Georges Didi-Huberman

Il gioco delle evidenze

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La dialettica dello sguardo nell'arte contemporanea

Collana:
Numero collana:
171
Pagine:
227
Codice ISBN:
9788881129034
Prezzo cartaceo:
€ 27,00
Data pubblicazione:
25-01-2008

Traduzione di Cinzia Arruzza

L’uomo e l’opera d’arte, chi vede e chi è visto: due posizioni che non sembrano intercambiabili. Eppure, nell’arte contemporanea, potrebbe non essere così.

Quel che osserviamo ha valore – ci colpisce, ci parla – perché ci riguarda. E se questo è vero, come pensare oggi le implicazioni estetiche, psicologiche, etiche dell’atto di guardare? Georges Didi-Huberman, uno dei più importanti teorici francesi contemporanei, individua nei “guardanti” due atteggiamenti opposti ed egualmente insufficienti: uno sempre pronto a credere, come l’apostolo davanti alla tomba di Cristo, che quanto ha di fronte agli occhi conduca a un piano posto oltre la visione stessa; l’altro ancorato all’apparente evidenza di ciò che si guarda, alla tautologia, al “ciò che si vede è ciò che si vede” e basta. Posizioni opposte e inconciliabili, che l’autore rintraccia nella storia dell’arte ma anche nella tradizione letteraria (dal Processo di Kafka all’Ulisse di Joyce). Per superare questa dicotomia occorre allora immaginare un modo di guardare che non crede a ciò che vede ma neppure si limita alla pura esaltazione della superficie. Per confrontarsi con il movimento dialettico tra apparenza e profondità che abita ogni immagine, l’autore sceglie di misurarsi con un’opera che rappresenta un “grado zero” dell’iconografia, forse la creazione più essenziale che la scultura contemporanea abbia offerto: il grande cubo nero dell’artista americano Tony Smith. È davanti a quest’oggetto – al suo potere di fascinazione, alla sua inquietante alterità, alla sua potenza – che si può ripensare il rapporto tra la forma e la presenza, la prospettiva temporale che vi appare, la distanza che ci impone. Dando una nuova lettura dell’arte minimalista e dei problemi teorici ed etici che essa ha sollevato, Didi-Huberman propone nel volume un’originale antropologia dell’immagine e un appassionante esame dei rapporti vivi fra l’opera e chi la guarda.

«Didi-Huberman è oggi il più significativo filosofo e storico dell’arte europeo».
Marco Belpoliti, «TTL – La Stampa»
 
«Forse nessuno negli ultimi anni ha cambiato il concetto di storia dell’arte quanto Georges Didi-Huberman».
Giuseppe Montesano, «L’Unità»
 
«I suoi studi incrociano la storia dell’arte con la filosofia e la psicanalisi nello sforzo di circoscrivere con la parola quel che sempre le sfugge: il campo del visuale».
Andrea Pinotti, «il manifesto»
 
«Nell’attuale dibattito sullo statuto dell’immagine, la riflessione del filosofo e storico dell’arte francese ha svolto e svolge un ruolo importante».
Giuseppe Di Liberti, «L’indice»

IL GIOCO DELLE EVIDENZE – RECENSIONI

 

Bruno Roberti, FILM CRITICA
– 01/10/2008

 

Soglie e contatti

 

 

 

Anna Li Vigni, IL SOLE 24 ORE
– 19/10/2008

 

Tutta la vita in un cubo nero

 

 

 

Susanna Baumgartner, FUORIMARGINE.BLOGSPOT.COM
– 19/09/2008

 

Didi-Huberman e la dialettica dello sguardo

 

Fuorimargine.blogspot.com

 

Se vedere è perdere, perché resti la traccia di una somiglianza perduta a ricordarci che qualcosa ci sfugge in maniera ineluttabile, l’immagine avrà una capacità svuotante. È la premessa da cui muovono le riflessioni sull’arte contemporanea di Georges Didi-Huberman in Il gioco delle evidenze (226 pagine, 26,50 euro, Fazi). Si avrà quindi la presenza di un’assenza nel punto d’inquietudine tra diastole e sistole, tra un fuori e un dentro. Bisogna quindi inquietare il nostro vedere, elaborando una perdita in cui esploda il visibile. Ci vuole un potere dello sguardo prestato al guardato dal guardante. Benjamin descriveva questa esperienza: «Avvertire l’aura di una cosa significa dotarla della capacità di guardare» in «un singolare intreccio di spazio e tempo», di «apparizioni uniche di una lontananza, per quanto questa possa essere vicina».

In questa distanza che ci guarda e ci tocca, vi è un potere della memoria, «memoria involontaria». Quando siamo improvvisamente toccati da qualcosa che vediamo, ci apriamo a una dimensione essenziale dello sguardo, che nella profondità trova lo spazio che si dà. Si dà, come sempre, in disparte, creando uno spaziamento. Si tratta quindi di superare la falsa opposizione di presenza e assenza e di lasciare che la presenza venga abbandonata al lavoro della cancellazione, al momento differenziale o différent che la costituisce e la supera. Il lavoro del suo spazializzarsi, del suo temporalizzarsi.

Nel farsi dello sguardo, vi è l’esigenza di pensare la forma come un processo di deformazione o la figura come il processo dello sfigurare. Il luogo dove vedere è perdere e in cui l’oggetto della perdita ci riguarda, è il luogo del perturbante (das Unheimliche) che sembra rispondere a ciò che Benjamin cercava di intendere con il carattere «strano» (sonderbar) e «singolare» (einmalig) dell’immagine auratica.

L’Unheimliche freudiano manifesta questo potere del guardato sul guardante degli oggetti auratici. L’oggetto unheimlich ci attrae verso l’ossessione, mescolando attrazione e angoscia, perché l’esperienza del perturbante ci espone al rischio di non vedere più. Si è fatta l’esperienza di un’apparizione strana, unica, di qualcosa «che avrebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e che invece è affiorato» (Schelling).

Il perturbante disorienta. Non sappiamo più esattamente ciò che è davanti a noi e ciò che non lo è, e se il luogo verso cui ci dirigiamo sia dentro. Il disorientamento del nostro sguardo ci separa dall’altro e da noi stessi, in noi stessi. Siamo quindi minacciati dall’assenza. Questa scissione aperta in noi da ciò che vediamo, da ciò che ci riguarda, ci mostra una soglia governata da una legge misteriosa. Ci troviamo tra un davanti e un dentro. È necessario il tempo, tutto il tempo, per questa dimensione atemporale di eterna porta o soglia da varcare.

Se chiamiamo immagine l’oggetto del vedere e dello sguardo, davanti all’immagine ciascuno sta come davanti a una porta aperta nel quadro della quale non si può entrare. Di fatto noi portiamo lo spazio per mezzo della carne, come elemento non percepito, fondamentale, di tutte le nostre esperienze sensoriali o fantasmatiche. E questo spazio può apparire solo nella dimensione di un incontro, in cui lo si libera dai limiti, lo si separa dal qui, dalla prossimità visibile, e nello stesso tempo si presenta un , una distanza che “apre” e lascia apparire.

Il luogo dell’immagine può essere colto attraverso le esperienze dialettiche dell’aura o del perturbante che si aprono a noi e finiscono per aprirsi in noi, incorporarci. La soglia, è una soglia interminabile di attese e folgorazioni senza fine, tra una memoria e un’aspettativa, tra ciò che un giorno ha conosciuto la fine e ciò che un giorno vedrà la fine. Ogni immagine è una soglia che apre il suo fondo, ma ritirandolo, ritirandosi, ma attraendoci. Attraverso di essa, il nostro sguardo può ricongiungere un lutto e un desiderio, in un tempo per sentirsi perdere tempo, per perdere se stessi.

 

Irene Tedesco, EXIBART
– 01/05/2008

 

l’arte che ci ri-guarda

 

 

 

EXIBART
– 21/04/2008

 

Il gioco delle evidenze

 

 

 

Alberto Cellotto, CHECKOUT
– 17/04/2008

 

IL SAGGIO

 

IL SAGGIO

 

 

 

 

 

Georges Didi-Huberman, Il gioco delle evidenze. La dialettica dello sguardo nell’arte contemporanea, Fazi, 2008, pp. 226, € 26,50

 

 

 

Se girare per mostre d’arte vi appassiona, ecco allora un libro che scuoterà irrimediabilmente la vostra relazione con il mondo delle immagini. Il titolo e il sottotitolo scelti per l’edizione italiana possono solamente cercare di sciogliere il fecondo gioco di parole del titolo francese  “Ce que nous voyons ce qui nous regarde”, il quale gioca apertamente sull’ambivalenza del “nous regarde” che può voler dire sia “ci guarda” sia “ci riguarda”.

 

Georges Didi-Huberman, forse il più importante storico d’arte e filosofo del visivo che la contemporaneità offra, ci presenta una nuova fase della sua riflessione sull’esperienza visuale nella quale registriamo un’attenzione particolare alle implicazioni etico-estetiche e psicologiche dell’atto del guardare. Credenza e tautologia, questi sono i due atteggiamenti estremi e entrambi insufficienti di chi guarda: da un lato chi va oltre l’immagine per credere a qualcosa che sta in un piano retrostante e dall’altro chi si ferma alla superficie, alla mera evidenza delle cose (atteggiamento sintetizzato dall’espressione secca “quello che vedi è quello che vedi”). Il superamento della dicotomia è la sfida che si pone l’autore con questo saggio e il grande cubo nero di Tony Smith è l’opera d’arte contemporanea che offre gli spunti più interessanti per lo sviluppo del suo ragionamento, grazie al forte valore iconico di questa e alla sua rilevanza nell’ambito della minimal art.

 

Georges Didi-Huberman ripensa al rapporto tra forma e presenza, ridefinisce nuovamente il concetto di “aura” teorizzato da Walter Benjamin nel suo fondamentale L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ritorna sulla dialettica tra vuoto e pieno e consegna nelle nostre mani un libro che sa dirci molto dell’ambigua relazione che intratteniamo con le onnipresenti immagini della nostra vita (e non necessariamente solo con quelle di ambito artistico), con qualcosa che ci riguarda costantemente da vicino.

 

FLASH ART
– 01/05/2008

 

Il gioco delle evidenze

 

 

 

Giuseppe Montesano, L’UNITÀ
– 22/03/2008

 

Quando un bel quadro ci lascia senza parole

 

 

 

Raffaele Manica, IL MATTINO
– 17/03/2008

 

L’inconscio dell’immagine

 

 

 

ARTE
– 01/03/2008

 

Ciò che ci riguarda

 

 

 

Giuseppe Amoroso, CORRIERE DELLA SERA
– 09/03/2008

 

Dialettica e giochi visivi

 

 

 

LA REPUBBLICA
– 09/02/2008

 

Il gioco delle evidenze

 

 

 

Attilio Scarpellini, DIFFERENZA.ORG
– 04/02/2008

 

Sguardi senza volto

Il teatro dell’aura di Georges Didi-Huberman

Differenza.org

 

Strano libro, Il gioco delle evidenze di Georges Didi-Huberman, appena tradotto da Cinzia Aruzza per Fazi – e pubblicato spalla a spalla con il corposo Postmodernismo di Fredric Jameson: da una parte esso parla di aura, questo concetto benjaminiano su cui il filosofo francese ha fondato gran parte della sua critica dell’immagine – e della sua idea di un’immagine critica, dialettica – dall’altra attraversa uno dei periodi dell’arte contemporanea, quello dalla scultura minimalista o letteralista americana, più segnato, in teoria e in apparenza, da oggetti irrelati, semplici, chiusi in se stessi. Modernisticamente orgogliosi della propria specificità e talmente privi di latenza – di interiorità – dal sottrarre la propria potenza volumetrica (per lo più si tratta di grandi cubi che vanno dalla più ottusa opacità alla più scoraggiante trasparenza) a ogni spazialità preconcetta e a qualunque equivoco di significazione: art without feeling dove si vede tutto quel che si vede (what you see is what you see come dice Donald Judd) e niente di più. Puro volume, mera tautologia: “davanti a essi – commenta Didi-Huberman – non ci sarà niente da credere o da immaginare perché non mentono, non nascondono niente, nemmeno il fatto di essere vuoti.” Questi oggetti visivi che corrispondono senza resti ai propri confini sospendono ogni capacità ulteriore di immaginare, risucchiandola nel loro muto ingombro, e dunque ogni possibilità di rimettere in gioco quel movimento dell’assenza nella presenza – del lontano nel vicino – che “inquieta la visione”, ritraducendo lo spazio nel tempo secondo la modalità dell’aura. Dal “Questa non è una pipa” di Magritte che sanciva l’autonomia della figurazione, nel mentre rompeva l’illusione identitaria della rassomiglianza, si passa al “Questo è un parallelepipedo di acciaio inossidabile…” dove è l’identità a farla finita con il sospetto della somiglianza, con l’analogia del visibile (con il testo…) e soprattutto, con l’antropomorfismo dell’icona. Ma, uccidendo preventivamente ogni alterità, proprio l’accento sulla certezza di quel che si vede porta la tautologia modernistica su un piano speculare alla raffigurazione fideistica dove la visione è sempre l’indizio di una certezza che invece non si vede. La tomba rappresenta il tramite figurale di questa specularità tra fede e tautologia: essa è il costantemente dischiuso nel suo svuotamento metafisico, con l’Angelo che accanto al sepolcro indica il cielo nella Resurrezione del Beato Angelico (una delle prime immagini proposte dal libro), o il disperatamente chiuso nell’ermetica evidenza dell’oggetto, il Coffin “senza titolo” realizzato nel 1971 da Joel Shapiro. Nell’alto dei cieli o six feet under – soggetto glorioso nella sua vittoria sulla materia o definitivamente offuscato dall’accecante potenza dell’oggetto: tra queste polarità “totalitarie” (nonché entrambe metafisiche) l’aura, e precisamente quel resto di aura che Walter Benjamin sentiva aleggiare anche tra le rovinose vestigia della modernità, riapre inaspettatamente una strada o come direbbe Didi-Huberman, una dialettica…Qualcosa fa vibrare l’inerzia sovrana delle opere della minimal art risoggettivando ciò che sembrava inizialmente refrattario a qualunque attraversamento linguistico: ciò che si dava a vedere senza offrire alcuno sguardo – senza voltarsi verso chi lo sta guardando poiché “avvertire l’aura di una cosa significa dotarla della capacità di guardare” (W. Benjamin). E questa movenza che risoggettivizza l’oggetto fino a trasformarlo in una specie di soggetto – una specie di volto o forse uno sguardo senza volto – nel percorso fenomenologico del Gioco delle evidenze prende il nome di teatro. Davanti al Black Box di Tony Smith, un’opera che nel 1961 inaugura la stagione minimalista, il critico Michael Fried reagisce con un moto di idiosincrasia: proprio nel suo tenere a distanza lo spettatore, dice, questo imponente cubo nero innesca una drammatizzazione impropria, un’esperienza non dissimile “da quella che consiste nell’essere tenuti a distanza o invasi dalla presenza silenziosa di un’altra persona.” Sotto le mentite spoglie di un’adesione “letteralista” all’oggettività si nasconde un nuovo genere di teatro e il teatro “è ora la negazione dell’arte”. Nella compiuta autoreferenzialità formale del modernismo artistico, il teatro è un anacronismo, una retorica che va stigmatizzata perché reintroduce un antropomorfismo, sia pure nelle fattezze di un difetto di umanità che si rovescia d’un colpo in una tragica presenza silenziosa. Fried si comporta come i filosofi speculativi che usano sprezzantemente la parola “letteratura” per liquidare gli eccessi di inquietudine del pensiero (e da parte nostra, teniamo da conto questa idea negativa di teatro come elemento di squilibrio dell’utopia formale del Novecento: quando non si può fare a meno dell’umano si “cade” nel teatro…) Ciò che Fried non sopporta, annota Didi-Huberman, è di essere toccato da qualcosa che per principio non lo dovrebbe toccare. Le opere di Smith e di Morris “gli danno letteralmente i brividi, come un colosso o un idolo cicladico darebbero i brividi a un iconoclasta: perché esse innescano un’efficacia fantasmatica che egli aborre, attraverso gli strumenti che egli adora, quelli aniconici della specicifità formale, della pura geometria.” C’è dunque un iconismo che dal più irreprensibile deserto della figurazione – dall’ascetica forma “semplice” che voleva rinunciare all’immagine – riaffiora per difetto, indicando l’umanità per dissomiglianze, “nel luogo stesso della sua mancanza, della sua sparizione”. E questo è precisamente il dramma. Ma c’è anche un gioco di reminescenze che dai giardini di acciaio Corten dei minimalisti americani arretra verso gli altrettanto enigmatici giardini di pietra di un passato millenario, tanto che Didi-Huberman non può resistere alla tentazione warburghiana di accostare un’immagine dei Ten elements di Tony Smith (1975-79) ad una dei Megaliti di Swinsde (periodo neolitico). Arcaismo? No, semplicemente l’attivazione di quell’ “arte della memoria necessaria a ogni opera per trasformare il passato in futuro”. Ovvero – del buon uso dell’aura per superare dialetticamente il dilemma tra fede e tautologia (tra nostalgia e modernismo) e ritrovare nel contemporaneo la contraddizione dell’ anacronismo, il tempo metastorico dell’immagine. Perché è nell’istante in cui il vicino appare come lontano – ferito dalla sua stessa perdita – che “il visibile esplode” e l’immagine ci guarda. In quel momento ce que nous voyons – come suona il titolo originale del libro – diviene ce qui nous regarde.Georges Didi-Huberman, Il gioco delle evidenze. La dialettica dello sguardo nell’arte contemporanea, trad. di Cinzia Aruzza, Fazi Editore, Roma 2008 pp. 226, Euro 26, 50

 

Andrea Cortellessa, TTL – LA STAMPA
– 02/02/2008

 

Diabolico Adolf, un colosso che rifiuta il suo autore

 

 

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