della popolazione italiana non condivida i suoi metodi e i suoi punti di vista.

 

Il libro nero degli Stati Uniti - RASSEGNA STAMPA

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Traduzione di Giuliano Bottali Dall'autore del Libro nero degli Stati Uniti, una raccolta di saggi irriverenti, sarcastici, documentatissimi che attraversa gli ultimi decenni di politica estera e interna USA. William Blum, guru del giornalismo d'inchiesta radical statunitense, prosegue con questo...
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