Tim Winton

I cavalieri

COD: f899139df5e1 Categoria: Tag:

Collana:
Numero collana:
36
Pagine:
352
Codice ISBN:
9788881121441
Prezzo cartaceo:
€ 14,00
Data pubblicazione:
14-12-2000

Traduzione di Isabella Ciapetti

In un aeroporto irlandese Fred Scully aspetta con ansia l’arrivo dall’Australia della moglie e della figlia di sette anni. Dopo un lungo vagabondaggio attraverso l’Europa, immagina adesso una nuova vita, la possibilità di ricominciare tutto daccapo con la sua famiglia in un vecchio cottage ristrutturato durante le settimane trascorse da solo in Irlanda. Ma qualcosa d’imprevisto accade: sua figlia esce inspiegabilmente sola dalle porte a vetri del terminal e la vita di Scully scivola lentamente in un incubo.
I cavalieri è la storia di un avventuroso viaggio attraverso il continente europeo, ma soprattutto nell’ossessiva psiche di un uomo alla ricerca di una donna scomparsa nel nulla e di un passato che non potrà più tornare. È una vicenda di fantasmi che vengono a tormentare i ricordi e i rapporti; di una rivelazione cercata in luoghi e tra persone al tempo stesso straniere e familiari; di una redenzione trovata in una volontà determinata ad andare avanti.

«Un romanzo molto ben scritto, forte, diverso».
Susanna Nirenstein, «la Repubblica»

«Un’assoluta maestria, sostenuta da una lingua asciutta ed essenziale […] una scrittura diretta, chiara, immediata».
Maurizio Bartocci, «il manifesto»

I CAVALIERI – RECENSIONI

 

Paola Chiapparini, LOMBARDIA OGGI – SUPPL. PREALPINA
– 12/10/2000

Fazi pubblica il bel romanzo del giovane australiano Tim Winton

Cavalieri senza madre

Scully attende che la moglie e la figlia lo raggiungano in Irlanda, ma dall’aereo scende solo la piccola Billie. Di Jennifer non c’è nessuna traccia. E questa misteriosa scomparsa diventa causa di una ricerca molto particolare

Si è in costante attesa durante la lettura de “I cavalieri”, pubblicato in Italia da Fazi (pagg. 343, 28mila lire) che ha saputo apprezzare le qualità narraticve del giovane autore australiano Tim Winton. L’attesa comincia fin dalle prime pagine, ma dall’inizio è accompagnata solo da gioia e trepidazione perché Scully, il protagonista, sta aspettando che la moglie Jennifer e la loro figlia Billie lo raggiungano in Irlanda. E lì, molto fuori dal mondo, che Scully, con l’aiuto di Peter, il postino, ha ristrutturato quella che sarà la loro futura casa, dando come sempre entusiasticamente il meglio di sé. Non andrà così: dall’aereo, quel giorno tanto atteso, scenderà muta e sconvolta solo la piccola Billie. Della madre nessuna traccia e Billie non vorrà dire nulla dell’accaduto. Ha inizio l’incubo in cui Scully, con la piccola Billie, si muoverà senza appigli in preda ai sentimenti più disparati. Cosa può essere capitato a Jennifer? Sta male, ha avuto qualche grave contrattempo che non è riuscita a comunicare, ha cambiato idea, se ne è andata? Inizia così il peregrinare di Scully e Billie attraverso i luoghi che insieme a Jennifer hanno conosciuto e dove sono stati più o meno felici. Ma la Grecia, parigi e poi l’Italia e l’Olanda non saranno che mete di un calvario lungo il quale vedremo progressivamente esasperarsi la disperazione di Scully di fronte a un’impresa superiore alle sue forze. Billie, che silenziosa e rassegnata accompagna il padre, ne sarà alla fine quasi responsabile e lo salverà dal baratro in cui avrebbe altrimenti rischiato di cadere. Piccolo Caronte di sette anni, traghetta Scully da una riva all’altra della sua vita. A che punto può arrivare un uomo che ama, ci dice Winton, fino a che punto può soffocare senza rammarico il suo orgoglio e umiliare consapevolemente se stesso. Prostrato nel fisico e nell’anima Scully non viene meno a un sentimento troppo forte per essere rinnegato senza prima averne un valido motivo. Vero eroe romantico, titanico nella forza anche fisica che dimostra nel perseguire il suo obiettivo, sarà salvato da un altro tipo di amore, quello che nutre per lui la piccola Billie. La bimba accompagna il papà dalla prima all’ultima pagina del libro senza altro conforto che i libri che lui le ha regalato e che la piccola continua a rileggere. Billie ha per Scully un amore fiducioso, capisce che suo padre dovrà prima come morire per poi, solo grazie a lei, poter cominciare una nuova vita. Di questi due amori, estremi e totali, Winton analizza la drammaticità. E un episodio ci dà la chiave per capire:davanti ad un castello ormai in rovina nei pressi della casa di Scully compaiono misteriosi, onirici cavalieri stanchi di lunghi combattimenti, che fiere e ignari di ciò che li circonda aspettano qualcosa. Scully e Billie, anch’essi cavalieri di una battaglia altrettanto cruenta, sanno invece che non staranno sempre lì ad aspettare.Per loro l’attesa è finita.

 

IL GIORNALE DEL MEDICO

 

Liberarsi da cavalieri fantasma

 

Con “I cavalieri”, Tim Winton, quarantenne australiano di Perth, già autore di numerosi racconti per bambini, prova a fare un salto in avanti rivolgendosi stavolta agli adulti. Il passaggio però non è definitivo, perché anche questo romanzo continua a essere inzuppato di elementi favolistici e, per molti versi, ancora infantili. É una storia misteriosa di sparizioni, sogni, fantasie, incubi e suggestioni. Il protagonista Fred Scully, un agricoltore soddisfatto per essere riuscito a sistemare come si deve la sua casetta dopo anni di vita randagia, si reca all’aeroporto ad aspettare la moglie e la figlia in arrivo dall’Australia. L’aereo atterra, si aprono i portelli, ecco la figlia e dietro di lei… dietro di lei nessuno. La moglie è sparita. Fred è sbalordito, preoccupato, interroga la figlia, parla con le hostess, cerca di capire che cosa sia successo ma non c’è niente da fare. La moglie, che pure si trovava sull’aereo, sembra svanita nel nulla. Di qui parte una ricerca, che negli intenti dello scrittore Tim Winton non dovrebbe essere soltanto fisica, ma anche psicologica e interiore. In un percorso che lo porta dalla Grecia alla Francia passando per l’Italia, Fred Scully cerca la moglie ma, soprattutto, se stesso, la sua serenità e il significato della propria esistenza. Ci riuscirà, oppure dovrà soggiacere alla forza dei “cavalieri”, i fantasmi che sembrano, da sempre, governare la sua vita?

 

Marilia Piccone, BELLA

 

I cavalieri

 

Scully ha lavorato duro per rendere abitabile la casa di cui sua moglie Jennifer si è innamorata, in Irlanda. Un telegramma ha confermato l’arrivo della moglie e della figlia di ritorno dall’Australia dove è stata venduta la casa in cui abitavano finora. Ma solo Billie, 7 anni, arriva all’aeroporto di Shannon. Il primo pensiero è che ci sia stato un disguido. O forse un incidente. Ma le tracce di Jennifer si fermano a Londra. Billie è chiusa in un mutismo disperato. Jennifer era incinta, erano innamorati. Dov’è adesso? Perché? Sono le due domande che spingono Scully nella sua ricerca: Grecia, Italia, Francia, perché lei, in un telegramma, gli dà appuntamento a Parigi, ma poi appare per fuggire subito sventagliando i capelli neri. E’ sfuggente, Jennifer: sappiamo che è bella, che ha sposato Scully per ribellarsi al suo ambiente borghese. Perché Scully è un uomo dai mille lavori, con una cicatrice sul naso e un occhio storto, ma è buono, adora la moglie e la figlia. E questa è una storia d’amore e una storia sull’amore: che cosa sappiamo veramente l’uno dell’altro e come si possono vivere diversamente le stesse esperienze? E poi c’è l’amore tenerissimo di Scully per Billie e quello altrettanto tenero e protettivo di Billie per suo padre, al punto che Billie è contenta di non essere bella come la mamma. La ricerca termina senza esito ad Amsterdam, dopo aver sperimentato tutti i gradi di infelicità, sofferenza fisica e disperazione. Padre e figlia ritornano in Irlanda: lui non farà come i mitici cavalieri sconfitti che aspettano eternamente il loro capo. Lui riprenderà a vivere. 3 stelle

 

Alberto Bevilacqua, GRAZIA

 

Un uomo, una donna

 

Quarto titolo di Tim Winton (Perth 1960) tradotto in Italia, “I cavalieri” finalmente riesce a emanciparsi dall’etichetta del “libro australiano” per approdare alla categoria dei “capolavori dei nostri giorni”. Perché lo spunto di un uomo alla ricerca della moglie perduta viene sviluppato in uno struggente thriller dell’anima. Per di più con interessanti risvolti psicologici.

 

TV RADIOCORRIERE

 

I più consigliati

 

Un uomo ha trascorso più di sette anni viaggiando attraverso l’Europa e finalmente, arrivato in Irlanda, cerca di ricominciare una nuova vita. Acquista un cottage immerso nel verde e poi invita la sua famiglia a raggiungerlo: ma al momento dell’arrivo all’aeroporto di Dublino sua moglie scompare nel nulla. Comincia così il viaggio alla ricerca della donna; un cammino per tornare indietro nel tempo, in un passato dimenticato a fatica che riemergerà devastante.

 

Monica Capuani, D – LA REPUBBLICA
– 11/07/2000

 

La moglie smarrita

 

Tim Winton vive sulla spiaggia di Freemantle, vicino a Perth. La sua giornata scorre tra la tavola da surf e computer, ma i suoi romanzi non somigliano a “Un mercoledì da leoni”. Winton, che ha 40 anni, divide le sue energie tra letteratura per l’infanzia e romanzi che, in un inglese insolitamente sontuoso, mettono in scena ciò che Freud definiva il “perturbante”. Come “I cavalieri” (Fazi, lire 28 mila), storia di Scully, un ragazzone australiano che compra casa in Irlanda per stabilirvisi con la moglie Jennifer e la figlia di sette anni, Billie. Ma quando Scully va all’aeroporto a prendere la famigliola, solo Billie scende dalla scaletta, afasica e visibilmente traumatizzata. Inizia così una ricerca affannosa e allucinante tra Londra, la Grecia, l’Italia, Parigi e Amsterdam, sulle tracce sempre più intricate di Jennifer, un viaggio nelle tenebre in cui Scully si perde e la piccola Billie diventa la sua ancora di salvezza.

 

Franca Cavagnoli, IL DIARIO DELLA SETTIMANA

Viaggio amaro

Il mondo salvato da una ragazzina

 

Sin dalle prime pagine c’è un che di sgradevole, di irritante, nell’ultimo romanzo scritto dall’australiano Tim Winton, I cavalieri, e allo stesso tempo qualcosa di necessario, un’urgenza che spinge però a proseguire la lettura. Dalle atmosfere brumose dell’Irlanda, graffiate dalla voce di Van Morrison o punteggiate dalle note melanconiche delle ballate dedicate ai tanti forzati che da qui furono deportati in Australia, si leva «un tanfo maleodorante di muffa, torba, fuliggine», un «odore stantio di cose morte e dimenticate». Ma anche quando lo scenario cambia, e Scully, il protagonista della vicenda, in compagnia della figlioletta Billie si sposta verso sud, restando sempre in Europa, in Grecia e in Italia, spinto in brutte avventure, suo malgrado, nella frenetica ricerca di Jennifer, la moglie che è scomparsa inspiegabilmente facendogli però arrivare la bambina. Sulle tracce della donna che Scully cerca affannosamente, questa sensazione di corrotto, di putrido, non diminuisce, anzi. E ben presto si avverte che cosa la suscita: è l’immagine di un’Europa demistificata, che per il protagonista downunder del romanzo di Tim Winton diventa il cupo scenario di un incubo vissuto a occhi aperti, o forse, detta in maniera più semplice ma al tempo stesso più efficace, di un’ossessione. Scully, «irlandese del deserto» che dall’Australia ha accettato di trasferirsi in Europa soltanto per compiacere la moglie, è un «uomo stregato dall’amore, intrappolato da una donna», una bella ragazza affascinata e irretita dal mondo bohemien degli espatriati, con ambizioni creative ma, ahimé per lei, senza alcun talento per l’arte perché il talento «non è qualcosa che si vuole, è qualcosa che si ha, una maledizione che lei non possiede». Jennifer invece ha altre cose che, a differenza di tutti quelli che la conoscono, Scully non riesce proprio a vedere: è una snob, una dilettante che soprattutto «vuole solo mettersi in mostra», in cerca di riconoscimenti per «essere più interessante». Al termine della sua odissea, che dal sud del Vecchio continente lo porterà prima a Parigi e poi ad Amsterdam, Scully riesce ad approdare, finalmente è proprio il caso di dirlo, di nuovo in Irlanda. Perché per questo innocente all’estero, per questo australiano sentimentale come lo sono tutti gli australiani quando parlano dell’Irlanda e della propria casa, la casa forse può essere soltanto lì, tra le brume E ci approda con la piccola Billie, per sua fortuna, che al padre e men che meno alla madre somiglia pochissimo, perché lei «è tutta se stessa». E a quel genitore irresponsabile che se la trascina dietro per l’europa ferita, febbricitante, chiusa in un mutismo dolente, riesce a regalare pillole di commovente saggezza, come quando osserva che la gente di amsterdam le piace «perché non ha paura dei bambini come a Parigi o a Londra». O come quando si tiene per sé, da piccola adulta giudiziosa, il suo desiderio più grande: ovvero essere a scuola come capita agli altri bambini, a imparare semplicemente a leggere e a scrivere, in «un luogo dove non le toccasse salvare nessuno». Una volta di più, in questo romanzo, il mondo è salvato dai ragazzini, dunque, dal loro sguardo lucido, anche nella visionarietà. E infatti davanti ai misteriosi cavalieri ai quali si allude nel titolo, Billie riesce a vedere il padre non certo per quell’uomo «leale e indistruttibile nel suo ottimismo, nella sua determinazione antipodea a vedere sempre il meglio delle cose» che lui è, in maniera un po’ semplice, convinto di essere, ma per quello che realmente è: ovvero un uomo «in attesa, battuto, deluso». E la forza di quello sguardo consapevole sembra infine che possa essere trasmessa a proprio a Scully, che davanti ai cavalieri «pazienti, testardamente fedeli, in attesa di qualcosa che era stato loro promesso, qualcosa che gli era evidentemente dovuto», si rende conto finalmente «che non sarebbe stato uno di loro».

 

Mariagrazia Villa, GAZZETTA DI PARMA

Cosa ne pensa Tim Winton, uno dei più importanti scrittori di quel lontano e misterioso Paese

Un mondo in mezzo al mare

Australia, la cultura di un’isola dalle mille anime

“Se tutti vanno in una determinata direzione, tu vai dall’altra parte. Anche se non sai dove andare!”. Il piccolo sovversivo testardo, già spiccatamente simile alla sua terra, cui mamma avrebbe volentieri tirato le orecchie, è oggi uno splendido quarantenne: quasi due metri di robusta corporatura, lunghi capelli grigio biondo e malandrino, raccolti in una coda, un viso quasi irlandese, con lentiggini come uvetta, e due occhi generosi, che moltiplicano all’infinito la cedevolezza del sorriso. Si chiama Tim Winton ed è uno dei più importanti scrittori australiani contemporanei, già noto in Italia per tre romanzi editi da Fazi: “Quell’occhio, il cielo” (‘97), e “Nel buio dell’inverno” e “Blueback” (‘99). Al suo insolito talento, che parla a tutti, ma nel modo più personale possibile, si deve l’ultimo e notevole “I Cavalieri”, sempre per lo stesso editore (pagg. 344, 28mila lire). “É la storia di un’ossessione – racconta l’autore – e di come i bambini possano fare da genitori ai genitori. Narra di un australiano che, insieme alla figlia di sette anni, ripercorre le tappe di un lungo vagabondaggio europeo, dall’Irlanda alla Grecia, dalla Francia all’Olanda, alla ricerca tenera e disperata della moglie, inspiegabilmente scomparsa”. Benché quest’avventura da incubo, in cui qualcuno cerca un fantasma già appassito e, nel contempo gli indizi per sopravvivere, tra città e persone ora familiari ora estranee, sia ambientata in Europa, e lo stesso Tim abbia vissuto in prima persona nei vari paesi descritti, si ha come l’impressione di non essere mai usciti dall’Australia. Cos’ha d’inestirpabile e riconoscibile, l’anima australe? “Anzitutto, ce ne sono due. Quella originaria, tradizionale, degli aborigeni, e quella dei colonizzatori bianchi. Ciò che le accomuna è che si sono sviluppate in una condizione d’isolamento. Poiché viviamo su un’isola, dobbiamo un po’ inventarci strada facendo e, nel contempo, ci interessiamo a quanto accade all’esterno. Il risultato è che sappiamo molte più cose degli altri, di quante gli altri ne sappiano di noi”. Sappiamo, però, che si è compiuta una bella tragedia: dietro la patina dorata della nazione libera, ricca e felice, ci sono cumuli di cadaveri. “Purtroppo, da 200 anni la nuova Australia vive sulle spalle della vecchia: la posizione tenuta nei confronti degli aborigeni ha portato ad una povertà sia morale che cultuale. Soffro per gli aborigeni e per l’ingiustizia che hanno subito: hanno perso la loro identità profonda e continuano ad essere strappati alle loro radici”. Intanto, in questa nuova mania del perdono che lava più bianco, il governo australiano ha chiesto ufficialmente scusa, come Clinton ai Nativi… “Negli ultimi anni ci sono stati molti cambiamenti politici, filosofici e culturali. Ma la vera sfida è che chi detiene il potere sappia rinunciare a parte di questo potere, per impegnarsi concretamente a favore degli aborigeni. Ad esempio, la questione delle terre: per i bianchi sono proprietà immobiliare, per le tribù sono luoghi ancestrali, connessioni con il divino… La nuova Australia deve iniziare a rispettare la vecchia”. E senza scambiarla con una massa di “buoni selvaggi” alla Rousseau. “Il rischio è di strumentalizzare la saggezza degli aborigeni, riducendola ad oggetto di consumo new-age. Come chi va a vivere da loro per qualche mese e poi pensa di aver capito tutto – in realtà, gli stessi aborigeni non gli hanno fatto capire niente, per proteggersi. Tant’è che molti scrittori, soprattutto inglesi ed americani, riportano un sacco di sciocchezze. occorre essere molto umili nei confronti di una civiltà così antica: ci sono antropologi che, dopo una vita trascorsa con gli aborigeni, dicono di non conoscere ancora nulla…”. Anche Winton ha gusti aborigeni: ha vissuto per tanto tempo in un microbico villaggio di pescatori, a Freemantle, tra il deserto e l’oceano, “uno spazio aperto con due tonalità, l’azzurro e il bianco”, e ancora adesso, appena possibile, ci scheggia con gioia. Adesso che vive in città, a Perth, “perché i miei tre figli devono andare a scuola”, e si sente “come in esilio”. Ma il bisogno di una full-immersion nella faccia ispida ed immutata della natura, calura marosi arenaria foreste, non è tutto. Anche il suo modo di intendere e praticare la scrittura è un patrimonio da aborigeno. “Scrivo da oltre vent’anni e mi sembra quasi una brutta abitudine ormai! credo che raccontare ed ascoltare una storia sia un istinto di base per l’uomo come il sesso, il fuoco e il cibo. Non penso che la letteratura, così come qualsiasi altra forma d’arte, sia un lusso, ma una necessità fondamentale. Scrivo ancora con carta e penna, perché mi piace l’idea dell’artefatto, del lavoro fisico e non sono intellettuale. Non uso nemmeno la biro, ma la stilografica! E non so cosa sia un PC”. Proprio un primitivo… “Mi dia tempo altri vent’anni e vedrà: scriverò col sangue e gli escrementi sul muro! non dubito che il peggio debba ancora venire”. É autoironico, Tim, e sa prenderti in mezzo con simpatia. Perché riesce a dilatare l’intervallo tra la realtà e la sua rivelazione, come un australiano dalla pelle scura. E proprio questo carattere antipodeo, il coprire perpetuamente una distanza, confrontandosi con le prove della vita, sia nel mondo che nei rapporti interpersonali, non assomiglia solo alla sua fama di nuotatore al rovescio, che è cresciuto senza perdere il vizio, ma anche all’enigmatico genoma delle specie australiane, sia koori che europee.

 

Saverio Testone, GAZZETTA DEL SUD
– 10/11/2000

L’avventuroso viaggio descritto da Winton nel nuovo romanzo “I cavalieri”

Infernale odissea di un eroe australiano

 

Il romanzo che ha seguito l’acclamato Cloudstreet dell’australiano Winton è quanto di più lontano possiate immaginare dall’essere un invito a trascorrere una vacanza in Europa occidentale. L’infernale odissea intrapresa dall’eroe australiano semplice e ingenuo di Winton, Scully, e della sua bambina di sette anni Billie rivela un continente depravato, lurido, abbandonato al suo destino”. Così il Sunday Telegraph ha parlato del nuovo romanzo di Tim Winton, I cavalieri, che adesso Fazi Editore pubblica nella traduzione di Isabella Ciapetti. In un aeroporto irlandese Fred Scully aspetta con ansia l’arrivo della moglie e della figlia di sette anni. Dopo un lungo vagabondaggio attraverso l’Europa, immagina adesso una nuova vita, la possibilità di ricominciare tutto daccapo con la sua famiglia in un vecchio cottage ristrutturato durante le settimane trascorse da solo in Irlanda. Ma qualcosa di imprevisto accade: sua figlia esce inspiegabilmente sola dalle porte a vetri del terminal e la vita di Scully scivola lentamente in un incubo. “I cavalieri” è la storia di un avventuroso viaggio attraverso il continente europeo ma soprattutto nell’ossessiva psiche di una donna scomparsa nel nulla e di un passato che non potrà iù tornare. E’ una vicenda di fantasmi che vengono a tormentare i ricordi e i rapporti; di una rivelazione cercata in luoghi e tra persone al tempo stsso straniere e familiari; di una redenzione trovata in una volontà determinata ad andare avanti. Epico, ossessivo e violento al tempo stesso, I cavalieri – best seller internazionale, finalista al Booker Prize nel 1995 – è il racconto struggente e tenero di come un amore possa distruggere un uomo e di come solo un altro amore possa salvarlo. Tim Winton, tra i maggior narratori australiani contemporanei, è nato a Perth nel 1960. E’ un grande cantore e narratore del mondo australe e soprattutto della sua regione, l’Australia Occidentale, dove vive con la moglie e i tre figli. Ha all’attivo oltre a molti racconti per bambini , numerosi romanzi tra cui ricordiamo Cludstreets, In The Winter Dark, Shallows. I suoi romanzi sono stati adattati per il teatro e per lo schermo; i diritti cinematografici di The Riders sono stati acquistati da Jane Campion. Fazi Editore ha già pubblicato i romanzi Quell’occhio, il cielo, Nel buio dell’inverno e Blueback. Ha scritto di lui il Times: Winton non è un grande scrittore australiano; è un grande scrittore, punto”.

 

Mariarosa Mancuso, PANORAMA
– 10/12/2000

 

Senza lasciar traccia

 

Sparita senza lasciar traccia: proprio come quelli che con la scusa delle sigarette svoltano l’angolo e non si fanno vedere mai più. Jennifer era attesa a Dublino, ma dall’aereo scende solo la figlia di sette anni, ammutolita per lo shock, mentre il marito comincia a farsi domande terribili..; Lo spunto è più che promettente, soprattutto per uno scrittore australiano, cresciuto nel mito delle ragazzine mai tornate a casa dopo il picnic a Hangin Rock. Quarantenne di Perth, Winton trascina il lettore dalla campagna irlandese a Parigi, da Firenze ai sex shop di Amsterdam. Scrive benissimo, di fallimenti e illusioni perdute. Poco interessato alla trama, ha un debole per le immagini a effetto.

 

Claudio Gorlier, LA STAMPA
– 10/09/2000

 

Visioni d’Australia e risse olandesi

 

Fred Scully, australiano trasferitosi nella campagna irlandese dopo una serie di vagabondaggi per l’Europa, attende all’aeroporto di Dublino la moglie Jennifer e la figlia Billie, in arrivo dall’Australia dove la donna ha provveduto a vendere la casa per stabilirsi con lui ed attendere la nascita di un bimbo di cui è incinta. Ma soltanto Billie appare, smarrita e affidata a una hostess dalla madre all’arrivo a Londra. Questo l’inizio di I cavalieri del quarantenne scrittore australiano Tim Winton, giustamente affermato a livello mondiale e del quale lo stesso editore Fazi ha già pubblicato altri tre libri. Scully (il nome gioca sull’idea del remo e insieme ricorda quello di Scullin, primo ministro laborista in Australia negli Anni 30) sconvolto, accoglie Billie nel cottage che ha rimesso in piedi, lui duro lavoratore del braccio, già manovale e muratore, ma subito dopo intraprende con lei un viaggio febbrile alla ricerca di Jennifer, ripercorrendo i luoghi dei loro vagabondaggi, la Grecia, l’Italia, la Francia, fino ad approdare a Amsterdam, e rivolgendosi ad amici o conoscenze comuni per ottenere notizie. A questo punto il viaggio di Scully si trasforma in un incubo a doppio livello, nei Paesi e nelle città ma al tempo stesso nella sua mente turbata, dal momento che egli è un individuo inquieto e sotto molti aspetti visionario per natura. Perché Jennifer lo ha lasciato e, come egli apprende, gli ha mentito sulla sua gravidanza? Perché tutti si mostrano così elusivi o, a loro volta, tormentati, tanto che un amico greco muore, probabilmente suicida, poco dopo averlo incontrato e Fred viene sospettato di averlo ucciso? Realtà e sogno finiscono per confondersi quasi indissolubilmente, come nel caso dell’incontro solo apparentemente casuale con la tedesca Irma, che sfocia in una ambigua intimità e si insinua prepotentemente nel mistero di questo viaggio in apparenza senza senso e senza fine. Fred gradualmente pensa a se stesso nei termini di un fallimento esistenziale e così tenta di spiegare la decisione di Jennifer. A Amsterdam viene arrestato per una rissa provocata in una casa equivoca, e qui tocca davvero il fondo. La vicenda, esplosa all’inizio di dicembre, si conclude alla fine dell’anno, quasi emblematicamente. Padre e figlia ritornano in Irlanda, ed è grazie a Billie, straordinaria creatura capace di soffrire ma di offrirgli una nuova sicurezza e una intensità di amore mai conosciuta prima, che Fred esce dall’incubo. Se vedrà ancora, nella notte, i misteriosi, ancestrali cavalieri che si aggirano nella foresta, sa che non diventerà mai uno di loro. Così, questo romanzo intriso della spazialità e delle accensioni visionarie peculiari della cultura australiana, scandito da un ritmo esemplare in cui hanno parte le ballate popolari (la prima nel testo, «C’era un ragazzo selvaggio delle Colonie…» è insieme notissima in Australia e di matrice irlandese), affidato a due personaggi di singolare pregnanza, ben tradotto da Isabella Ciapetti, memoria, paesaggio, inquietitudine e ricerca di sé, finiscono per ricomporsi quasi magicamente e infine riscattarsi. 9 ottobre

 

Claudio Gorlier, TUTTOLIBRI – LA STAMPA

 

La tirannia della distanza sotto il cielo d’Australia

Una letteratura con due linee di forza: gli enormi spazi aperti di una natura spesso ostile e ilpeso di una solitudine spesso crudele, con un drammatico intreccio di rapporti familiari. Un Paese “senza storia” che si interroga su identità e origini.

“Una nazione di alberi, verde spento e grigio desolato”, descrive l’Australia uno dei suoi maggiori poeti contemporanei, A. D. Hope, e impietosamente prosegue: “É l’ultima delle terre, la più vuota, / una donna passata in menopausa, un seno / ancora tenero, ma arido dentro è il grembo. / Senza canzoni, architettura, storia…”. Nessuna emozione gli provocano le sue cinque città; eppure, quando egli ritorna in patria da un viaggio, si sente lieto perché “ancora dai deserti vengono i profeti”, esclamazione divenuta proverbiale in Australia, quasi un motto. Il poemetto di Hope, che si intitola Australia, riflette efficacemente la problematicità appassionata e spesso tormentosa della letteratura di un continente nazione antichissimo per storia naturale (i canguri sono un felice anacronismo) e recente per storia politica. Il rapporto degli scrittori, dei poeti, dei drammaturghi australiani – non diversamente da quello dei registi di cinema – è intessuto di contraddizioni, inquietudini, fantasmi, e si applica anche quando l’azione si svolge in altri paesi in cui lo scrittore si trasferisce, esule volontario. É il caso del notevole romanzo del quarantenne Tim Winton “I cavalieri”, ora tradotto da Fazi, dove i personaggi viaggiano in Europa. Se la storia rimane una categoria fondamentale nella cultura letteraria occidentale, la sua glacialità, la mancanza di una solida tradizione, hanno fatto lievitare nella letteratura australiana almeno due linee di forza qualificanti e a loro modo uniche: l’imperiosa, spesso ostile, presenza della natura fisica; l’intreccio drammatico, intenso e contraddittorio, persino crudele, dei rapporti interpersonali e familiari, frutto in molti casi della solitudine e dell’isolamento.

 

Francesco Mannoni, SECOLO D’ITALIA

A colloquio con Tim Winton che al recente Festival di Mantova ha “incantato” parlando della sua terra

Cantore di un’Australia antica

“La letteratura? La costruiamo piano piano, attraverso la vita”

Fisico massiccio da boxeur o da gladiatore come quello di alcuni attori famosi suoi connazionali, interpreti di film di successo, lo scrittore australiano quarantenne Tim Wiinton ha un faccione simpatico e un modo di parlare quasi sottovoce, come se alzare il tono volesse dire rompere un incantesimo. Abituato all’Australia, un paese grande quasi come l’America dove vivono meno di venti milioni di persone e i grandi silenzi sono emozioni perenni, Tim Winton, nei suoi libri, tutti pubblicati da Fazi (l’ultimo si intitola “I cavalieri” – pagine 342, L. 28.000), racconta storie di povera gente, di famiglie scombinate, di viaggiatori tenaci, ma anche favole edificanti in cui una cernia gigante e un bambino creano un solido rapporto d’amicizia. Col disincanto tipico delle persone che sanno guardare la realtà negli occhi, ma con un residuo di sentimento fantastico che stempera gli umori coriacei della vita, Tim Winton è il cantore d’una Australia antica e moderna, ancora in cerca d’una precisa identità sociale, ma orientata al superamento di tutte le sue contraddizioni. Primo scrittore australiano a partecipare al Festival Letteratura di Mantova, conclusosi da pochissimo, Tim Winton impersona quel senso di sovversione che circola fra i personaggi dei suoi libri, animati da uno spirito ribelle che li porta alla trasgressione. ”Da giovane – dice – non volevo avere un impiego. Volevo essere splendidamente disoccupato. Vengo da una famiglia protestante con un’etica del lavoro molto marcata, ma io non volevo avere un capo, una cravatta, degli orari obbligati”. D: “É per questo che è diventato uno scrittore?”. R: “Si, anche perché noi scrittori australiani abbiamo la fortuna e il privilegio di non avere una grossa tradizione, non siamo schiacciati da questo peso, non siamo obbligati a seguire determinati canoni: la letteratura un po’ la costruiamo man mano che andiamo avanti. In questo senso è facile sovvertire le nostre tradizioni, anche perché i cambiamenti naturali sono talmente veloci che, ogni volta che tentiamo di definire che cos’è l’Australia, quando arriviamo ad una definizione, il continente è già un’altra cosa. Bisogna considerare – precisa – che la letteratura australiana ha meno di duecento anni, e che i nostri sforzi di configurare una cultura nazionale sono quindi abbastanza giovani, recenti. Però, è altresì vero che siamo aggrappati alle spalle di una cultura che è molto più antica della nostra, forse una delle più antiche che ci siano”. D: “Cosa la ispira maggiormente per i suoi romanzi?”. R: “La mia ispirazione primaria viene dal paesaggio più che da elementi culturali. Gli australiani sono persone interessanti, ma il paesaggio… mi fa sentire più forte il suo vasto e profondo richiamo: è più grande di chiunque di noi e ci costringe ad affrontarlo con grande umiltà. Nella provincia in cui vivo, ad Ovest dell’Australia, abbiamo a disposizione un milione di chilometri quadrati per un milione di abitanti. Una situazione di questo genere cambia completamente la visione del mondo se la confrontiamo con quella che può avere un europeo”. D: “In uno dei suoi romanzi, “Il buio dell’inverno”, racconta una sorta di paura ancestrale degli australiani: vera o romanzesca?”. R: “Ne “Il buio dell’inverno” racconta la paura primaria, fondamentale, molto interiorizzata, che gli australiani sentono quando si confrontano con lo sconfinato paesaggio che li circonda. Noi siamo arrivati su quest’isola come europei, con delle aspettative da europei. Il paesaggio dell’Australia non si conforma assolutamente alle nostre aspettative iniziali. Questo paese è particolare: piove nel momento sbagliato oppure non piove per cinque anni e gli animali sono molto strani. Gli europei sono arrivati in Australia, hanno piantato i loro semi, e le piante non sono nate, e quelle che sono cresciute sono state mangiate dai tanti stranissimi, sconosciuti animali. Per questo il rapporto con la natura australiana è stato quasi sempre di battaglia, come una guerra, per cercare di sottometterla. Per fortuna non ci siamo riusciti”. D: “Ma è davvero tanto ostile la natura australiana?”. R: “Dal punto di vista storico c’è sempre stato il concetto secondo il quale la natura era qualcosa che ci era ostile, che ci voleva uccidere. Nella mia generazione c’è stato un cambiamento completo dell’atteggiamento degli australiani verso la natura. parte del mio percorso di vita, della mia educazione, comincia proprio dal fatto di vedere la natura da un punto di vista meno europeo e più vicino a quello degli aborigeni. La loro cultura all’interno della quale la terra e la natura non appartengono alle persone: sono le persone che appartengono alla natura”. D: “É vero che gli aborigeni sono liberi di vivere come vogliono e, fisicamente, in molti casi, questo è effettivamente possibile. Credo però che il desiderio segreto degli aborigeni sia quello di veder tutti noi europei ritornare nelle galere dell’Inghilterra vittoriana: cosa questa molto difficile. storicamente il processo è stato questo. I bianchi sono arrivati, hanno invaso lo spazio degli aborigeni e loro sono stati spinti sempre più verso il deserto. La loro capacità di adattamento li ha salvati e nella seconda metà del ventesimo secolo si è registrato l’aumento contemporaneo della popolazione urbana di aborigeni e di un gruppo di aborigeni che si sono ritirati nel deserto per cercare di difendere la loro cultura. In questo momento, la grande sfida della società australiana è una sfida giuridica. Si tratta di vedere come si può ridare alle popolazioni aborigene il diritto di proprietà sulle loro terre. I nostri tribunali passano la maggior parte del loro tempo a cercare di dirimere le questioni riguardanti i diritti del popolo aborigeno”. D: “Quale sarà il loro futuro?”. R: “Il futuro degli aborigeni e quello dell’Australia, può basarsi solo su un processo di riconciliazione per riuscire in qualche modo a vivere insieme. Questo è il problema che ci si pone e che bisognerà assolutamente risolvere. Basterà ricordare che gli aborigeni, pur rappresentando meno dell’1% della popolazione australiana, costituiscono il 99% di un grave problema morale”. D: “L’Australia è sempre più pressata da un’Asia super popolata che cerca sbocchi vitali. É pronta l’Australia bianca ad accogliere legioni di immigrati?”. R: “Non credo che gli australiani si considerino più come un paese bianco. Abbiamo avuto varie ondate di immigrazione, siamo un paese di immigrazione, però, forse, rimangono alcuni retaggi, alcuni elementi collegati ad una certa filosofia che esisteva in passato, e per la quale l’Australia era un paese bianco. Siamo di fronte ad un dilemma: ad un paese ricco e borghese come l’Australia, tanti altri paesi guardano come ad uno sbocco possibile per la gente che vuole andare via. Come gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, anche noi stiamo studiando per risolvere questa questione. L’Australia comunque è cambiata. Quando io andavo a scuola c’erano pochi ragazzi che non avessero la pelle rosea. I miei bambini vanno in una scuola dove i loro compagni vengono da Singapore, dalla Malesia, dalle Filippine, dalla Colombia e dal Sud Africa. I miei figli hanno l’unico cognome anglosassone della loro classe e si sentono esotici”. D: “Ci sarà quindi una qualche integrazione con l’Asia?”. R: “L’Australia dovrà necessariamente integrarsi sempre di più in Asia. Questo è un processo che si sta già verificando dal punto di vista economico e che sempre di più avrà luogo a livello della popolazione. personalmente credo che questo sia un bene. Negli anni ‘70 e ‘80, l’Australia ha accolto numerosi profughi asiatici che si sono integrati perfettamente nella cultura australiana. Ora c’è tanta immigrazione illegale di tipo particolare che presenta un problema diverso, difficile da risolvere”.

 

Francesco Mannoni, IL CORRIERE DEL TICINO

L’intervista. Il paese che ospita i giochi olimpici deve portare a termine un lungo processo di riconciliazione

La sfida degli aborigeni all’Australia

Ne parla lo scrittore Tim Winton di cui è appena stato pubblicato un romanzo in italiano

Fisico massiccio da boxeur o da gladiatore come quello di alcuni attori famosi suoi connazionali, il quarantenne australiano Tim Winton ha un faccione simpatico e parla quasi sottovoce, come se temesse di rompere un incantesimo. Abituato a vivere in un Paese grande quasi come gli Stati Uniti e con meno di venti milioni di abitanti, Winton nei suoi libri, tutti pubblicati in Italia da Fazi, l’ultimo s’intitola “I Cavalieri”, racconta storie di povera gente, di famiglie scombinate, di viaggiatori tenaci, ma anche favole edificanti come quella di una cernia gigante e un bambino che diventano amici. Tim Winton è il cantore di un’Australia antica e moderna insieme, ancora in cerca d’una precisa identità sociale che armonizzi le sue contraddizioni, e impersona lo spirito ribelle che circola fra i personaggi dei suoi libri. “Da giovane – rivela – non volevo avere un impiego. Volevo essere splendidamente disoccupato. Vengo da una famiglia protestante con un’etica del lavoro molto marcata, ma io non volevo avere un capo, una cravatta, orari obbligati”. D: É per questo che è diventato uno scrittore? R: “Si, anche perché noi scrittori australiani abbiamo la fortuna di non avere una grande tradizione alle spalle, non siamo obbligati a seguire determinati canoni. Costruiamo la letteratura man mano che andiamo avanti. É facile, perciò, sovvertire le nostre tradizioni, anche perché i cambiamenti sono talmente veloci che, ogni volta che crediamo di poter definire che cos’è l’Australia, essa è già diventata un’altra cosa. Bisogna considerare che la letteratura australiana ha meno di duecento anni: i nostri sforzi di configurare una cultura nazionale quindi, sono recenti. Ma è altresì vero che siamo aggrappati a una cultura molto più antica della nostra, forse una delle più antiche che ci sia”. D: Cosa la ispira maggiormente per i suoi romanzi? R: “La mia ispirazione primaria viene dal paesaggio. Esso mi lancia un profondo richiamo: è più grande di chiunque di noi e ci costringe ad affrontarlo con umiltà. Nella provincia in cui vivo, nell’ovest dell’Australia, abbiamo a disposizione un milione di chilometri quadrati per un milione di abitanti. Una situazione di questo genere cambia completamente la visione del mondi rispetto a quella che può averne un europeo”. D: In uno dei suoi romanzi, “Il buio dell’inverno”, tratta della paura ancestrale degli australiani. É veramente così? R: “In “Il buio dell’inverno” racconto la paura primaria, molto interiorizzata, che gli australiani provano quando si confrontano con lo sconfinato paesaggio che li circonda. Noi siamo arrivati su quest’isola come europei, con aspettative da europei. Il paesaggio dell’Australia non si conforma assolutamente all nostre aspettative iniziali. Questo Paese è particolare: è popolato da animali strani, piove nel momento sbagliato, oppure non piove per cinque anni. Gli europei arrivarono in Australia, piantarono i loro semi ma le piante non nacquero oppure furono mangiate dai tanti sconosciuti animali. Il rapporto con la natura è stato quasi sempre di battaglia, come una guerra, per cercare di sottometterla. per fortuna non ci siamo riusciti”. D: Ma è ancora tanto ostile la natura australiana? R: “Storicamente abbiamo sempre pensato che la natura ci fosse ostile, volesse ucciderci. Nella mia generazione c’è stato un cambiamento completo dell’atteggiamento verso la natura: abbiamo cominciato a vederla con uno sguardo meno europeo e più vicino a quello degli aborigeni. Nella cultura degli aborigeni la terra non appartiene alle persone: sono le persone che appartengono alla terra. Da bambino sono cresciuto in una cittadina dove ci si dedicava alla caccia alle balene. Ho visto balene trascinate a terra, tagliate a pezzi e bollite. Tutto quello che io so del mare e della natura l’ho visto per la prima volta, in modo violento, sulla punta di un arpione. La violenza non è nella natura, ma negli uomini”. D: É vero che gli aborigeni, alla stregua degli Indios americani, sono costretti a vivere nelle riserve? R: “Gli aborigeni sono liberi di vivere come e dove vogliono. Credo però che il loro desiderio segreto sia di vivere tutti noi europei ritornare nelle galere dell’Inghilterra vittoriana: cosa, questa, molto difficile. Le cose con loro sono andate così. I bianchi arrivarono, invasero il loro spazio ed essi furono spinti sempre più verso il deserto. La loro capacità di adattamento li ha salvati e nella seconda metà del Novecento si è registrato l’aumento contemporaneo della popolazione urbana di aborigeni e di coloro che invece si erano ritirati nel deserto per cercare di difendere la propria cultura. In questo momento la grande sfida della società australiana è giuridica: si tratta di capire come si può restituire alle popolazioni aborigene il diritto di proprietà sulle loro terre. I nostri tribunali passano la maggior parte del loro tempo a cercare di dirimere le questioni concernenti i diritti del popolo aborigeno”. D: Quale sarà il loro futuro? R: “Il futuro degli aborigeni e quello dell’Australia possono poggiare solo su un processo di riconciliazione che ci permetta di convivere. Questo è il problema che ci si pone e dovremo assolutamente risolvere. Basterà ricordare che gli aborigeni, pur rappresentando meno dell’1 per cento della popolazione australiana, costituiscono il 99 per cento di una grave questione morale”. D: L’Australia è sempre più pressata da un’Asia sovrappopolata che cerca sbocchi vitali. É pronta l’Australia “bianca” ad accogliere legioni di immigrati? R: “Non credo che gli australiani si considerino più un popolo “bianco”. Abbiamo avuto diverse ondate di immigrazione, siamo un Paese di immigrazione, ma rimangono ancora alcuni retaggi di una filosofia legata al passato, secondo la quale l’Australia era una nazione “bianca”. Siamo di fronte a un dilemma: tanti popoli considerano il nostro Paese ricco e borghese una meta agognata. Come gli Stati Uniti e l’Europa occidentale, anche noi stiamo studiando per trovare il modo di risolvere questa questione. L’Australia, comunque, è cambiata. Quando io andavo a scuola, erano pochi i ragazzi che non avessero la pelle chiara. I miei bambini, invece, hanno compagni di scuola provenienti da Singapore, Malesia, Colombia, Sud Africa, dalle Filippine. I miei figli sono i soli, nella loro classe, ad avere un cognome anglosassone, e si sentono esotici”. D: Ci sarà quindi una qualche integrazione con l’Asia? R: “L’Australia dovrà necessariamente integrarsi sempre più in Asia. É un processo già in corso sotto il profilo economico, che si estenderà anche alla popolazione. Io penso che questo sia un bene. Negli anni Settanta e Ottanta l’Australia accolse numerosi profughi asiatici, che si sono integrati perfettamente nella nostra cultura. Ora c’è tanta immigrazione illegale, ed è questa che crea i problemi”.

 

E. M., LIBERAZIONE
– 09/10/2000

“Festivaletteratura 2000”. Libri a Mantova

Giovani scritture sulla piazza del mercato globale

 

Ormai sono sbalorditi questi scrittori stranieri. Ma perché insistiamo nel vivisezionare i loro romanzi continuando a porre domande sul rapporto fra scrittura e racconto, fra scelte linguistiche e plot? Perché chiediamo quali sono i loro modelli e in che tradizione si collocano o come si percepiscono? Non sanno che in Italia la critica (e la storiografia) fanno da sempre i conti con la questione della lingua. Ti guardano un po’ perplessi. Abbozzano una risposta plausibile. Si intimidiscono, come l’angloindiana Yumpha Lahiri nata a Londra ma da genitori di Calcutta. Meno impacciato, anzi simpaticamente spontaneo è l’australiano Tim Winton qui con “I cavalieri” (Fazi). Quarant’anni, anche lui con laurea ma in letteratura inglese (ci tiene a questa dizione). Un esordio a 18 anni con dei racconti. Il primo romanzo, a 19, An Open Swimmer. Poi una decina di libri scritti fra i trenta e i quarant’anni. Rivendica le sue origini. “Vengo dal proletariato, dalla gente comune: sono il primo ad aver studiato e ad essermi laureato. La mia è una famiglia di pescatori, fantini, scaricatori di porto. I miei romanzi, per questo, parlano della gente comune”. E aggiunge: “l’Australia sta vivendo un momento molto produttivo e senza precedenti. É un paese dove le differenze di classe non sono profonde. Non esiste un’aristocrazia. C’è il proletariato che si è arricchito, si è trasformato in middle class, e compra libri, legge. Ci sono molti editori attenti ai giovani; si fanno film. C’è fiducia in se stessi: sono un lontano ricordo gli anni Cinquanta, quando uno come me avrebbe dovuto trasferirsi a Londra o a New York. Non siamo più una colonia”.

 

Francesco Mannoni, L’ECO DI BERGAMO

Lo scrittore Tim Winton spiega gli elementi costitutivi della cultura del suo popolo, al centro dell’attenzione mondiale

Un’Australia sempre meno bianca

Questo lembo di civiltà occidentale, pressato dall’immigrazione, guarda all’Asia

Abituato a vivere in un Paese grande quasi come gli Stati Uniti e con meno di venti milioni di abitanti, Tim Winton nei suoi libri, tutti pubblicati in Italia da Fazi (l’ultimo s’intitola “I cavalieri”, pp. 342, £. 28.000), racconta storie di povera gente, di famiglie scombinate, di viaggiatori tenaci, ma anche favole edificanti come quella di una cernia gigante e un bambino che diventano amici. Winton è il cantore di un’Australia antica e moderna insieme, ancora in cerca d’una precisa identità sociale che armonizzi le sue contraddizioni. “Da giovane – dice – non volevo avere un impiego. Volevo essere splendidamente disoccupato. Vengo da una famiglia protestante con un’etica del lavoro molto marcata, ma io non volevo avere un capo, una cravatta, orari obbligati”. D: É per questo che è diventato uno scrittore? R: “Si, anche perché noi scrittori australiani abbiamo la fortuna di non avere una grande tradizione alle spalle, non siamo schiacciati da questo peso, non siamo obbligati a seguire determinati canoni. Costruiamo la letteratura man mano che andiamo avanti. É facile sovvertire le nostre tradizioni, anche perché i cambiamenti sono talmente veloci che, ogni volta che crediamo di poter definire che cos’è l’Australia, essa è già diventata un’altra cosa. Bisogna considerare che la letteratura australiana ha meno di duecento anni: i nostri sforzi di configurare una cultura nazionale, quindi, sono recenti. Ma è vero tuttavia che siamo aggrappati a una cultura molto più antica della nostra”. D: Cosa la ispira maggiormente per i suoi romanzi? R: “La mia ispirazione primaria viene dal paesaggio. Esso mi lancia un profondo richiamo: è più grande di chiunque di noi e ci costringe ad affrontarlo con umiltà. nella provincia in cui vivo, nell’Ovest dell’Australia, abbiamo a disposizione un milione di chilometri quadrati per un milione di abitanti. Una situazione di questo genere cambia completamente la visione del mondo rispetto a quella che può averne un europeo”. D: In uno dei suoi romanzi, “Il buio dell’inverno”, tratta della paura ancestrale egli australiani. É veramente così? R: “Racconto la paura primaria, molto interiorizzata, che gli australiani provano quando si confrontano con lo sconfinato paesaggio che li circonda. Noi siamo arrivati su quest’isola come europei, con aspettative da europei. Il paesaggio dell’Australia non si conforma assolutamente ad esse. Questo paese è popolato da animali strani, piove nel momento sbagliato, oppure non piove per cinque anni. Gli europei arrivarono in Australia, piantarono i loro semi ma le piante non nacquero oppure furono mangiate dai tanti sconosciuti animali. Il rapporto con la natura è stato quasi sempre di battaglia, come una guerra, per cercare di sottometterla. per fortuna non ci siamo riusciti. Storicamente abbiamo sempre pensato che la natura ci fosse ostile, volesse ucciderci. Nella mia generazione c’è stato un cambiamento completo dell’atteggiamento verso la natura: abbiamo cominciato a vederla con uno sguardo meno europeo e più vicino a quello degli aborigeni. Nella loro cultura la terra non appartiene alle persone: sono le persone che appartengono alla terra. Da bambino sono cresciuto in una cittadina dove ci si dedicava alla caccia alle balene. Ho visto balene trascinate a terra, tagliate a pezzi e bollite. Tutto quello che io so del mare e della natura l’ho visto per la prima volta, in modo violento, sulla punta di un arpione”. D: É vero che gli aborigeni, alla stregua degli Indios americani, sono costretti a vivere nelle riserve? R: “Gli aborigeni sono liberi di vivere dove vogliono. Credo però che il loro desiderio segreto sia di vedere tutti noi Europei ritornare nelle galere dell’Inghilterra vittoriana: cosa questa molto difficile. I bianchi arrivarono, invasero il loro spazio ed essi furono spinti sempre più verso il deserto. La loro capacità di adattamento li ha salvati e nella seconda metà del ‘900 si è registrato l’aumento contemporaneo della popolazione urbana di aborigeni e di coloro che invece si erano ritirati nel deserto per cercare di difendere la propria cultura. In questo momento la grande sfida della società australiana è giuridica: si tratta di capire come si possa restituire alle popolazioni aborigene il diritto di proprietà sulle loro terre. I nostri tribunali passano la maggior parte del loro tempo a cercare di dirimere le questioni concernenti i diritti del popolo aborigeno”. D: L’Australia è sempre più pressata da un’Asia sovrappopolata che cerca sbocchi vitali. É pronta l’Australia “bianca” ad accogliere legioni di immigrati? R: “Non credo che gli australiani si considerino più un popolo “bianco”. Abbiamo avuto diverse ondate di immigrazione, ma rimangono ancora alcuni retaggi di una filosofia legata al passato, secondo la quale l’Australia era una nazione “bianca”. Siamo di fronte a un dilemma: tanti popoli considerano il nostro paese ricco e borghese un meta agognata. Come gli Stati Uniti e l’Europa Occidentale, anche noi stiamo studiando per trovare il modo di risolvere questa questione. L’Australia, comunque, è cambiata. Quando io andavo a scuola, erano pochi i ragazzi che non avessero la pelle chiara. I miei bambini invece hanno compagni provenienti da Singapore, Malesia, Colombia, Sud Africa, dalle Filippine. I miei figli sono i soli, nella loro classe, ad avere un cognome anglosassone, e si sentono esotici”. D: Ci sarà quindi un’integrazione con l’Asia? R: “L’Australia dovrà necessariamente integrarsi sempre più in Asia. É un processo già in corso sotto il profilo economico, che si estenderà anche alla popolazione. Io penso che questo sia un bene. Negli anni ‘70 e ‘80 l’Australia ha accolto numerosi profughi asiatici, che si sono integrati perfettamente nella nostra cultura. Ora c’è tanta immigrazione illegale, ed è questa che crea i problemi”.

 

Mariella Radaelli, IL GIORNO
– 09/09/2000

 

Winton l’australiano: abbiamo una macchia, gli aborigeni

 

MANTOVA – L’Australia nella nostra mente è valle edenica. E nella realtà che cos’è questo spazio immenso desertico o boscoso, geograficamente agli antipodi, dalle stagioni capovolte, pronto ad ospitare le Olimpiadi? É arrivato Tim Winton, giovane talento della letteratura australiana, a spiegarlo (ha presentato anche il nuovo romanzo edito da Fazi “I cavalieri”, la storia di un uomo che è costretto ad abbandonare l’Isola per intraprendere un viaggio disperato in Europa) portando l’intensità della sua lingua poetica, visionaria come quella di Faulkner, una lingua del sogno, del bambino, venata di ironia. Parlando di Australia è d’obbligo parlare di bush (termine un po’ vago per definire tutto ciò che non è città: letteralmente significa arbusto), spesso nei suoi libri (in “Quell’occhio, il cielo” o “Nel buio dell’inverno” dove rappresenta la paura dell’imprevedibile) insieme all’oceano. Winton, è sostanzialmente la natura l’esperienza primaria dell’australiano, riflessa poi in letteratura? “Si, il paesaggio. Quando gli europei sono arrivati in Australia trovarono un clima che non corrispondeva alle loro aspettative. C’erano animali strani a spaventarli. Allora tentarono di sottomettere la natura, ma per fortuna non ci sono riusciti. La mia generazione ha cambiato atteggiamento: non è la signora che ci vuole uccidere. Sono cresciuto in una città che si dedicava alla caccia delle balene. Ho visto come le finiscono, sull’arpione”. Come nasce il concetto di “mateship”, di cameratismo, così diffuso nella vostra cultura? C’entra col fatto che gli europei arrivarono in Australia come prigionieri? “Certo. La nostra cultura inizia con un grande gulag: questi deportati hanno perciò sviluppato il concetto di solidarietà. Ora il mateship è uno stile di vita libero”. Il protagonista de “I cavalieri” viaggia attraverso un’Europa corrotta, in una condizione di costante disperazione alla ricerca della moglie che l’ha abbandonato. Gli australiani viaggiano molto? “moltissimo. Siamo temprati dalle difficoltà dei viaggi: per arrivare in Europa non è un viaggio da poco. Abbiamo molta nostalgia di casa. Siamo sentimentali come i russi, con una differenza: noi non riusciamo neppure a piangere”. Ne “I cavalieri” è la bambina a salvare il padre dall’autodistruzione. Lei, Winton, scrive anche libri per bambini. La vostra cultura, che è una cultura giovane, si sente a proprio agio coi bambini? “I bambini sono le uniche persone sagge. Non siamo come gli inglesi che a volte ti mandano fuori dal pub se con te c’è un bambino mentre non lo farebbero col tuo cane. Al contrario gli italiani amano i bambini: lo so perché sono circondato da siciliani”. La situazione dei vostri aborigeni può essere paragonabile a quella degli Indiani d’America? “Ora sono liberi di vivere come vogliono ma mi piacerebbe ricacciare i bianchi australiani nelle galere dell’Europa vittoriana per quanto fecero quando invasero l’Australia. La grande sfida di oggi è riuscire a ridare agi aborigeni il diritto di proprietà sulle loro terre”. Ed è futuro possibile? “Gli aborigeni sono l’1% della popolazione ma rappresentano il 99% del problema morale che dobbiamo risolvere se vogliamo vivere in una società che possa chiamarsi tale. L’Australia europea ha un peccato originale: questo è il baco contenuto nel nostro frutto, la parte oscura del nostro Paese”.

 

Alessandro Zaccuri , L’AVVENIRE

 

Un po’ aborigeni, un po’ galeotti

Lo scrittore Winton: «Il mio Paese faccia i conti con il passato»

MILANO. Strano Paese, l’Australia. Occupa lo sterminato territorio sul quale fiorì una civiltà profondamente spirituale come quella degli aborigeni, ma si ostina a coltivare un atteggiamento di totale secolarizzazione, che rende la sua società simile, per molti aspetti, a quella dei Paesi scandinavi. Questa, almeno, è l’analisi di Tim Winton, uno dei maggiori scrittori australiani contemporanei, da alcuni anni noto anche in Italia per iniziativa dell’editore romano Fazi, che ha appena mandato in libreria I cavalieri, uno dei suoi romanzi più importanti. Quarant’anni esatti, lunga coda di cavallo e volto squadrato da uomo delle highlands («Non ne sono sicuro, ma credo che la mia famiglia fosse di origine scozzese», dice), Winton è stato nei giorni scorsi in Italia, ospite del Festivaletteratura di Mantova, dove si è trovato a rispondere a una raffica di domande in tema olimpionico. «Ma l’argomento in sé non mi interessa molto – confessa -. Già nel 1956 i Giochi si disputarono a Melbourne, senza che l’evento provocasse grandi cambiamenti nel mio Paese. L’unica speranza, a questo punto, è che l’opinione pubblica internazionale approfitti dell’occasione per analizzare più con più attenzione i problemi dell’Australia. E che gli australiani, magari, riescano finalmente a fare pace con la loro condizione di “turisti involontari”». A che cosa si riferisce? «Al fatto che il mio Paese è stato, in origine, una prigione a cielo aperto, terra di deportazione per i rifiuti sociali dell’Inghilterra vittoriana. Questo spiega il fondamentale atteggiamento di antipatia che gli australiani della mia generazione nutrono verso la Gran Bretagna e in particolare verso la famiglia reale. Non dimentichiamo, del resto, che molti dei deportati erano cattolici irlandesi, una duplice caratteristica che li rendeva, se possibile, ancora più emarginati agli occhi degli inglesi. Questo ha fatto sì, per esempio, a far scendere il silenzio sulla partecipazione dei soldati australiani ai grandi conflitti del XX secolo, dalle guerre mondiali a quella nel Vietnam». Eppure, quando si è trattato di decidere se diventare repubblica o rimanere nel Commonwealth gli australiani hanno scelto di rimanere fedeli alla corona britannica… «No, la realtà è molto diversa: il quesito del referendum è stato formulato in modo tale da confondere gli elettori. Sono convinto che se si fosse posta in modo semplice e diretto l’alternativa fra monarchia o repubblica, gli australiani non avrebbero avuto esitazioni. Personalmente considero il referendum come una delle due grandi occasioni perdute degli ultimi anni». E l’altra qual è stata? «Il processo di riappacificazione con la comunità aborigena, prima annunciato dal governo e poi sostanzialmente abbandonato per considerazioni di tipo economico. Quando si è arrivati a toccare il nodo dei risarcimenti, infatti, i politici sono tornati precipitosamente sui propri passi. Vede, non è che io mi senta colpevole nei confronti degli aborigeni e anzi mi ribello all’idea che le colpe dei padri ricadano sui figli. Ma questo non mi impedisce di provare vergogna per quello che i miei antenati hanno fatto agli aborigeni». Su questo argomento, però, la sua valutazione non è soltanto politica, ma anche – se mi passa il termine – spirituale. «Infatti: quella degli aborigeni è stata una civiltà straordinaria, con una fortissima consapevolezza spirituale che noi bianchi non siamo stati in grado di comprendere. È una sorta di peccato originale che l’Australia sconta ancora oggi con una secolarizzazione che investe tutti gli aspetti della società. Quando ho iniziato a pubblicare i miei romanzi, venivo considerato un autore un po’ eccentrico proprio per la mia attenzione alla dimensione religiosa dei personaggi e delle trame. Ma è stato attraverso il mio cammino personale che sono stato in grado di cogliere la sostanziale affinità tra la spiritualità degli aborigeni e alcune pagine dei mistici spagnoli». Una lettura insolita, per un australiano… «Beh, deve considerare che sono stato a un passo dal convertirmi al cattolicesimo. Oggi appartengo alla Chiesa anglicana del mio Paese, ma so per certo che i miei amici gesuiti continuano a sperare che cambi idea…».

 

Maurizio Bartocci, IL MANIFESTO
– 09/08/2000

 

Il cavaliere dei sogni

L’Australia e il realismo mistico della sua vita quotidiana. Intervista a Tim Winton oggi al “Festivaletteratura” di Mantova per presentare il suo ultimo romanzo “I Cavalieri”, edito da Fazi

É una vera e propria ossessione quella che da sempre attraversa le opere di Tim Winton. Un’ossessione legata al fare esperienza della realtà del nostro mondo attraverso quelli che lui definisce gli attrezzi base del suo mestiere: la lingua e le immagini. Con assoluta maestria riesce a trasferire sulle pagine dei suoi libri la realtà pura, senza deviazioni o metafore, sostenuta da una lingua asciutta ed essenziale che ripiega verso una scrittura diretta, chiara, immediata. Parole che scavano nel profondo della vita quotidiana e trasformano in poesia l’ordinario e il banale. Quarant’anni, di Perth, scrive da quand’era poco più che un ragazzino, e nonostante il successo l’abbia scaraventato sulla scena letteraria internazionale, Winton rimane il ragazzone timido e schivo della provincia australiana, che ama il mare, la natura, la compagnia della gente, ma non la mondanità; che se potesse, almeno per un giorno vorrebbe vivere come Pynchon o Salinger, nell’anonimato più assoluto. E di mare e natura parlano i suoi romanzi. Come Shallows, romanzo ambientato sulle coste dell’Australia Occidentale, sul rapporto tra uomo e natura e gli ultimi giorni dell’industria della caccia alla balena. O “Quell’occhio, il cielo” una storia di realismo mistico sul rapporto fra anima e natura. Ma parlano anche di gente comune, di poveri e operai. L’ultimo suo romanzo, “I Cavalieri” (pp. 352, £. 28.000), da ieri in libreria per i tipi dell’editore Fazi, vede come protagonista proprio uno di loro. Fred Scully, un australiano che ha deciso di lasciare il suo paese e di trasferirsi in Irlanda, attende all’uscita dei voli internazionali, ansioso di riabbracciare la moglie Jennifer e la figlioletta Billie. Dopo aver trascorso due anni in Europa, passando dalla Grecia alla Francia, dall’Inghilterra all’Irlanda, Scully vede dinanzi a sé l’inizio di nuova vita. Finalmente potrà ridare stabilità alla propria esistenza nel cottage che ha acquistato e rimesso a nuovo con le proprie mani. L’aereo atterra puntuale, le porte si aprono e i sogni di Fred si frantumano in mille pezzi. Jennifer non c’è. C’è solo la piccola Billie che, chiudendosi in un inquietante mutismo, non sarà in grado di spiegare al padre cosa è successo. In uno stato di profondo stordimento, Fred e Billie intraprendono un viaggio attraverso l’Europa, rivisitando i luoghi del passato alla ricerca della donna che ama e soprattutto delle ragioni della sua scomparsa. Ne abbiamo parlato con Tim Winton, che oggi sarà presente al “Festivaletteratura” di Mantova (Casa del Mantegna, ore 10.30). D: “Da cosa nasce questo romanzo?”. R: “Come tutti i miei libri nasce da un’immagine. Qui l’immagine è quella del castello che si trova davanti al cottage di Scully. Nell’88, all’epoca in cui stavo scrivendo Cloudstreet, ho trascorso un lungo periodo in Irlanda, ma non mi sarei mai sognato di scrivere niente ambientato in Europa. Una volta tornato in Australia, ho cominciato a fare sogni ricorrenti, ambientati in Irlanda, con un castello e dei cavalli. Inoltre, in quel periodo, viaggiavo moltissimo ed ero costretto a passare ore interminabili negli aeroporti. E lì ho cominciato a riflettere su come, in fin dei conti, il viaggio diventi una forma di cultura, di come uno venga quasi “addomesticato” a una serie di gesti abituali e scontati. Cioè, uno va in aeroporto, le porte dell’aereo si aprono all’ora indicata sulla carta d’imbarco, dopo un certo numero di ore si arriva a destinazione. Nessun imprevisto, tutto calcolato. Tuttavia rimane sempre una percentuale di imprevedibilità che noi non consideriamo mai. E non appena qualcosa va storto, quel nostro addomesticamento comincia a vacillare; alla seconda cosa che va storta, cominciamo ad avere un’avventura; alla terza, siamo di fronte a un vero disastro. E questa è stata l’idea che ha affiancato l’immagine iniziale del castello. Il passaggio da un evento a noi familiare a un’avventura, a una tragedia personale, in tre velocissime mosse”. D: “In quasi tutti i suoi libri c’è un tema ricorrente: il sogno. Da “Cloudstreet” a “Nel buio dell’inverno”, dove i protagonisti i sogni degli altri, fino a “I Cavalieri”, dove Scully sogno notte dopo notte”. R: “Credo i sogni siano la piaga del genere umano. Non sono il sostenitore di alcuna teoria sui sogni. Trovo Jung interessante, Freud troppo meccanico, e non gli credo neanche per un istante. Tuttavia mi affascina il concetto junghiano di inconscio collettivo. Tirandosi fuori da ogni schema culturale e confrontandosi solo con la natura, ognuno di noi è molto più soggetto al mondo dei sogni. Nelle culture primitive dove non si fa molta distinzione fra la veglia e il sogno, questo concetto è pienamente compreso. In Australia, poi, abbiamo il grande patrimonio aborigeno del “Sogno”, che però ha un significato più complesso e profondo. Si tratta di una realtà atemporale, dove presente, passato e futuro coesistono. Per gli aborigeni, tutto ciò che è successo nel passato continua a succedere nel presente. Questo è il concetto che più mi interessa, ed è qualcosa che noi in Australia percepiamo a livello istintivo, psicologico. E i sogni sono importanti nei miei libri, perché ciò che sogniamo può influenzare la realtà, fino a rendere indistinta la linea di demarcazione fra i due mondi. I cavalieri medievali, che una notte Scully si ritrova davanti agli occhi, sono molto più che una semplice visione. Quando si avvicina a loro, sente l’odore pungente dei loro corpi non lavati; sente la puzza dei cavalli. E noi non abbiamo nessun elemento per stabilire se lui dorma o sia sveglio. Ma Scully capisce che sono forieri di qualcosa di terribile”. D: “I suoi libri trasudano una forte passione per la lingua. A volte sembra quasi essere il personaggio principale”. R: “La lingua è tutto ciò che ho la prendo sul serio. Ho un debole per la lingua essenziale, scarna, disadorna, anche se ogni tanto mi lascio prendere la mano. Il mio scrittore preferito è Faulkner. Di lui mi piace soprattutto il fatto che scrive di posti precisi e riconoscibili, in una lingua altrettanto identificabile. Faccio sempre in modo, però, che la lingua non interferisca mai con la storia che voglio raccontare, perché prima di tutto sono un narratore. Odio quei romanzi contemporanei dove si fatica a rintracciare la storia perché tutto il libro è u elaborato gioco di virtuosismi linguistici. Raccontare storie è una delle necessità primarie del genere umano, come mangiare, dormire, fare sesso. A che serve una letteratura che non racconta storie, ma è solamente sterile carta da parati intellettuale? A me piace scrivere di cose semplici e quotidiane, di affetti e sentimenti; di tutte quelle cose normali che la gente comune dice e fa. Se poi si è abbastanza bravi da osservarle da una angolatura diversa, il gioco è fatto: tutto diventa poetico e sublime. Strano ma vero!”. D: “Oltre alla passione per la lingua, c’è anche una passione per i luoghi”. R: “Ne “I Cavalieri”, Scully sente il paesaggio come una passione centrale. I suoi luoghi gli mancano tanto quanto la moglie. Gli mancano i colori del mare e del cielo, i profumi del vento e del deserto. Per lui l’architettura è qualcosa che esiste al posto del paesaggio, “il segno di una perdita”. Nei miei libri il paesaggio si fa spazio antropomorfico, mette in relazione il personaggio alla sua situazione psicologica; si addossa, in un certo senso, il piano della narrazione”. D: “Che significato ha l’assenza di Jennifer?”. R: “Era necessario che fosse un’assenza e che restasse assente per tutto il romanzo. Altrimenti avrebbe risucchiato tutta l’energia del libro e reso la narrazione convenzionale. Non volevo offrire al lettore la ricetta del loro matrimonio. Né volevo scrivere un libro di genere. Come “Nel buio dell’inverno” ero assolutamente certo di non voler scrivere un thriller. La mia intenzione era quella di sovvertire radicalmente la forma. Il modo migliore di farlo è quello di scrivere mettendoci tutto tranne quei due ultimi noiosissimi capitoli in cui si scopre per filo e per segno cosa è successo. Quando leggiamo un giallo, la parte interessante, avvincente, è proprio quella che riguarda i primi due terzi del libro, quando ancora non si capisce cosa sta succedendo”. D: “Cosa significa essere uno scrittore australiano?”. R: “Credo che abbia sempre meno significato. Da un punto di vista strettamente culturale, io non vivo in Australia, vivo nell’Australia Occidentale. Culturalmente, parlando, L’Australia è Sydney e Melbourne. Io vivo lontano dal centro del potere, politico e culturale, e questa è una cosa che mi dà molto sollievo. per me, comunque, essere uno scrittore australiano significa in primo luogo raccontare storie e creare immagini che parlano prima di tutto alle persone che ho intorno. Certi registi europei, certi scrittori americani, sono interessati soprattutto perché parlano con passione e onestà di qualcosa che conoscono bene e che amano. Ciò che io conosco bene è la mia gente. Gente per lo più che appartiene alla classe operaia. In quanto scrittore australiano, non potrei mai scrivere un’opera alla Thomas Mann, popolata da persone coltissime che parlano sette lingue e si muovono con leggerezza e disinvoltura in un mondo cosmopolita. Perché questo non è il mio mondo, non è il mondo delle persone che mi stanno a cuore”. D: “Una volta ha dichiarato che per lei scrivere è sostanzialmente una fastidiosa occupazione che cerca disperatamente di evitare”. R: “Scherzavo. Scrivo da talmente tanto tempo che ormai è diventata un’abitudine, una specie di lavoro con orario sindacale. Tutti pensano che io sia molto disciplinato, ma non è così. É abitudine e basta. Quando i miei figli escono per andare a scuola, mi siedo al mio tavolo con la penna stilografica in mano, in una stanza senza panorama e aspetto. Se alla fine delle mie otto ore “sindacali” non ho scritto niente, ho comunque la coscienza a posto. É come una meditazione artificiale. Ma è fondamentale che davanti a me non ci siano panorami di alcun genere. Sarebbe come la pornografia. Sai che non devi guardare, ma non riesci a tenere gli occhi bassi. E la penna stilografica. Non potrei mai scrivere al computer. Usare la penna è anche un atto di umiltà”. “TRA ROMANZI E LIBRI PER RAGAZZI” Tim Winton è nato a Perth, Australia Occidentale, nel 1960, dove si è laureato in “Creative Writing” presso il Western Australian Institute of Technology, la Curtain University di oggi. Da sempre figura enigmatica del mondo letterario australiano. Tim Winton ha già al suo attivo quindici libri, fra romanzi, racconti e libri per ragazzi. Con il suo romanzo d’esordio, “An Open Swinner” (del 1982), ambientato nei luoghi della sua infanzia, ottiene uno dei più prestigiosi premi letterari australiani, il “Vogel Literary Award”. Due anni dopo, nel 1984, con “Shallows” – un romanzo melvilliano incentrato sul rapporto tra uomo e natura e l’industria della caccia alla balena , Winton vince il “Miles Franklin Award”. Il successo internazionale arriva con “Cloudstreet”, probabilmente il suo romanzo migliore, pubblicato nel 1991, con il quale si conquista un posto fra i grandi scrittori australiani contemporanei, come Peter Carey e David Malouf. Sempre nel 1991 pubblica uno dei suoi libri per bambini più belli e divertenti – “The Bugalugs Bum Thief” -, che racconta le disavventure del piccolo Skeeta Anderson, il quale svegliandosi una mattina si accorge di essere stato derubato del suo sederino, così come gli altri quattrocentonovantacinque abitanti della piccola città di Bugalugs. Con il suo ultimo romanzo, “I Cavalieri” – edito in Italia da Fazi e che verrà presentato oggi al Festival di Mantova -, Tim Winton è stato finalista al Booker Prize nel 1995. Oltre a “I Cavalieri”, di Winton sono disponibili in italiano, sempre per i tipi di Fazi, “Quell’occhio, il cielo”, “Blueback”, “Nel buio dell’inverno”. Winton ama il mare e il blues; odia i telefoni cellulari, i computer e chi fa jogging e si riferisce alla regina d’Inghilterra chiamandola Betty Windsor. I suoi film preferiti sono “Io e Annie” di Woody Allen e “L’isola di corallo” di John Huston, i libri che adora sono “Moby Dick” di Hermann Melville, “Il sole sorge ancora” di Ernest Hemingway”, L’urlo e il furore” di William Faulkner, “Il cielo è dei violenti” di Flannery O’Connor. Tim Winton vive a Freemantle, di fronte all’Oceano Indiano, insieme alla moglie e i loro tre figli.

 

Monica Capuani, MARIE CLAIRE
– 09/01/2000

Incontro: Tim Winton

La (im)possibilità di essere felici

l’Australia- di oggi e di ieri-raccontata fuori da ogni cliché

Scully sta per costruire per la sua famiglia una vita nuova e felice in Irlanda, quando all’improvviso tutto va storto: dall’aereo in arrivo dall’Australia sbarca la figlia afasica e traumatizzata, e sua moglie è scomparsa. Comincia così una ricerca affannosa per mezz’Europa, mentre un’ossessiva visione di cavalieri medievali davantia a un maniero irlandese sembra suggerire a Scully che la realtà è più complessa della sua apparenza. E’ la trama de “I cavalieri “di Tim Winton, nato a Perth in Australia 40 anni fa e noto in patria anche come narratore per l’infanzia. Winton, che ha tre figli, vive su una spiaggia scrivendo e facendo surf. Ma questa vita apparentemente spensierata non gli ha impedito di affinare una sorprendente capacità nella raccontare il perturbante, costruendo plot in cui l’incomprensibile cresce fino a diventare incubo. D: Lei lascia grande spazio al lettore per proiettare i suoi fantasmi … R: I libri che forniscono soluzioni sono disonesti. La vita non è così: si muore lasciando molte questioni aperte, a cui nessuno ha dato risposta. D: Come mai le interessa la riflessioni sul mistero del male? R: Sarà per quel tradizionale pessimismo degli australiani, la feccia delle galere dell’Inghilterra vittoriana. Si illusero di trasformare l’Australia in una nuova Europa. La delusione si vede dai nomi che hanno dato a questa terra indomabile: come si può battezzare una montagna Mount Misery? D: In quella terra c’é però anche spiritualità antica. R:Antica e misteriosissima: la saggezza secolare degli aborigeni ha rivelato un mondo di forze sconvolgenti e inesplicabili. D: Le disavventure del suo protagonista sono tutte immaginarie? R: Più o meno, anche se a volte la vita imita l’arte. Sono appena stato a Parigi con mia figlia di nove anni. Una notte è scattato l’allarme anticendio e mi sono dovuto precipitare giù per le scale con due enormi valigie e lei al collo. Il giorno dopo un cameriere mi guardava con insistenza e alla fine mi ha chiesto: “E’ sicuro che la bambina sia davvero sua figlia?” D: Com’é oggi vivere in Australia? R: Stiamo vivendo un periodo di fiducia elettrizzante, come l’America negli anni Venti. Il nostro ottimismo però è un pò diverso, perché noi abbiamo sempre delle riserve sulla nostra felicità. Comunque, oggi l’interesse dell’Europa, meno narcisista e colonizzatrice degli Usa, ci ha finalmente liberati dal complesso del cugino povero. Il Vecchio Mondo comincia a soffrire di una strana forma di claustrofobia che lo costringe ad allargare gli orizzonti. E noi siamo proprio lì, agli antipodi, nel punto più lontano dove il suo sguardo riesce a spingersi.

 

SUSANNA NIRENSTEIN , LA REPUBBLICA
– 09/07/2000

 

“Il mio paese è giovane”

Intervista con Tim Winton, che domani a Mantova presenterà il suo nuovo romanzo A lui chiediamo di aiutarci a capire il continente che sta per ospitare le Olimpiadi

Parlare con Tim Winton è difficilissimo. Vive su una spiaggia isolata di Freemantle, nell’Australia meno popolata. Solitari nel continente più remoto del mondo, lui, la moglie e tre figli. Unico modo di prendere appuntamenti: il fax, tanti fax. Alla fine entriamo in contatto e veniamo a sapere che sta per arrivare a Mantova, al Festivaletteratura, dove presenterà alle 10.30 di domani I cavalieri (Fazi, pagg. 342, lire 28.000), il suo ultimo romanzo, il cui protagonista, Scully, è australiano, ha circa la sua età, quaranta anni, e, guarda un po’, proviene da Freemantle, Australia. Tim Winton è uno scrittore molto amato nel suo paese tanto che uno dei suoi racconti è il secondo di una raccolta che la prestigiosa rivista americana Granta ha voluto dedicare quest’estate al continente australe. In Italia ha già pubblicato Quell’ occhio quel cielo, Blueback e Nel buio dell’inverno, storie molto australiane, come I cavalieri. Winton è la persona giusta per aiutarci a capire il cuore dell’australianità, così misteriosa, proprio a partire da questo romanzo molto ben scritto, forte, diverso. Una storia carica di dolore, però, perché il protagonista, Scully, dopo un infinito girovagare per l’Europa insieme alla famiglia, è convinto di aver trovato su una collina irlandese il posto giusto dove costruire il nido per la figlia Billie e la irrequieta moglie Jennifer convinta di dover diventare un’artista: dopo aver lavorato come un matto per mettere a posto la casa, va a prendere all’aeroporto Jennifer e Billie, ma vede uscire solo Billie. Che non parla, ammutolita dallo choc. Scully cerca di darsi una risposta, cerca la moglie dovunque, è certo che lei gli stia mandando un messaggio, un appuntamento in uno dei luoghi, in Europa, dove sono stati insieme: forse a Londra, dove aveva fatto il muratore insieme a un gruppo di ragazzi che, scopre, erano legati all’Ira? O forse in quell’isola greca piena di ex freak “espatriati” e un po’ ubriachi dove lei prendeva lezioni di pittura e lui faceva lo scalpellino con un operaio del luogo? O a Parigi, dove gli amici intellettuali di Jennifer lo snobbavano mentre lui imbiancava gli appartamenti? Scully inizia a viaggiare caoticamente, con la bambina dietro, sottoponendola a mille piccoli e grandi rischi. Finendo i soldi. Confondendosi le idee. Facendoci soffrire. Sempre terribilmente solo, se non fosse per Billie, che ha sette anni, ma finisce per proteggerlo dalla sua follia. Dal suo ultimo libro sembra che l’identità del protagonista, in realtà l’identità australiana, possa essere cercata solo lontano dall’Australia. E’ così? ”Gli australiani viaggiano molto, è vero. In parte per la curiosità che ha chi vive in un’isola. Non ci sono confini, né frontiere: per vedere cose nuove i giovani devono lasciare il continente. Qualcosa di simile a un rito di passaggio. E’ una vera impresa. Costosa e difficile. Molti ragazzi vanno via per un anno o due dopo le scuole. La maggior parte torna a vivere qui. Vedono il grande e vasto mondo e si accorgono che non è né così grande né così vasto”. C’è qualcosa di irrisolto in Australia, nella sua identità e nella sua collocazione nel mondo? ”Probabilmente. E’ una cultura giovane. Voglio dire che è nata due secoli fa. E cambia molto rapidamente. Creata da emigranti, con continue ondate di nuovi arrivi, si reinventa continuamente. E’ mobile. Una generazione fa, quando l’ Australia era ancora molto legata alla Gran Bretagna, esisteva una mentalità più vicina all’irresolutezza di cui lei parla. Uno strano e aggressivo complesso di inferiorità, una xenofobia coloniale, un mimare i modi anglo/europei. Artisti e scrittori di una generazione fa spesso lasciavano l’Australia e non tornavano più. Si sentivano in uno stagno provinciale. Ma le cose sono molto cambiate. Adesso poi, con l’informatica anche un’isola dell’Oceano Indiano non è più “lontana”. Comunque gli australiani, a cui è rimasto un lato cupo, cinico che credo abbia le sue radici nei progenitori deportati dall’Inghilterra, continuano a parlare dell’illusoria identità australiana. Ma è un po’ come parlare del tempo. Un’abitudine”. E l’Asia, è possibile un rapporto profondo, con chi vi è più vicino? ”Credo che una nostra identificazione con la società asiatica non sia così impossibile. Dal tempo della politica razzista delle generazioni precedenti e dalla guerra con i giapponesi che codificò una serie di pregiudizi sulla cultura orientale, il cambiamento è notevole. L’ Australia è ogni anno meno europea. Ci siamo mossi dall’allineamento all’Inghilterra verso gli Stati Uniti fino dagli anni Quaranta e tra non molto diverremo sostanzialmente asiatici, anche nella composizione etnica. Del resto non mi sono mai sentito europeo. Siamo un ibrido, lontani eppure in mezzo”. Cos’è l’uniqueness, l’orgogliosa unicità australiana di cui si parla? ”Non so. Un paesaggio australiano è unico. La flora e la fauna anche. Penso che gli australiani oggi siano più spesso influenzati dal paesaggio che dalla cultura. Se c’è un patrimonio australiano speciale allora questo è il senso dello spazio. Credo che gli italiani, per esempio, siano più influenzati dall’architettura che dalla natura. L’Australia invece è grande come gli Stati Uniti e ha solo 17 milioni di abitanti. ”Nella uniqueness c’ è anche la mateship: in passato il repertorio maschile della mateship, dell’essere camerateschi, era importante. Veniva dal sindacalismo, la guerra, e forse anche dalle origini carcerarie della nazione. Ma sta scomparendo. Anche se ha ancora un potere nostalgico”. Robert Hughes nella Riva fatale dice che gli australiani non hanno mai veramente accettato la loro origine di colonia inglese fondata dai prigionieri. ”Per la generazione di Bob Hughes poteva essere vero. Ma lui se ne è andato 50 anni fa! Per un lungo periodo ci si è vergognati dei nostri padri. Ora qualcuno se ne vanta – quasi una snobberia! Quel passato di deportati, in parte spiega l’antico senso di inferiorità di cui parlavo prima. Lo si nascondeva per paura di non apparire rispettabile. Ma parte della società lo ricordava, insieme alle ingiustizie, la crudeltà, l’alterigia, il sistema classista inglese inflitto alle vittime. Questo spiega la vena antiautoritaria, il cinismo rispetto alla politica, il risentimento per l’ Inghilterra”. Il suo libro inizia e finisce con la ricerca della pace dell’anima in Irlanda. E’ un’allusione alla parte irlandese e ribellistica della genesi australiana? ”No, davvero no. Scully non ha un rapporto nostalgico con l’ Irlanda. E’ solo un posto dove atterra (si schianta, sarebbe meglio dire). A parte il clima, l’Irlanda è un luogo facile per uno come Scully. Parla la lingua. E’ più rilassato qui che in Inghilterra, più protetto che negli States. Ho vissuto in Irlanda per un po’. Mi piaceva. E non credo di avere antenati irlandesi. I miei progenitori di 200 anni fa erano probabilmente negozianti inglesi felici di vedere deportati gli irlandesi. C’è, comunque, qualcosa nell’anima celtica che ci corrisponde, lo spirito, il calore. A volte penso che l’Australia sia un incrocio tra Grecia e Irlanda. Con un po’ d’America mischiata con l’Asia”. A lei sembra che l’Australia sia più multiculturale, britannica o piuttosto legata all’America? ”Multiculturale. Anche se la parola mi lascia perplesso. Ha un suono religioso. Come tutte le culture migratorie, è un misto. Divertente, confusionaria, caotica, piena di speranze. Penso insomma che sia più variegata di quanto si pensi. Ad esempio i miei tre figli a scuola fanno parte di una minoranza anglosassone. I loro compagni sono soprattutto italiani. Ci sono dei rifugiati croati. Molti salvadoregni e nicaraguensi, o cileni o filippini o vietnamiti. Fuorché i miei ragazzi, sono tutti cattolici. In qualche modo funziona”. Del recente voto australiano che riconferma il potere della corona britannica che ne dice? ”Sono rimasto malissimo. Gli australiani non sono riusciti a mettersi d’accordo su un modello costituzionale repubblicano. Una vergogna: la maggior parte non desidera davvero stare sotto la Regina d’Inghilterra”. Gli aborigeni, che importanza hanno? ”Sono enormemente importanti. Occupano gran parte del dibattito politico. Finalmente si è iniziato a vedere negli aborigeni i primi australiani; ed anche ad avere l’ onestà di riconoscere il terribile trattamento che gli fu riservato durante e dopo il periodo coloniale. Adesso la loro arte va di moda e la loro presenza è più forte, ma il problema è irrisolto”. Tra poco l’Australia, con le Olimpiadi, starà sotto i riflettori di tutto il mondo. Lo considera un evento positivo? ”Delle Olimpiadi già non ne posso più. Amo lo sport ma questo mi sembra un business così artificiale”. Nel leggere il suo libro non si può evitare di sentire un forte senso di estraneità, forse anche di antipatia per gli europei. E’ così? ”No, non credo. Le risposte emotive di Scully non sono le risposte del paese né di un’etnia. Scully è in uno stato psicologico estremo, per metà fuori di testa. La preoccupazione lo rende sospettoso, paranoico. Ma è un suo modo di essere. Scully cerca disperatamente sua moglie, le sue capacità diplomatiche sono a zero. Forse, anche lui è guardato male. Gli abitanti del Vecchio Mondo sono abituati a una sorta di creanza che Scully non trasmette. Non rende mai le cose facili né a se stesso né agli altri. Così, non si tratta di ostilità. Si sente piuttosto un outsider: gli australiani hanno la pelle bianca e tratti europei, ma non sono europei. A volte mentre viaggiano questo fatto li sorprende, così come sconcerta le persone che incontrano”.

I cavalieri - RASSEGNA STAMPA

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