Nafeez Mosaddeq Ahmed

Guerra alla libertà

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Il ruolo dell'amministrazione Bush nell'attacco dell'11 settembre

Collana:
Numero collana:
40
Pagine:
342
Codice ISBN:
9788881123643
Prezzo cartaceo:
€ 17,00
Data pubblicazione:
06-09-2002

Traduzione di Pietro Meneghelli

La tesi centrale di Guerra alla libertà è riassunta nella prefazione al volume: “Esistono prove convincenti che l’amministrazione Usa abbia istigato il terrorismo in quanto esso è un pretesto perfetto per giustificare una politica estera aggressiva; e questo è valso anche per gli attacchi dell’11 settembre alle Torri Gemelle e al Pentagono”. Come si vede, è una tesi molto controversa, destinata a suscitare molte polemiche. Eppure, la sua ampia documentazione – raccolta da documenti e resoconti ufficiali del governo statunitense e delle agenzie di sicurezza e riscontrabile per chiunque – il rigore delle trattazioni, la lucidità delle conclusioni, le consulenze favorevoli di storici e politologi hanno convinto Fazi Editore a pubblicare il libro in prima europea e ad acquisirne la gestione dei diritti per l’Europa. Ecco alcuni degli argomenti “forti” del testo: 1. La strage dell’11 settembre non è stata il vero motivo della guerra in Afghanistan. Essa era già prevista da mesi per l’ottobre 2001 ed era funzionale all’istituzione di un nuovo regime più “morbido” nei confronti degli investimenti economici statunitensi in Asia Centrale, e in particolar modo sul passaggio di gasdotti e oleodotti attraverso il paese. 2. Già dal 1995, e con particolare frequenza dall’agosto del 2001, vi sono state segnalazioni di possibili attentati suicidi aerei da parte di Al Qaeda con bersaglio le Torri Gemelle e il Pentagono – segnalazioni che non sono state raccolte dall’Amministrazione. Tre funzionari dell’FBI hanno persino dichiarato di conoscere i nomi degli attentatori settimane prima dell’11 settembre. 3. La famiglia Bush è rimasta in rapporti economici con la famiglia di Bin Laden fino a dopo l’11 settembre; inoltre, vi sono prove che Bin Laden è in contatto – e non, come si dice, in rotta – con la propria famiglia. La guerra in Afghanistan avrà come esito un grande arricchimento personale di Bush e della sua famiglia.

GUERRA ALLA LIBERTÀ – RECENSIONI

 

Enzo Verrengia, LA GAZZETTA DEL MEZZOGIORNO
– 03/10/2004

 

L’altra faccia (oscura) dell’11 settembre

 

La distruzione delle Torri Gemelle di New York ha stampato nella coscienza contemporanea una traccia indelebile che oggi fa dice come dal terrorismo si sia passati all’orrorismo. Per questo, spettatori non abituati di cinema documentario si precipitano nelle sale per vedere Fahrenheit 9/11. Ma il film di Michael Moore oscilla troppo fra la satira su Bush e la pietà per le vittime, lasciando per strada interrogativi e discrepanze sulla madre di tutti gli attentati.

Due libri aiutano a riassumere quanto resta ancora da spiegare sull’avvenimento cha ha fatto svoltare il XXI secolo verso le più fosche previsioni di un futuro instabile e apocalittico. In 11 settembre, di David Ray Griffin (Fazi ed., pp. 158, euro 17,00), vengono esaminate le principali teorie del complotto alla luce di una ricerca seria e imparziale. L’autore, già docente di teologia, non vuole unirsi al coro degli speculatori in cerca di pubblicità. Al contrario, vuole sfatare le ipotesi meno verosimili e ragionare su quelle più sensate. Griffin riprende così i dati incongruenti sugli orari e il succedersi dei fatti riguardo agli aerei dirottati e il loro impiego per l’attacco al World Trade Center e al Pentagono. I risultati non tornano. In particolare, i due grattacieli non avrebbero potuto crollare per il solo impatto dei Boeing, e ancor meno il terzo palazzo, troppo distante per risentire gli effetti del disastro. Quanto a Washington, Griffin non ritiene troppo azzardato ciò che sostiene il francese Thierry Meyssan sull’utilizzo di un missile teleguidato, non di un aereo contro il Pentagono. Tutto questo, per l’autore di 11 settembre, non deve alimentare il filone complottista ma innescare nella società civile un forte bisogno di chiarezza e la rigenerazione dei processi democratici.
L’altro libro si muove nella stessa direzione, solo con un’ampiezza maggiore di elementi. Guerra alla verità, di Nafeez Mosaddeq Ahmed (Fazi, pp. 564, euro 22,00) è una monumentale inchiesta sulla rete di connessioni tra terrorismo e politica espansionista occidentale, dalla fine della Guerra Fredda a oggi. Lo studioso inglese enumera episodi e circostanze inequivocabili per capire che il sospetto di un Grande Disegno sia più che fondato.
Ahmed non si limita a scavare dietro gli interessi degli americani. Rimette in discussione l’atteggiamento dei principali gruppi di potere ai vertici delle nazioni industrializzati. Ritorna sui conflitti sanguinosi dei Balcani, dove l’intervento pacificatore dell’Occidente fu meno disinteressato di quel che sembrò allora. Stesse zone d’ombra per la guerra scatenata dai russi contro i ceceni e quella, non meno agghiacciante, che da anni il governo algerino combatte sul proprio territorio per schiacciare l’opposizione musulmana. Il tutto finalizzato alla creazione di un assetto internazionale dove non vi sia spazio per la ragione dei popoli, perché l’equilibrio viene dettato dall’economia e dal dominio delle risorse naturali, specialmente il petrolio.
I libri di Griffin e Ahmed sono complementari. Il secondo comincia dove finiscono le questioni messe in campo dal primo. Del resto, Griffin cita abbondantemente nella bibliografia l’altro volume di Ahmed, Guerra alla libertà, scritto all’indomani dell’11 settembre per proporre una visione diversa della campagna bellica in cui ogni cittadino del mondo sviluppato si trova giocoforza coinvolto senza che nessuno abbia spiegato bene chi sia il nemico.

 

AVVENIMENTI
– 24/09/2004

 

Imbarazzanti i libri neri su George Bush

 

Nell’11 settembre (Fazi, 262 pagine, 17 euro) David Ray Griffin, condirettore del Center for Process Studies, esamina le teorie del complotto sugli attentati dell’11 settembre. Ne viene fuori l’idea che “qualcosa non va” nella ricostruzione ufficiale dei fatti. Già nel 1995, la polizia filippina consegna agli Usa le informazioni trovate in un computer di Al Qaeda che descrivevano un piano di dirottamento aereo per colpire obiettivi come la Casa Bianca e il Pentagono. Nel luglio 2001 Cia e Fbi intercettano informazioni u un probabile attacco. I governi di Russia, Inghilterra, Giordania, Egitto e Israele, compresi i talebani dell’Afghanistan, informano dell’attacco l’intelligence americana. Dunque, l’amministrazione Bush sapeva, ed ha probabilmente utilizzato questa consapevolezza per scatenare una guerra, come accadde per l’attacco giapponese a Pearl Harbor.
Due anni dopo il successo di Guerra alla libertà (Fazi, 475 pagine, 22 euro), Nafeez Mosaddeq Ahmed lo ripresenta con nuove sconvolgenti rivelazioni. Tipo: i lavori della commissione d’inchiesta del Congresso Usa sono un colossale falso, fra l’altro il presidente della commissione è in affari con Bin Laden. I servizi segreti Usa erano infiltrati in Al-Qaeda e ne conoscevano i piani. Infine, è possibile collegare l’attentato di Madrid, con documenti trapelati dal Pentagono che parlano di attentati in Europa per rafforzare il sostegno alla guerra al terrorismo.

 

Patrizia Tagliamonte, TV RADIOCORRIERE
– 08/04/2003

 

Guerra alla libertà

 

L’autore del libro è un giovane inglese direttore di un importante istituto di Brighton per lo studio dei diritti umani. Con sobrietà e rigore documentaristico il libro si pone interrogativi sulle tante discrepanze sorte nell’ambito delle inchieste sull’attentato alle torri, e cerca di rispondere a queste e ad altre domande: perché nonostante le dettagliate segnalazioni non è stato fatto nulla per prevenire gli attentati? L’invasione dell’Afghanistan è il risultato di questi attentati o come molti dati indicano con chiarezza, era già programmata in precedenza? Quali relazioni economiche hanno legato la famiglia Bush a quella Bin Laden?

 

Francesco Neri , IL MANIFESTO
– 08/11/2002

 

Kabul: invasione annunciata

 

Non è un vecchio cattedratico americano e non è nemmeno un corrispondente da New York per qualche giornale internazionale. Eppure la sua analisi su quanto avvenuto l’11 settembre 2001 a New York è una delle più accreditate. Nafeez Mossadeq Ahmed ha 23 anni, vive a Brighton in Inghilterra, ha lasciato prematuramente gli studi di sociologia e ha preferito fare lavoretti nei bar e nei ristoranti. Nel frattempo ha preso una laurea americana con un corso per corrispondenza. Ha già scritto alcuni volumi sull’Afghanistan. Adesso gestisce un albergo comunale per senzatetto.
Guerra alla libertà, (Fazi Editore, pag. 340, 16,8 euro) è il titolo del suo ultimo volume che pone questioni importanti alle quali ancora nessuno è stato in grado di dare una risposta esauriente:
– L’invasione dell’Afghanistan è il risultato degli attentati dell’11 settembre o era già programmata in precedenza?
-Come mai nonostante le numerose e dettagliate segnalazioni, non è stato fatto nulla per prevenire gli attentati?
-Osama Bin Laden ha davvero rotto definitivamente i rapporti con la sua famiglia?
Nafeez Ahmed non dirige riviste di geopolitica ma è il responsabile dell’Institute for Policy Research e Development di Brighton, un ente di ricerca, senza ufficio, senza sede, senza fondi, che si occupa di diritti umani. Abbiamo incontrato l’autore e gli abbiamo rivolto alcune domande.
La tesi centrale del suo libro consiste nella chiara denuncia rivolta all’amministrazione Bush di avere istigato il terrorismo internazionale. Può indicare elementi e fatti precisi dell’amministrazione di George W. Bush che hanno alimentato fino all’11 settembre 2001 il terrorismo internazionale e che lo alimenterebbero ancora?
Esaminiamo la Guerra Fredda: secondo la versione ufficiale gli americani avrebbero soltanto supportato i mujhaiddin in Afghanistan contro il potere sovietico e poi si sarebbero ritirati dall’Afghanistan. Ma la realtà è diversa. Un certo Richard Labavière, autore di un libro intitolato Dollars for terror, ha intervistato un ufficiale della C.I.A. il quale avrebbe riferito come l’obiettivo degli Stati Uniti non era affatto abbandonare l’Afghanistan ma restarvi per manipolare il fondamentalismo islamico per destabilizzare il potere sovietico e cinese in quell’area. Gli Stati Uniti dunque avrebbero finanziato i mujhaiddin per realizzare i propri interessi geopolitici in Asia centrale.

Qual è più precisamente l’interesse degli Stati Uniti in Medio Oriente e il vantaggio che ne deriverebbero da un appoggio a Bin Laden?
L’obiettivo dell’America è quello di mantenere il proprio dominio globale. Questo termine, ‘dominio globale’ viene ripetutamente usato in molti documenti ufficiali dell’amministrazione statunitense. Il dominio va mantenuto su quelle aree più ricche di risorse. E il petrolio è fondamentale per il mantenimento della società americana. Asia centrale e Medio Oriente sono molto ricche di petrolio. Dopo che gli Stati Uniti hanno instaurato il loro controllo sull’Afghanistan hanno cominciato immediatamente a costruire un oleodotto che raggiunge il mar Caspio, passando proprio per l’Afghanistan. Lo ha spiegato molto chiaramente Brezinki nel suo libro The grand chessboard: l’America per mantenere il proprio dominio globale deve riuscire a controllare l’Eurasia. E per controllare l’Eurosia comincia a controllare l’Asia centrale. La porta per l’Asia centrale è stata l’Afghanistan. L’America dunque sta usando la scusa della guerra al terrorismo per rafforzare e mantenere il proprio dominio globale sulle risorse del pianeta.
Con il suo libro intende sostenere che il governo americano sapeva che Osama Bin Laden stava organizzando un grande attentato e che le torri erano un possibile bersaglio?
Basandoci sull’evidenza dei fatti possiamo dire che gli Stati Uniti sapevano di un attacco alle torri gemelle e sapevano anche la data. E’ possibile ipotizzare che l’abbiano lasciato accadere per dare nuova linfa ad una politica estera aggressiva e per attuare delle restrizioni, in casa loro, delle libertà civili. Questa è la spiegazione più plausibile. Per esempio un articolo uscito su Newsweek afferma che alcuni ufficiali del Pentagono hanno cancellato i loro piani di viaggio per l’11 settembre perché avevano ricevuto informazioni riservate che consigliavano loro di non viaggiare quel giorno. Quindi la domanda che tutti dobbiamo porci è: se gli ufficiali del Pentagono hanno ricevuto quelle informazioni perché queste informazioni non sono state diffuse tra tutto il pubblico americano e perché i voli di linea americani hanno continuato normalmente?
In quali ambienti circolavano queste informazioni?
Queste informazioni circolavano all’interno dell’intelligence U.S.A, all’interno della quale era risaputo che AlQaeda stava pianificando un attacco. Per esempio David Shippers, autore dell’impeachment di Clinton, mi ha raccontato come nel maggio 2001 diversi agenti dell’FBI mi hanno detto che le loro investigazioni nei confronti di diversi membri di AlQaeda erano state bloccate dall’alta burocrazia politica.
L’11 settembre 2001 può essere considerato l’inizio di una nuova contrapposizione tra Est e Ovest del mondo, l’inizio di una nuova Guerra Fredda?

E’ possibile che gli U.S.A. abbiano pianificato da tempo una guerra fredda con la Cina in particolare. C’è un documento segreto del Duemila steso da molti esponenti dell’amministrazione Bush, Rumsfeld, Wolfowitz e altri, che si chiama Progetto per il nuovo secolo americano e dentro ci sono i piani per attaccare l’Iraq seguiti da quelli per attaccare la Siria, l’Iran e si parla anche di un cambio di regime in Cina.
Uno degli argomenti che maggiormente colpisce nel suo libro è l’esistenza di relazioni economiche tra la famiglia Bin Laden e la famiglia Bush. Ci sono realmente questi legami?
Esiste il Carlyle Group che è una società di investimento ed è anche un gigante della difesa. Tra i membri di questo gruppo c’è Bush padre. Il Carlyle ha forti connessioni con la famiglia di Bin Laden. La famiglia di Bin Laden ha investito diversi milioni di dollari in questo gruppo. Inoltre sembra che vi siano ancora forti legami tra i membri della famiglia Bin Laden, come è stato scritto su alcuni giornali americani, tra cui il Newyorker. Sembra che ci siano due sorelle di Bin Laden che da Dubai passino grandi somme di denaro a Osama.

 

 

Marco Signori, OSSERVATORIO NORDICO
– 01/10/2002

 

Guerra alla libetà

 

Nel periodo immediatamente successivo agli attentati realizzati negli Stati Uniti il giorno 11 settembre 2001 l’enormità stessa del fatto e il suo carattere inusitato avevano in qualche modo stordito le possibilità e capacità di analisi del fatto stesso, come se qualsiasi indagine e verifica informativa fosse addirittura inutile e comunque priva di significato sostanziale. Superata la fase di shock, la forte valenza simbolica degli obiettivi colpiti e segnatamente delle torri di New York, effige orgogliosa del globalismo avanzante, che obiettivamente offriva agli odiatori degli yankee in tutto il mondo un’icona celebrativa di grande impatto emotivo, non poteva non indurre a scartare già in ipotesi la possibilità che gli attentati fossero stati concepiti e attuati da agenzie, circoli o poteri ricollegabili, direttamente o indirettamente, agli yankee stessi ovvero a loro strettissimi e interessati sodali. In una tale circostanza, dunque, la fulminante battuta di Seneca “Cui prodest scelus, is fecit” appariva addirittura fuori luogo. Era peraltro già ben evidente ciò che Condoleezza Rice, la negretta d’innocuo aspetto alla quale Bush ha affidato l’incarico di National Security Advisor, avrebbe dichiarato con assoluta improntitudine più recentemente: “L’undici settembre costituisce una straordinaria opportunità per gli Stati Uniti”. Ed era anche già ben chiaro, come oggi manifestamente si conferma, che un’Israele portata dallo sharonismo fin sul ciglio dell’abisso avrebbe ricavato vantaggi strategici enormi da una precipitazione dei rapporti tra Occidente e Islam che sfociasse in quello scontro di culture (“Clash of Civilizations”) preconizzato da Samuel P. Huntington nel suo omonimo e discutibile saggio già nel 1996. Pur non inverosimile, dunque, lo scenario di un’enorme provocazione orchestrata per dare pretesto alla guerra appariva piuttosto improbabile.
Meno improbabile sembrava invece, tenuto conto della clamorosa inefficienza apparentemente dimostrata dai servizi di informazione e di sicurezza nell’opera di prevenzione, lo scenario più complesso esemplificato, tra i primi, dall’insospettabile Giorgio Galli. Nel suo L’impero americano e la crisi della democrazia (Milano 2002), egli osservava: “Occorre partire da una convinzione razionale: è impossibile che i servizi di sicurezza degli Stati Uniti (Cia, Fbi, Nsc) e israeliani (Mossad) non sapessero nulla di nulla sui preparativi degli attentati dell’11 settembre. È del tutto inverosimile che in quel momento e contesto specifico – dalla Intifada palestinese, alla conferenza di Durban – i potentissimi apparati delle intelligence statunitense e israeliana fossero totalmente ignari dei preparativi di una iniziativa di così rilevanti dimensioni, presumibilmente progettata proprio sul territorio degli Stati Uniti” (pag. 7). E ancora: “Naturalmente, escludo che i Servizi potessero sapere con precisione di un’impresa come quella che è stata attuata l’11 settembre. Piuttosto, le intelligence USA e il Mossad potevano avere appreso, per esempio, del progetto di dirottare un aereo sul territorio degli Stati Uniti, ignorando che quel dirottamento era parte di un progetto ben più ampio e catastrofico come quello che effettivamente è stato portato a compimento. Ritengo in sostanza che i citati servizi di intelligence, nell’estate del 2001, qualcosa avessero saputo sull’imminenza di un attentato, il quale però non è stato impedito (l’ex presidente Clinton avrebbe poi parlato di ben 16 attentati sventati durante la sua amministrazione). Perché? Probabilmente perché un singolo, grave ma limitato episodio di destabilizzazione avrebbe permesso di perseguire uno o più obiettivi politici di rilievo” (pag. 8). E infine: “Pur estraneo agli attentati dell’11 settembre e ignorandone l’enorme portata, il Mossad probabilmente era a conoscenza che negli Stati Uniti si stava preparando una operazione terroristica di rilevanti dimensioni, in grado di produrre una svolta politica a tutto vantaggio di Israele” (pag. 79).
Degli attentati negli Stati Uniti hanno trattato molti autori, con maniere e spirito diversi. L’occasione era troppo ghiotta, poi, perché qualcuno non rispolverasse rifritte teorie complottistiche, pur in libercoli divertenti e ben congeniati come sogliono appunto essere i romanzi gialli d’autore. Ci si lasci osservare, a tal proposito, come i teoremi sensazionalistici sulla Grande Cospirazione Mondiale, dai Protocolli dei Savi di Sion fino al Complotto di Mani Pulite abbiano storicamente funzionato come solleticatori degli istinti belluini in amorfe masse di imbecilli, ma servendo di regola la menzogna e non già la verità. Con questo, naturalmente, non neghiamo affatto l’esistenza di macchinazioni nell’ambito delle attività umane e quindi della politica mondiale, solo che le correlate vicende sono normalmente assai più semplici, o viceversa assai più complesse, di come i complottomani didascalicamente tendano a dipingerle.
Tra i libri meritevoli di attenzione certamente si segnala La guerra infinita” di Giulietto Chiesa (Feltrinelli Milano, 2002), che dedica tutto un capitolo agli attentati dell’11 settembre e ottimamente tratteggia il quadro geopolitico di riferimento generale. Pur ricco di dati e fatti, però, il libro di Chiesa non entra più di tanto negli specifici particolari inerenti agli attentati.
Il recente libro di Nafeez Mosaddeq Ahmed, Guerra alla libertà, uscito nel settembre 2002 per i tipi di Fazi Editore, è invece espressamente dedicato a questi, che naturalmente colloca nel contesto generale ma non per questo esimendosi da approfondimenti dettagliati e di grande interesse. Il sottotitolo (“Il ruolo dell’amministrazione Bush nell’attacco dell’11 settembre”) è a questo proposito molto significativo. Ahmed non è, come il nome potrebbe far sospettare, un esaltato islamista uscito da qualche covo di fanatici, bensì un serio studioso inglese che dirige a Brighton l'”Institute for Policy Research & Development”. I suoi lavori sono testi di studio, tra l’altro, ad Harvard e in altre università statunitensi. Gore Vidal ha definito il libro di Ahmed “La più approfondita e inquietante analisi che abbia letto finora sull’11 settembre”, mentre secondo Peter D. Scott dell’Università di Berkeley (Ca) “Ahmed va dritto al cuore del problema, offrendo un’enorme quantità di dati fino a oggi completamente sottovalutati”. Dal risvolto di copertina:
“”Esistono prove convincenti che “l’amministrazione Bush abbia istigato il terrorismo in quanto esso è un pretesto perfetto per giustificare una politica estera aggressiva; e questo è valso anche per gli attacchi dell’11 settembre alle Torri Gemelle e al Pentagono”. È la controversa tesi centrale di questo libro, che arriva finalmente in Italia, in prima europea, dopo aver circolato a lungo su Internet e nei canali alternativi dell’informazione radical. Ma non si pensi a una raccolta di facili insinuazioni dietrologiche. Ciò che sorprende in Guerra alla libertà è l’assoluta sobrietà e il rigore documentario con cui Ahmed tenta di rispondere a queste domande:
1. L’invasione dell’Afghanistan è il risultato degli attentati dell’11 settembre o, come molti dati indicano con chiarezza, era già programmata in precedenza?
2. Come mai, nonostante le numerose e dettagliate segnalazioni, non è stato fatto nulla per prevenire gli attentati?
3. Come mai l’11 settembre non si sono applicate le procedure di routine di intercettazione degli aerei?
4. Quali sono le relazioni economiche che hanno legato la famiglia di bin Laden e la famiglia Bush? esse sono interrotte da tempo o, come sembra, continuano ancora oggi?
5. Osama bin Laden ha davvero rotto con la sua famiglia o invece, come fonti attendibili indicano chiaramente, mantiene con essa rapporti di stretta cooperazione?
6. A chi porteranno benefici economici la guerra in Afghanistan e le prossime, annunciate campagne della “guerra al terrorismo”?
Guerra alla libertà offre l’interpretazione più chiara, articolata e completa degli avvenimenti dell’11 settembre e di ciò che ne è seguito: di quella tragica giornata ricostruisce le motivazioni profonde con una lucidità che costringerà ogni lettore, anche il più scettico, a riflettere”.
Lontano da ogni sindrome complottistica, Ahmed esponendo puri e documentati fatti costringe appunto a riflettere. Non trae conclusioni aprioristiche. Non bandisce crociate. Non si lascia mai trascinare dalle emozioni personali. Ma le riflessioni che il suo libro costringe a compiere rimettono in causa, obiettivamente, scenari come quello ipotizzato da Giorgio Galli e ne evidenziano il carattere tendenzialmente semplicistico: a un anno dai fatti, sulla scorta di molti elementi nel frattempo emersi (che Ahmed in buona parte riprende), esistono le condizioni per approfondirne più compiutamente l’analisi e valutare, di conseguenza, ipotesi di maggiore complessità.
Nella prefazione al libro, John Paul Leonard elenca alcuni punti, tra gli altri, che il lavoro di ricerca di Ahmed porta in luce:
1. È stato grazie a un investimento della famiglia bin Laden che George Bush Jr. ha avviato la sua attività, mentre è chiaro che la guerra in Afghanistan sarà servita a rendere più ricca la famiglia Bush.
2. Certe attività di un ex sergente dell’esercito USA – che ha addestrato gli attivisti di Al Qaeda e ha partecipato agli attentati contro le ambasciate – inducono a pensare che gli USA continuino a proteggere bin Laden, considerato alla stregua di risorsa strategica.
3. Membri di Al Qaeda sono stati addestrati al terrorismo negli Stati Uniti, dalla CIA, e gli stessi dirottatori sono stati addestrati dai militari americani.
4. Gli Stati Uniti hanno finanziato i servizi segreti pakistani, che a loro volta hanno finanziato Mohammed Atta, il presunto dirottatore.
5. Il crescendo di segnalazioni da parte dei servizi d’intelligence di tutto il mondo, all’inizio di settembre, è stato ignorato, mentre dalle alte sfere venivano impartite direttive che troncavano le indagini su sospetti terroristi legati a bin Laden.
6. Tre funzionari dell’FBI hanno testimoniato di aver saputo i nomi dei dirottatori e la data dell’attacco settimane prima che questo si verificasse, ma sono stati ridotti al silenzio dai superiori, con la minaccia di procedimenti a loro carico; il legale che ora li rappresenta è il responsabile dell’accusa presso il Congresso degli Stati Uniti per i casi di impeachment.
7. Le procedure operative standard – le quali prevedono che i caccia dell’Air Force intercettino immediatamente gli aerei che vengono dirottati – l’11 settembre non sono state adottate fino a quando tutto non è finito, un’ora e mezzo dopo che il World Trade Center era stato colpito.
8. Gli esperti dell’intelligence trovano risibile l’idea che bin Laden possa aver portato a termine attacchi così complessi e precisi senza l’appoggio di un’organizzazione di intelligence gestita a livello di Stato.
Nello svolgimento del suo saggio Ahmed non viene mai meno a un’esposizione rigorosa dei fatti. Egli prende le mosse dal contesto storico nel quale si è sviluppata la lunghissima crisi afghana per analizzare successivamente i rapporti tra USA e Taliban dal 1994 al 2001. Tratta quindi del progetto strategico che ha ispirato i piani di guerra statunitensi e, di seguito, esamina attentamente quelli che sono apparsi come fallimenti clamorosi dei servizi d’informazione. Passa a descrivere l’inspiegabile tracollo delle procedure di sicurezza l’11 settembre 2001. Approfondisce la questione dei legami tra gli Stati Uniti e bin Laden e quindi analizza i risvolti di potere e le logiche di profitto che sono dietro alla nuova guerra. Nelle dieci pagine delle conclusioni l’autore tira le somme e ne deduce che “In base ai fatti documentati, la loro migliore spiegazione, a parere di chi scrive, è quella che mette in risalto la responsabilità dello Stato americano per quanto è accaduto l’11 settembre 2001… ciò non vuol dire necessariamente che gli Stati Uniti siano stati coinvolti nell’orchestrazione di quei fatti dall’inizio alla fine”, in ogni caso “non è intenzione di chi scrive pretendere che le conclusioni qui delineate siano definitive. Al contrario, esse non sono che le deduzioni più logiche ricavabili dai fatti finora venuti alla luce. Resta al lettore decidere se concordare o no su tali valutazioni. in ultima analisi, questo studio non vuole fornire una ricostruzione completa, ma piuttosto dimostrare, documenti alla mano, come sia necessaria un’indagine approfondita sui fatti dell’11 settembre”. E dunque la sua proposta è semplice, diremmo ingenua: “… si deve avviare al più presto un’inchiesta pubblica e indipendente. Se ciò non accadrà, la verità su ciò che è successo l’11 settembre rimarrà sepolta per sempre”.
Non meno interessanti, e istruttive, sono le quattro appendici in coda al libro: due estratti dagli atti della Camera dei Rappresentanti USA relativi a sedute (12 febbraio 1998 e 12 luglio 2000) sugli interessi statunitensi nelle repubbliche dell’Asia Centrale; una nota su Pearl Harbor (l’attacco giapponese non fu impedito proprio per poter fare la guerra) e l’Operazione “Northwoods” (programmata costituzione di pretesti che avrebbero giustificato un attacco a Cuba); alcuni estratti da documenti pubblici sulla medesima Operazione “Northwoods”.
Ci sembra infine di poter dire che lo spirito a informare quest’ottimo libro trova efficace rappresentazione nella citazione da Patrick Martin, giornalista investigativo, che è in epigrafe alle conclusioni di Ahmed: “Quando si indaga su un delitto, è necessario porsi la domanda cruciale: “A chi giova?”. I principali beneficiari della distruzione del World Trade Center sono qui negli Stati Uniti: l’amministrazione Bush, il Pentagono, la CIA e l’FBI, l’industria delle armi, l’industria del petrolio. È ragionevole chiedersi se coloro che hanno ricavato dei benefici di tale portata dalla tragedia abbiano contribuito a farla succedere”.

 

 

Sandro Modeo, CITY
– 11/09/2002

 

Guerra alla libertà

 

C’è un solo modo per ricordare davvero i morti dell’11 settembre. Quella di non cedere ad un’emotività ingannevole e di tenere acceso il senso critico. In un anno, infatti, una specie di superspot mediatico ininterrotto ha incollato sulla verità dei fatti una pellicola di sovrarealtà così compatta da sembrar più consistente della realtà che ricopre. Col paradosso che chi ha cercato di mostrare il carattere allucinatorio di quella rappresentazione si è visto subito cacciato in quella cella senza sbarre da complottisti paranoici. Adesso però, uno studioso autorevole come Ahmed – i cui lavori sulle guerre afghane sono adottati ad Harvard – offre a tutti la possibilità di capire. Ahmed ricorda anzitutto antefatti remoti, come la vera origine del terrorismo islamico (creazione di Cia e servizi pakistani per fiaccare i sovietici in Afghanistan) o i rapporti tra le famiglie Bush e bin Laden (cerniera la Carlyle, fornitrice della difesa Usa). Poi ricorda antefatti più vicini, come la crisi di consenso dell’amministrazione Bush prima dell’attentato, sia interna (elezioni vinte illegalmente, recessione e disoccupazione), sia internazionale (scudo stellare e rifiuto al disarmo nucleare). Poi ancora rimarca le collusioni di molti membri del governo con corporation petrolifere (come la Unocal, che da decenni cerca di portare il greggio nel Mar Caspio – proprio attraverso l’Aghanistan – per acquistare i mercati asiatici). E per finire smaschera tutti i non sense apparenti della mattina dell’11 : logistici (le procedure di routine di intercettazione aerea inibite dal governo stesso); strategici (il “fiasco” dell’intelligence come silenzio finale conseguente alla soppressione “dall’alto” di indagini Cia e Fbi su Al Qaeda); economici(le speculazioni borsistiche di chi “sapeva” sulle compagnie aeree e sulle banche con sedi nelle torri); e politici (la criptazione delle responsabilità pakistane nel sostegno a Mohammed Atta, capo dei dirottatori).
Attraverso questa purificazione rigorosa l’11 settembre torna alla sua luce prosaica, sgrondandosi sia dagli slogan visivi e sonori della propaganda (i similvideo di bin Laden e la “guerra al terrore”) sia dalle oscenità estetizzanti di tanti pseudo scrittori; e si manifesta per quello che è, cioè il punto di orrore più acuto nel disegno amorale di una plutocrazia che arriva a fomentare il terrorismo per giustificare una politica estera aggressiva e la difesa dei propri interessi. Non capirlo vuol dire non tanto uccidere le vittime, come vuole la retorica; ma uccidere se stessi, perché una menzogna così radicale abolisce ogni diaframma tra i vivi e i morti.

 

GORE VIDAL, LA REPUBBLICA
– 26/09/2002

 

FANTASMI AMERICANI

 

Recentemente, un accademico americano ci ha divertito con un suo libro intitolato La fine della storia Ha precisato in seguito che aveva inteso riferirsi alla storia in senso hegeliano. Ma qualunque cosa intendesse, ha rischiarato, sia pure di poco, le tenebre che si vanno addensando. La storia non avrà fine finché non sarà morto anche l’ultimo essere umano sul pianeta. E questo oggi è nell’ordine del possibile, da quando il primo – e speriamo anche l’ultimo – impero nucleare globale ha rivolto il suo sguardo iniettato di sangue verso est, anticipando la conquista dell’Eurasia.
Anche se in tempi recenti i nostri governanti si sono presi raramente la briga di giustificare i nostri numerosi atti di guerra contro altri paesi, a volte si possono scoprire testi illuminanti, dai quali emerge che almeno nel caso dell’Afghanistan – a differenza di quello del Vietnam – c’è una logica alla base delle nostre azioni. Ufficialmente, stiamo riducendo in briciole l’Afghanistan per vendicare i tre o quattromila massacrati da Osama Bin Laden. Ma questa è solo la versione di facciata. Il duo Cheney-Bush ci ritiene tanto puerili da aver sempre bisogno di un unico criminale pazzo, cha fa il male per il solo gusto di farlo e ci odia perché noi siamo liberi e ricchi e lui no.
Il repellente Osama é stato scelto, per motivi puramente estetici, come logo per la conquista dell’Afghanistan, per la quale i piani venivano elaborati da vari anni, prima dell’11 settembre. Osama – sempre che sia stato lui – ha semplicemente fornito il trauma necessario per scatenare una guerra di conquista. Ma cosa ci sarà mai da conquistare nell’arido, sabbioso, squallido Afghanistan? Zbigniew Brzezinski lo ha spiegato nel 1997, in uno studio ad uso del Council for Foreign Relation (Consiglio per le Relazioni Estere) intitolato The Grand Chessboard: American Primacy and its Geostratigic Imperatives (La grande scacchiera: il primato americano e i suoi imperativi geostrategici). Nato in Polonia, il falco Brzezinski è stato consulente del presidente Carter in materia di sicurezza nazionale. E’ una sorta di moderno Brooks Adams, perennemente occupato a localizzare i poli di potere nel mondo affinché gli Stati Uniti possano impadronirsene in misura sempre crescente, e impedire così che cadano nelle mani dei malvagi, i quali ne approfitterebbero per tentare di conquistarci. Come sempre, tutto ciò che facciamo è per il bene degli altri. In The Grand Chessboard , Brzezinski ci impartisce una piccola lezione di storia. “Negli ultimi 500 anni, da quando i contenenti hanno iniziato a interagire tra loro sul piano politico, l’Eurasia è stata il centro del potere mondiale.”
Per Eurasia si intende l’intero territorio ad est della Germania, che comprende la Russia, il Medio oriente, la Cina e una parte dell’India. Per Brzezinski la Russia e la Cina, confinanti con l’Asia centrale, ricca di petrolio, sono le due principali potenze che minacciano l’egemonia americana in quell’area. E quindi, dà per scontata la necessità di mantenere il controllo sulle repubbliche dell’Asia Centrale chiamate familiarmente le cinque “Stan”: Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan, Kirghisistan e Afghanistan. Brzezinski ricorda poi che il consumo di energia nel mondo è in continuo aumento. Perciò, “chi detiene il controllo del petrolio e del gas del Mar Caspio controlla l’economia mondiale”.
Ma è il popolo americano disposto a combattere per impossessarsene? Non dobbiamo mai dimenticare che la popolazione americana non voleva combattere nelle due grandi guerre mondiali del XX° secolo. Tutto questo, Brzezinski lo ha perfettamente compreso. E nel documento del 1997 guarda al futuro. “Per di più l’America, per quanto società sempre più multiculturale, potrebbe trovare oggi maggiori difficoltà a plasmare il consenso su questioni di politica estera – a meno che si verifichi la circostanza di una minaccia estera e diretta veramente massiccia e largamente percepita.” Così è stata prodotta l’arma che doveva eruttare il suo fumo nero su Manhattan e sul Pentagono.
Complicità? Sul tema “Come e perché l’America è stata attaccata l’11 settembre”, ad oggi l’analisi di gran lunga migliore e più equilibrata è quella di Nafeez Mossadeq Ahmed. Il suo libro, The war on freedom, è stato appena pubblicato negli Stati Uniti e in Italia, con il titolo Guerra alla libertà (Fazi Editore).
Ahmed fornisce un background per la nostra guerra, ancora in corso, contro l’Afghanistan, e la sua descrizione dei fatti non coincide assolutamente con quanto ci hanno raccontato finora. Il suo lavoro si basa su molte fonti, e in particolare sulle rivelazioni di un certo numero di informatori americani che hanno cominciato a rendere la propria testimonianza, per esempio quegli agenti dell’FBI che avvertirono i loro superiori del fatto che Al-Qaeda stava progettando un attentato kamikaze contro New York e Washington, solo per sentirsi rispondere che se avessero reso pubblico questo allarme avrebbero pagato in prima persona ai sensi del National Security Act.
Del resto il comportamento tenuto dal presidente George W. Bush l’11 settembre non ha mancato di suscitare sospetti d’ogni genere. Nssun altro capo di uno stato moderno avrebbe continuato a farsi foografare in atteggiamento “benevolo” insieme ad una bimba intenta a parlare del suo adorato capretto, mentre i dirottatori si schiantavano con gli aerei contro tre celeberrimi edifici. In base alla Costituzione, oltre a essere capo dello stato, George W. Bush è anche comandante in capo delle forze armate. Normalmente, nel pieno di una crisi di questa portata un comandante andrebbe difilato al quartier generale per dirigere le operazioni e ricevere tutte le informazioni in tempo reale.
Cosa ha fatto invece – o piuttosto cosa non ha fa fatto George W. Bush? In un testo dal titolo The So-called Evidence is a Farce (La cosidetta prova è una farsa) Starr Goff, veterano dell’esercito USA in pensione dopo 26 anni di servizio, già docente di Scienza e Dottrina Militare a West Point, ha scritto: “Non m spiego il fatto che nessuno abbia posto finora alcune domande molto specifiche sulla condotta di Bush e compagni il giorno degli attacchi. Quattro aerei sono stati deviati dalla loro rotta, rimanendo sempre alla portata dei radar”. Detto per inciso, Goff, al pari degli altri attoniti esperti militari, non riesce a comprendere perché non si sia dato corso alla procedura automatica prescritta per legge. In caso di deviazione di un aereo dalla sua rotta, secondo l'”ordine di procedura standard nei casi di dirottamento”, aerei militari devono levarsi in volo per tentare di accertarne il motivo. E’ una norma inderogabile, che non richiede il consenso del presidente. “Verso le 8.15 è ormai chiaro a tutti che sta accadendo qualcosa di terribile. Il presidente si sta ancora congratulando con gli insegnanti. Alle 8.45, nel momento in cui il volo di American Airlines si schianta contro il World Trade Center, Bush posa per le foto con i bambini…. “.
A quanto pare, nessuno ha pensato a far decollare i caccia intercettatori della Air Force. Alle 9.03, il volo United 175 si schianta contro il secondo grattacielo del World Trade Center. Alle 9.05 Andrew Card, capo dello staff presidenziale, sussurra qualcosa a George W. Bush. Il quale, a quanto è stato riferito, “si incupisce per qualche istante”. A questo punto, il presidente ha forse sospeso la visita alla scuola e convocato una riunione di emergenza? Nient’affatto. Ha ripreso ad ascoltare gli alunni di seconda….Le banalità continuano, anche quando sopra l’Ohio il volo 77 della American Airlines compie una virara fuori programma e punta verso Washington DC.”
Bush ha forse dato ad Andrew Card l’ordine di mobilitare le forze aeree? Nient’affatto. Dopo 25 atroci minuti, si è finalmente degnato di rilasciare una pubblica dichiarazione per comunicare agli Stati Uniti ciò che ormai era chiaro a tutti: due aerei dirottati avevano attaccato il World Trade Center. Un altro aereo puntava su Washington, ma l’Air Force continuava a non muoversi. Alle 9.30, mentre Bush dirama il suo annuncio, il volo 77 è ancora a dieci minuti dal suo obiettivo, il Pentagono. L’amministrazione sosterrà in seguito di aver creduto che puntasse non al Pentagono, ma alla casa bianca; di fatto però, l’aereo stava già facendo rotta verso sud, e aveva oltrepassato la no-fly zone della Casa Bianca.
Alle 9.35 questo aereo, sempre sotto l’occhio del radar, compie un’altra manovra a 360° sopra il Pentagono. Ma l’edificio non viene evacuato, e nessun intervento celere della Air Force parte nel cielo sopra Alexandria e DC. E ora viene il bello: un pilota del quale vogliono credere che fosse stato addestrato in Florida presso una scuola di piloti di piper Cub e di Chessna conduce, ne giro di due minuti e mezzo, una perfetta spirale discendente di 7000 piedi, portando l’aereo in posizione appiattita tanto in basso da tagliare i fili elettrici che attraversano la strada davanti al pentagono, per poi infilarsi con la precisione di uno spillo nella fiancata dell’edificio. Quando la teoria dell’addestramento alla scuola di volo in Florida ha incominciato a fare acqua, si è parlato di u’ulteriore specializzazione su un simulatore di volo. Un po’ come pensare di insegnare ad un’adolescente a guidare un’auto nell’ora di punta comprandole un videogioco …Su questi eventi è stata evidentemente imbastita una storia.
Per legge, i caccia intercettori della Air Force avrebbero dovuto decollare alle 8.15. In questo caso i tre aerei dirottati si sarebbero potuti abbattere. Non credo che Ahmed possa essere giudicato ipercritico se si chiede per quale motivo l’Air Force, anziché seguire la normale procedura, abbia fatto decollare i caccia quando ormai il disastro era completo.
Evidentemente, qualcuno aveva dato l’ordine di non muoversi per intercettare un eventuale dirottamento, fino… a che cosa?
Nell’anno trascorso da quel martedì nero, il duo Cheney-Bush ha sostenuto che siamo in guerra contro il terrorismo, dovunque si manifesti sul globo terrestre. Un impegno ambizioso, considerando che il debito nazionale USA è il più alto del mondo, e che i nostri mercati finanziari hanno subito un tracollo, mentre la disoccupazione è in aumento. Ma poco importa. L’Eurasia è sempre lì ad attendere che l’America le porti la libertà, la democrazia e la contabilità in partita doppia. Nel frattempo, le nostre libertà civili sono state sospese, così come quelle di vari sfortunati visitatori approdati alle nostre sponde. E benché fin d’ora il 4% della nostra popolazione si rovi in carcere o in “regime correzionale”, il presidente non eletto chiede con insistenza più carceri e più esecuzioni. Siamo diventati uno scandalo agli occhi del mondo.

 

 

Ennio Polito, LIBERAZIONE
– 20/09/2002

 

E se fosse terrorismo di Stato?

 

Fin dal primo momento la versione dei fatti dell’11 settembre 2001 offerta da George W. Bush aveva mostrato falle vistose, che facevano pensare a tutt’altra verità. Ora, a distanza di un anno, un libro-inchiesta sorretto da una documentazione imponente e da una combattiva coerenza verso i valori democratici ribalta il quadro, descrivendo un governo immerso fino al collo nel torbido mondo del terrorismo di Stato, strettamente legato sul terreno finanziario a Osama Bin Laden, e alla sua famiglia, coinvolto nella preparazione e nella copertura dell’attacco alle Torri gemelle, esposto ad accuse di “tradimento” e a un’ipotesi di impeachment. Fantapolitica? Sarebbe imprudente in un mondo già saturo di orrori su cui incombono una nuova guerra nel Golfo e l’incubo delle armi nucleari, scommettere sull’introvabile candore del presidente americano.
Lontano da ogni sensazionalismo è, d’altra parte, l’autore di questo libro, Nafeez Mosaddek Ahmed. Nato a Londra nel ’78 in una famiglia di immigrati del Bangladesh, cittadino britannico, dirige a Brighton l’Institute for Policy Research and Development, un ente di ricerca e intervento impegnato per i diritti umani, è studioso informato e attento dei paesi afro-asiatici e specialista dell’Afghanistan, sui cui problemi ha già dato opere utilizzate come testi di studio a Harvard e in altre università americane. Altrettanto sobrio è il genere di letteratura politica cui egli ha attinto, analizzando e organizzando contributi stimolati da preoccupazioni analoghe alle sue. E, se è vero che alcuni aspetti di questo autentico dramma americano e planetario appaiono romanzeschi, è vero anche che, a proposito dell’11 settembre, inteso come grimaldello per forzare il consenso a decisioni politiche e militari, Ahmed può citare precedenti significativi, quali l’affondamento del “Maine”, nel porto dell’Avana, presunta opera degli spagnoli e reale pretesto per l’intervento statunitense nella guerra per Cuba (1898), e l’attacco dell’aviazione giapponese su Pearl Harbour (1941), della cui imminenza, il presidente Roosvelt era stato informato ma che egli favorì per utilizzare contro l’isolazionismo la reazione emotiva degli americani.
Senza addentrarci nella discussione dettagliata di singoli aspetti del tema enunciato nel titolo, ricordiamo qui gli interrogativi di fondo che non trovavano risposte nella versione ufficiale e che si spiegano, al contrario, in modo del tutto logico nel contesto di una responsabilità dell’attuale presidente e del suo gruppo.
Emerge dalla documentazione che una guerra in Afghanistan era stata pianificata dagli Usa da almeno un anno, e in un senso più generale, da un decennio. Il fatto che proprio l’Afghanistan sia stato scelto immediatamente come bersaglio naturale della rappresaglia contraddice la pretesa che in quell’evento la parte degli Stati Uniti sia stata quella di una vittima ignara, colpita a tradimento. E’ provato, d’altra parte, che le forze armate e le agenzie dell’intelligence erano state preavvertite dell’attacco aereo dell’11 settembre, ma non avevano dato seguito alla messa in guardia. Di più quel giorno gli stessi normali sistemi per fronteggiare le emergenze non funzionarono: per incompetenza degli addetti, si disse dapprima; ora, la parola-chiave è “complicità”. Funzionari dei servizi segreti che avevano annunciato testimonianze importanti sono stati intimiditi e ridotti al silenzio, il capo dei servizi segreti militari pakistani, complici di primo piano della Cia nella vicenda, indotto con una consistente donazione a dimettersi.
Soltanto un’inchiesta ufficiale, investita di poteri che la mettano in grado di confrontarsi con tabù di ogni genere, potrebbe determinare la linea di demarcazione tra l’interesse personale e il presunto interesse nazionale come spinta propulsiva dell’illegalità. E’ fuor di dubbio che le radici dell’imbroglio affondino nello scontro strategico tra gli Stati Uniti e l’Urss in Afghanistan, delineatosi sul finire degli anni Settanta, e che la posta ora in gioco siano le immense risorse petrolifere del Caspio priorità, di fronte, per più di un presidente. Bush jr è un petroliere, come suo padre, sotto la cui presidenza gli Stati Uniti hanno intrecciato con i talebani quello che Ahmed descrive come un pericoloso “ballo col diavolo”, terreno di cultura di molti terrorismi. A corto di numeri elettorali, il suo bilancio in tema di relazioni internazionali desta scarsi entusiasmi. Senza peli sulla lingua, Ahmed lo accusa anche di trasformare gli Stati Uniti in un “nuovo Stato di polizia”.
Cresce, insomma, il numero di chi considererebbe salutare una sua uscita di scena. E commenta: «L’espansione senza precedenti, dell’impero erode sistematicamente proprio i valori che l’America afferma di difendere».

 

 

Pietro Meneghelli, SUPEREVA.IT
– 11/09/2002

 

11 settembre: un’inquietante indagine

 

 

È stata già ipotizzata, sulla stampa americana come su quella internazionale, l’esistenza di una diretta o indiretta responsabilità della CIA nella grande tragedia dell’11 settembre.
Nel libro Guerra alla libertà. Il ruolo dell’amministrazione Bush nell’attacco dell’11 settembre (Fazi editore) il giovane studioso inglese Nafeez M. Ahmed affronta il tema in modo approfondito affermando che esistono importanti prove secondo cui il governo USA ha istigato il terrorismo quale pretesto per giustificare una politica estera aggressiva. L’analisi riguarda in particolare gli sciagurati attacchi dell’11 settembre.
Sollecitando un’inchiesta ufficiale a tutto campo nella quale vengano esaminati gli elementi fin qui affiorati, Ahmed si sofferma sui collegamenti tra Bush, Cheney e le ricchezze petrolifere saudite e irachene, oltre che sulle intese antisovietiche condivise dalla CIA e dai mujaiddin islamici nell’Asia centrale.
All’inizio di settembre ci fu un crescendo di avvertimenti dei servizi d’intelligence di tutto il mondo; ma dai più alti livelli dell’amministrazione vennero impartite direttive che troncavano le indagini sui sospetti terroristi legati a Bin Laden: alcuni funzionari dell’FBI hanno testimoniato di aver conosciuto i nomi dei dirottatori e la data dell’attacco settimane prima che esso si verificasse, ma furono ridotti al silenzio dai superiori, con la minaccia di procedimenti a loro carico. Nelle alte sfere evidentemente non si immaginava che l’attentato avrebbe avuto una portata così spaventosa.
D’altra parte, molti membri di Al-Qaeda erano stati addestrati al terrorismo negli Stati Uniti, dalla CIA; gli stessi dirottatori erano stati formati dall’esercito americano. E gli elementi raccolti sull’attività di un ex sergente dell’esercito USA che ha preparato gli attivisti di Al-Qaeda, e partecipato agli attentati contro alcune ambasciate americane, suggeriscono come gli USA abbiano continuato a proteggere Bin Laden, in quanto “risorsa strategica”.
È stato grazie a un investimento della famiglia Bin Laden, fa presente l’autore, che George Bush Jr. ha avviato la sua attività; e a quanto pare la guerra in Afghanistan servirà a rendere più ricca la famiglia Bush; intanto, mentre Bin Laden è ancora in libertà e la guerra contro di lui rimane una campagna senza limiti predefiniti che giustifica qualsiasi decisione presidenziale (da un attacco all’Iraq a disinvolti interventi sulla previdenza sociale), le prove raccolte dall’intelligence indiana rivelano che a finanziare Mohammed Atta, presunto capo dei dirottatori dell’11 settembre, sono stati i servizi segreti pakistani (una specie di “succursale” asiatica della CIA).
Il libro di Ahmed, chiaramente “schierato”, ma lucido e cospicuo, riporta le opinioni di vari esperti, i quali trovano risibile l’idea che Bin Laden possa aver portato a termine attacchi così sofisticati e precisi senza l’appoggio di un’organizzazione gestita a livello statale. Una delle cose che più stupiscono è come le procedure operative standard, che prevedono che i caccia dell’Air Force intercettino immediatamente gli aerei che vengono dirottati, l’11 settembre non siano scattate; questo blocco delle procedure standard è durato fino a che tutto non è finito, un’ora e mezzo dopo che era stato colpito il World Trade Center. A questo proposito un esperto militare americano, dopo aver riassunto la sequenza degli eventi, conclude: «La versione che ci hanno dato di quel che è successo è stata costruita a bella posta». È poi davvero sconvolgente la sezione dedicata all’analisi delle transazioni avvenute alla borsa di New York nella settimana precedente l’11 settembre: quanti disponevano di informazioni su quanto stava per succedere sono stati capaci di speculare sulle azioni delle due compagnie aeree coinvolte nei dirottamenti e delle società che avevano sede al WTC.
Ma come, e perché, potrebbe mai una presidenza americana – ma a questo punto sarebbe più giusto parlare di un “governo” costituito dalle lobby del petrolio e della guerra all’interno del governo americano – consentire, con la propria colpevole inazione, il diffondersi del terrore tra i cittadini?
Sulla base della documentazione raccolta, l’autore rileva come dietro alla guerra contro l’Afghanistan, pianificata molto tempo prima dell’11 settembre, ci fossero interessi assai vasti. I piani militari di vecchia data per invadere l’Afghanistan affondavano le loro radici in strategie e interessi economici relativi al rafforzamento dell’egemonia globale USA tramite il controllo dell’Asia centrale. Come è noto quella del Mar Caspio, con le sue enormi ricchezze petrolifere e di gas naturali, è oggi la più importante area di contesa diretta tra l’Occidente e la Russia. Però la Russia non è il solo rivale degli interessi USA nell’area del Mar Caspio: la politica statunitense, con l’appoggio britannico, sembra concepita anche per allontanare i paesi dei Balcani e dell’Asia centrale dall’influenza della Germania, oltre che a indebolire gli interessi di Francia-Belgio-Italia. A questo proposito Ahmed riporta ampi stralci dalla minuta di un documento di 46 pagine, sfuggita al controllo dei funzionari del Pentagono nel marzo del 1992, che illustra le pianificazioni interne e le strategie elaborate dall’esercito americano nell’epoca successiva alla Guerra Fredda. Il documento afferma tra l’altro che «il primo obbiettivo degli Stati Uniti è quello di impedire che si affacci sulla scena un nuovo rivale» che possa minacciare il dominio USA sulle risorse globali nell’epoca successiva alla Guerra Fredda. Gli americani devono quindi «cercare di prevenire la comparsa di soluzioni di sicurezza esclusivamente europee, che minerebbero la NATO» e dunque l’egemonia USA sull’Europa.
In poche parole, il “grande gioco” del diciannovesimo secolo, e cioè la gara tra le potenze per il controllo dell’Asia centrale, sarebbe continuato nel ventunesimo secolo con gli Stati Uniti in testa; e l’Afghanistan, principale punto d’accesso per il controllo dell’Asia centrale, sarebbe divenuto lo strumento essenziale per il dominio globale.
Tra le varie fonti citate da Ahmed, uno studio del 1997 del Council on Foreign Relations statunitense, redatto da un consulente strategico USA di vecchia data, Zbigniew Brzezinski. Questo studio entra nei minimi dettagli quanto agli interessi americani e alla necessità di un coinvolgimento «prolungato e diretto» degli USA nell’Asia centrale per tutelare il proprio tornaconto – e realizzare l’oleodotto, messo in cantiere fin dal 1995, dall’area del Caspio verso l’Oceano Indiano attraverso Afghanistan e Pakistan. Nel ’97 Brzezinski giungeva alla conclusione che «se non c’è un coinvolgimento americano diretto e prolungato, prima che passi molto tempo le forze del disordine globale potrebbero giungere a dominare la scena del mondo… Per metterla in una terminologia che ricorda la durezza della più brutale epoca degli antichi imperi, i tre grandi imperativi della geo-strategia imperiale sono quelli di prevenire la collusione e perpetuare tra i vassalli la dipendenza finalizzata alla sicurezza, mantenere i tributari docili e protetti e impedire ai barbari di mettersi insieme…».
Quanto Brzezinski scriveva allora è, per Ahmed, cruciale a intendere gli attuali sviluppi. «Dato che l’America sta diventando una società sempre più multiculturale», affermava il consulente strategico USA, «può trovare difficile suscitare consenso sulle questioni di politica estera, eccetto che nel caso di una minaccia esterna diretta, veramente grande e percepita in modo generalizzato». Ciò, secondo Ahmed, andrebbe collegato con un altro punto sollevato da Brzezinski, secondo cui «L’atteggiamento del pubblico americano verso la proiezione esterna del potere americano è stata… ambivalente. Il pubblico ha appoggiato l’impegno americano nella Seconda Guerra Mondiale in gran parte per via dell’effetto scioccante dell’attacco giapponese a Pearl Harbor».
Secondo il giovane studioso inglese, Brzezinski intuiva chiaramente che la creazione, il rafforzamento e l’espansione dell’egemonia militare USA sul continente eurasiatico attraverso l’Asia centrale avrebbe richiesto una militarizzazione senza precedenti, e dagli esiti tutt’altro che scontati, della politica estera americana; unita alla costruzione, anch’essa senza precedenti, di un supporto interno e di un consenso a questa campagna di militarizzazione. E soprattutto, avrebbe richiesto la percezione di una minaccia esterna di dimensioni fino a qui senza precedenti.
Guerra alla libertà si chiude con alcune appendici, una delle quali riporta dei documenti, risalenti ai tempi della Guerra Fredda, che riguardano dei piani militari dell’esercito americano per simulare attacchi terroristici contro gli Stati Uniti, così da giustificare un’azione bellica contro Cuba. Quel piano fu poi bocciato da Kennedy.

 

G.M., UNIONE SARDA
– 10/09/2002

 

Attacco all’America: arriva in Italia un libro che negli Usa fa discutere

 

Attacco all’America: arriva in Italia un libro che negli Usa fa discutere
Perché? Inquietanti domande di un politologo

Dopo aver circolato per canali alternativi nel mondo letterario e accademico americano ed europeo, esce in Italia in anteprima europea il libro dello studioso inglese Nafeez Mossadeq Ahmed Guerra alla libertà, il ruolo dell’amministrazione Bush nell’attacco dell’11 settembre, che analizza gli avvenimenti dell’11 settembre in relazione alle reazioni del governo degli Stati Uniti, delle forze armate, delle agenzie d’intelligence e più in generale del contesto storico, economico e strategico dell’attuale politica americana.
Esaltato da Gore Vidal, che ha scoperto il testo e lo ha segnalato alla Fazi editore, e commentato da politologi di fama internazionale, il libro non intende proporre verità definitive o facili scandalismi da “teoria del complotto”: l’autore (giovanissimo astro nascente nel campo degli studi di politica internazionale) fornisce invece un’incredibile mole di materiale basato su fonti meticolosamente dettagliate e assolutamente attendibili, che conducono alla ricerca di risposte ad alcune inquietanti domande: come è stato possibile che i servizi segreti statunitensi non siano riusciti a contrastare l’attacco dell’11 settembre? Come mai, nonostante le numerose segnalazioni che avevano previsto la data dell’attacco, tutte le informazioni sono passate completamente inosservate? Potevano Bin Laden e la sua organizzazione portare a termine un attacco così complesso senza un’organizzazione d’intelligence gestita a livello di Stato? L’invasione dell’Afghanistan è il risultato degli attentati dell’11 settembre o era stata pianificata in precedenza, in virtù della scarsa attenzione del regime talibano verso gli interessi economici americani? I rapporti economici preesistenti tra Bush e la famiglia Bin Laden sono continuati anche dopo l’11 settembre? E in che misura? Gli attacchi dell’11 settembre hanno fornito all’Amministrazione Bush il pretesto per consolidare il proprio potere, perseguendo una politica estera aggressiva e illimitata e reprimendo ogni tentativo di dissenso interno?
Nafeez Mossadeq Ahmed ha 23 anni ed è direttore esecutivo del Policy Research & Development Institute di Brighton (http://www.globalresearch.org/). Molti dei suoi lavori sulla storia e lo sviluppo del conflitto in Afghanistan sono stati adottati dall’Università di Harvard e dalla California State University. È stato recentemente nominato “Global Expert on War, Peace and International Affairs” dalla fondazione Henry Hazlitt di Chicago. I suoi articoli di politica internazionale vengono pubblicati sul sito Media Monitors network (http://www.mediamonitors.net/) a Los Angeles e dal magazine Q News a Londra.
Ecco alcuni giudizi espressi al libro Guerra alla libertà. Gore Vidal: «La più approfondita e inquietante analisi che abbia letto finora sull’11 settembre». Peter Dale Scott, University of California, Berkeley: «Il materiale a disposizione è incredibilmente utile e importante. L’autore va dritto al problema, offrendo una enorme quantità di fatti che avevo completamente sottovalutato». Peter G. Spengler, Contemporary Studies, Germania: «L’eccellente testo di Ahmed analizza in profondità quello che è realmente accaduto». John McMurtry, Royal Society of Canada: «La fonte imprescindibile per chiunque voglia comprendere gli avvenimenti sull’11 settembre».
G. M.

 

Giuliano Malatesta, TIME OUT
– 07/09/2002

 

Una guerra sulla carta

 

“Esistono prove convincenti secondo le quali il governo degli Stati Uniti fomenta il terrorismo, utilizzandolo come pretesto ideale per giustificare una politica estera aggressiva”.
E’ questa la tesi centrale del libro di Nafeez Mossadeq Ahmed, studioso inglese ed esperto di politica internazionale, che, dopo aver circolato negli ambienti letterari e accademici americani, arriva anche in Italia pubblicato dalla fazi Editore (Guerra alla libertà, il ruolo dell’amministrazione Bush nell’attacco dell’11 settembre, pag. 450, Euro 16.50).
Un’analisi dettagliata sugli avvenimenti dell’11 settembre e le reazioni del governo degli Stati uniti, delle forze armate, delle agenzie d’intelligence e più in generale del contesto storico, economico e strategico dell’attuale politica americana.

 

Riccardo Orizio, IL VENERDI DI REPUBBLICA
– 07/09/2002

 

Il ragazzo che dà lezione agli scienziati della politica

 


Londra. Si chiama Nafeez Mossadeq Ahmed e dicono che sia la nuova stella dell’analisi politica internazionale. L’anziano, e sempre più anti-americano Gore Vidal, dice che il suo testo, intitolato Guerra alla libertà, “è la più approfondita analisi che abbia letto finora sull’11 settembre”. Un accademico come John Murphy , Royal Society of Canada, lo definisce “la fonte imprescindibile per chiunque voglia comprendere gli avvenimenti sull’11 settembre”. Il centro di cui Nafeez Mossadeq Ahmed è direttore, l’Institute for Policy Research and Development, è sempre più citato da chi analizza i grandi interrogativi diplomatici di oggi: come sono stati progettati gli attentati dell’11 settembre? Perché non sono stati prevenuti? Perché Osama bin Laden non è stato catturato?
Domande non esattamente da ragazzini. Eppure l’uomo che sta trovando le risposte è proprio – quasi – un ragazzino, magro e con i capelli arruffati. E per di più con un curriculum poco ortodosso.
Nafeez Mossadeq Ahmed infatti, ha 23 anni. Non vive a Oxford o a Cambridge, ma a Brighton, in Inghilterra. Non ha una cattedra universitaria: gestisce un albergo comunale per senzatetto. Quanto all’ ’Institute for Policy Research and Development è un Think Tank virtuale – come la definisce lui – senza ufficio, sede, fondi. In pratica, un sito web. Quanto al curriculum, Nafeez Mossadeq Ahmed, genitori bengalesi e passaporto britannico lo descrive così: “mi sono iscritto a sociologia, ho mollato dopo due mesi: mi annoiavo. Ho fatto lavori in giro, bar ristoranti. Poi ho preso una laurea americana”. Dove? “Non ricordo. Un corso per corrispondenza”.
Chi fosse tentato di voltar pagina, però, farebbe un errore. Mister Ahmed è un serio studioso. Solo che è di nuova generazione. Virtuale anche lui, ma non meno autorevole. Lo straordinario lavoro compiuto nel suo libro è di aver trovato, selezionato e messo insieme l’immensa quantità di notizie che sono uscite dopo gli attentati delle torri gemelle, dando trama e struttura ragionata a migliaia di interviste, dichiarazioni, analisi e reportage che sarebbero rimasti slegati. Il risultato, Guerra alla libertà, è una visione non neutrale, ma molto informata di ciò che è successo. “Premetto che sono musulmano, ma non praticante. Che non lavoro per i servizi segreti. Prometto anche che io non arrivo ad alcuna conclusione. Io faccio parlare le fonti. Metto insieme 2 più 2. Nulla di mio”.
Fatte le premesse, il ragazzo è in grado di dimostrare alcune cose interessanti. La prima è che il governo americano sapeva che Osama bin Laden stava organizzando un grande attentato e aveva messo le torri gemelle nel piccolo elenco di possibili bersagli. Perché non vennero prevenuti? “perché la minaccia islamica, lo spauracchio di Bin Laden; il pericolo del fondamentalismo sono state delle scuse perfette per l’amministrazione Bush per riprendere in mano una situazione che, a causa di una concomitanza di fattori (dalla crisi di delegittimazione seguita alle elezioni in Florida fino all’isolamento diplomatico internazionale post-Kyoto, passando per la crisi economica) stava scappando di mano. In pratica, è la nuova guerra fredda contro l’Est, rivisitata. Ci sono fior di documenti che dimostrano che i servizi segreti americani avvertirono più volte la Casa Bianca. Che decise di non agire. Ovviamente Bush non si aspettava un attentato così. E’ questo il motivo per cui, contrariamente a Pearl Harbor, 50 anni fa, dopo l’11 settembre non sono saltate teste”.
E Osama bin Laden? Gli americani hanno avuto diverse possibilità di catturarlo, ma hanno sempre deciso di no: un Osama vivo è più utile di un Osama morto. Infine la famiglia Bush. “il loro arricchimento attraverso il Carlye Gorup, di cui sono azionisti, in seguito alla guerra non è da sottovalutare. Per non parlare del fatto che, per molte fonti, il gruppo Caryle ha continuato a fare affari con i Bin Laden, suoi ex grandi azionisti, dopo l’11 settembre”.
Come finirà? Ahmed non si sbilancia: “personalmente ho molti timori”, dice il giovane analista: “ma professionalmente non posso ancora dire. Il mio lavoro inizierà a guerra finita. Per mettere insieme i mille frammenti di una trama che ci verrà offerta in modo poco comprensibile”.

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Traduzione di Nazzareno Mataldi, Pietro Meneghelli, Matteo Sammartino, Francesca Valente e Piero Vereni Uscito nel settembre 2002, Guerra alla libertà è stato in Italia un vero caso editoriale, per la ricchezza e il rigore della documentazione, che gli hanno valso il prestigioso Premio Napoli....
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