Gore Vidal

La fine della libertà

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Verso un nuovo totalitarismo?

Collana:
Numero collana:
34
Pagine:
128
Codice ISBN:
9788881123100
Prezzo cartaceo:
€ 13,00
Data pubblicazione:
01-03-2004

Traduzione di Laura Pugno

Ne L’età dell’oro (Fazi 2001), ultimo dei sette romanzi in cui ricostruisce criticamente la storia degli Stati Uniti, Vidal afferma che l’attacco “a sorpresa” su Pearl Harbor non era in realtà tale: Roosevelt infatti ne era a conoscenza in anticipo e l’aveva persino provocato. Ne La fine della libertà, una delle sue opere in assoluto più controverse e coraggiose, Vidal si domanda se lo stesso si possa affermare per quanto accaduto l’11 settembre 2001 a New York e a Washington: “Non è proprio come quella domenica mattina del 7 dicembre 1941?”. La risposta, dice Vidal, è no. Almeno, aggiunge, “per quanto ne sappiamo ora”. Quello che sappiamo ora, prosegue Vidal in un magistrale fuoco di fila di argomentazioni serrate e amaramente ironiche spesso al limite del paradosso e della provocazione, è che la tragedia delle Torri Gemelle ha accelerato drammaticamente un processo già in corso negli Stati Uniti negli ultimi anni: le libertà individuali garantite dalla democrazia americana, il cui fondamento costituzionale risale al “Bill of Rights” del 1791, hanno cominciato ad essere disattese con sempre maggiore frequenza in nome della lotta al terrorismo e alla droga. Uno dei casi più clamorosi si è verificato nel recente passato con l’attacco di Waco contro la setta religiosa dei davidiani, in cui 82 persone, tra cui 30 donne e 25 bambini, furono uccise dalle forze dell’FBI appoggiate dall’esercito. L’episodio di Waco spinse poi Timothy McVeigh a mettere una bomba a Oklahoma City causando la strage in cui morirono 168 persone. Da oggi in poi, per combattere Osama bin Laden e il terrorismo arabo, il “Bill of Rights” potrebbe essere definitivamente messo da parte con conseguenze difficilmente immaginabili: “una volta alienato”, avverte Vidal, “un “diritto inalienabile” può essere perso per sempre, nel qual caso non saremmo più, nemmeno lontanamente, l’ultima e migliore speranza della terra ma solo uno squallido stato imperiale la cui maggiore preoccupazione è tenere a bada i suoi cittadini e il cui stile di morte, e non di vita, viene imitato da tutti”.

LA FINE DELLA LIBERTÀ – RECENSIONI

 

Paolo Conti, CORRIERE DELLA SERA
– 09/10/2008

 

Polemiche

 

 

 

Alberto Pellegatta, LA PROVINCIA DI COMO
– 11/09/2006

 

L’altra faccia della difesa: la libertà è entrata in crisi

 

 

 

Le ceneri della Repubblica, LEFT
– 07/09/2006

 

Luca Bonaccorsi

 

 

 

Tommaso Debenedetti, GAZZETTA DI PARMA
– 01/12/2001

 

Cieli di piombo sull’America, intervista con Gore Vidal

 

“Dall’11 settembre la letteratura mi interessa molto poco. Non riesco a parlare di altro che di quanto sta accadendo negli Usa e nel mondo”. Il celebre narratore americano Gore Vidal spiega così le ragioni che lo hanno spinto a scrivere, in poco più di due mesi, il libro –pamphlet uscito da pochi giorni dal titolo “La fine della libertà”. Si tratti di un’analisi durissima, a tratti spietata, della società e della politica americana dopo il crollo delle Torri Gemelle. Vidal, nel volume, sostiene una tesi di fondo: le stragi di New York e di Washington hanno rappresentato l’occasione, colta immediatamente da Bush e dai suoi collaboratori, per mettere definitivamente il bavaglio alle principali libertà dei cittadini statunitensi (dalla privacy ai media), e per riaffermare attraverso un “conflitto stupido” il predominio sul mondo.
Affermazioni, come si vede, durissime, che già hanno cominciato a suscitare, in America e in Europa, un vivace dibattito.
Gore Vidal, lei sembra innanzi tutto voler negare che quella in corso in Afghanistan sia una vera e propria guerra, perché? – gli chiediamo –
“Non è una guerra, anche se a Bush fa comodo chiamarla così. Siamo di fronte ad un fatto nuovo nella Storia: cioè la lotta di una grandissima potenza imperiale, gli Usa, contro un privato, ance se pericolosissimo cittadino, Bin Laden, e contro la sua banda di seguaci. Non c’è alcun appiglio giuridico per parlare di guerra. Detto questo aggiungo che il problema non sta, purtroppo, solo nelle parole o nelle definizioni”.
Dove sta allora?
“Sta nel fatto che in questo scontro assurdo, tanti civili innocenti in Afghanistan vengono uccisi dalle bombe mandate da Bush e dalla sua Amministrazione. Un fatto orribile, vergognoso”.
Non si poteva lasciare impunito un terrorismo che, l’11 settembre aveva fatto migliaia di vittime…
“Ma gli afghani non sono un popolo di terroristi, e invece li stanno massacrando”.
Come si sarebbe dovuto fare, secondo lei, per cercare di fermare il terrorismo?
“Non certo bombardando l’Afghanistan. Semmai, ci sarebbe voluta un’operazione di polizia sotto la guida dell’Onu, o una guerra di intelligence. Purtroppo, dietro quello che gli Usa stanno facendo, non c’è solo il nobile intento di battere il terrorismo.”
Quale altro intento le sembra di vedere?
“Gli Stati Uniti, non da oggi, sono in una crisi economica piuttosto pesante, e a loro non sembra vero poter mettere le mani sulle vie del petrolio. Inoltre, tutti sanno che un conflitto (così lo vogliono far sembrare) riattiva l’industria bellica, giustifica gli enormi investimenti militari voluti da Bush e dall’uomo più potente di Washington, il generale Colin Powell. Ecco i veri motivi di questo scontro: soldi, petrolio, armi”.
Non avrà per caso, Vidal, qualche simpatia verso Bin Laden?
“No, assolutamente. Ho detto più volte che quanto è accaduto alle Torri è un atto folle, criminale, che nessuno potrà mai giustificare. Certo gli usa, con la politica aggressiva portata avanti per decenni nel mondo, prima o poi dovevano aspettarsi qualcosa di simile. Quanto a Bin Laden, credo si tratti di un perfetto occidentale, un capitalista folle che conosce i mezzi di comunicazione. Un uomo cui interessano solo i soldi e il petrolio, e cui non importa nulla di Allah. Dispiace vedere che tanti islamici non si siano accorti di questo suo enorme bluff.”
Lei afferma, nel libro, che in America le libertà dei cittadini sono a rischio, e che gli attentati dell’11 settembre sono stati solo l’occasione per avviare un “nuovo totalitarismo”. E, in molti suoi scritti, lei aveva parlato di crisi dell’”impero americano”. Il totalitarismo sarebbe dunque un modo di reagire alla crisi?
“Certamente. Il controllo del governo sui cittadini diviene più forte, e quasi parossistico, quando le difficoltà e i motivi di crisi aumentano. E quanto sta avvenendo oggi è il risultato di una fase calante che, per l’America, dura da decenni. Da almeno un cinquantennio l’impero americano, nonostante la sua forza politica e militare, è in declino. E la crisi è dovuta non soltanto all’economia, che ha avuto alti e bassi, ma all’assenza di qualunque coesione fra il potere e gli uomini di cultura. La leadership intellettuale è del tutto inascoltata, si susseguono presidenti mediocri, da Truman in poi. Ma un impero governato senza intelligenza e senza cultura è destinato a crollare, nonostante le armi, l’espansionismo, il denaro, nonostante, per tentare di resistere, voglia ora mettere sotto sorveglianza speciale ogni cittadino e imbavagliare stampa e TV in nome di una finta guerra.”

 

Erica Jong, CORRIERE DELLA SERA
– 12/11/2002

 

«Riponete le bandiere, la città torni a insegnare la libertà»

 

C’è una storia che circola a New York sulla mattina del disastro al World Trade Center. La moglie chiama sul cellulare il marito e gli chiede: «Dove sei?» «In ufficio, naturalmente». «Il tuo ufficio è appena crollato per un attacco terroristico». Lui rimane in silenzio, steso sul letto di una camera d’albergo con l’amante. «Pronto?» prosegue la moglie. «Pronto?» Da dove venga questa storia non lo so, ma mio marito, che si occupa di sentenze di divorzio, dice che dall’11 settembre i divorzi a New York sono in aumento. Sembra che la minaccia di un’Armageddon renda la gente molto meno tollerante. Alcuni psichiatri infantili mi informano che dall’11 settembre i bambini newyorchesi sono decisamente più ansiosi e nessuno sa veramente come rassicurarli. Una coltre d’ansia è calata sulla città. Stiamo tutti aspettando il prossimo attacco, augurandoci che qualcuno abbia avuto qualche idea su come impedirlo. In assenza di «informazioni credibili», ci siamo avvolti nella bandiera. Bandiere di dimensioni normali, bandiere mini, decalcomanie di bandiere: sono spuntate in tutta la città. Modelle, modaioli e persino travestiti si fanno fotografare con addosso abiti-bandiera. «QUESTI COLORI NON SBIADISCONO» dice la scritta di una t-shirt molto in voga.
Bandiere e facsimile hanno su Osama Bin Laden lo stesso effetto dell’aglio su Dracula, ma ciò non impedisce alla gente di esibirle. Ne esibirei una anch’io se fossi meno cinica. Se anche non aiuta, non fa danni. Il desiderio di bandiera è il desiderio di un amuleto che ci faccia sentire invulnerabili come ci sentivamo prima. Vogliamo indietro la nostra innocenza.
Ho sempre abitato a New York e non l’ho mai pensata come una città invulnerabile. Ho sempre fantasticato di una New York abbattuta da bombe nucleari, inondata dalla piena del mare, distrutta da meteore se non da terroristi. Ho sempre saputo che la nostra grandeur poteva svanire. Mi è sempre stato facile immaginare un cratere al posto di New York City. Oggi riescono a immaginarselo anche gli altri.
Ma, come ha detto La Rochefoucauld: «Né il sole né la morte si possono guardare fissamente», per cui andiamo avanti con le nostre vite. Quando salgo sull’autobus, prima mi guardo intorno alla ricerca di attentatori suicidi poi scaccio in fretta le immagini di distruzione. Quando mi siedo a teatro, prima individuo le uscite di sicurezza. Allora: è cambiata New York dopo l’11 settembre? Sospetto di sì, ma meno di quanto sostenga la gente. Una cosa sicuramente è cambiata, e non in senso incoraggiante. E’ enormemente diminuita la nostra capacità di tollerare il dissenso. Insieme all’orgia di patriottismo acritico è arrivato il soffocamento della discussione. Così come ha spento qualsiasi critica alla presidenza di George W. Bush, l’attacco all’America ha riscritto la reputazione di Rudy Giuliani.
Vedendo che chi aveva sempre criticato con asprezza New York si stava trasformando in amplificatore patriottico, ho cominciato a capire perché le alte sfere hanno bisogno di guerra. La guerra fornisce una scusa perfetta per soffocare il dibattito. Quegli stessi opinionisti che insistevano rumorosamente sul diritto che gli dava il First Amendment di criticare la vita sessuale di Bill Clinton, adesso sostengono che si debba sacrificare la libertà di parola in nome della sicurezza pubblica. Non mi sarei mai aspettata di arrivare al giorno in cui in America la parodia e la satira sarebbero state minacciate, ma sembra che ci siamo. La disinvolta presa in giro della presidenza, alla quale ci eravamo abituati durante l’amministrazione Clinton, è stata imbavagliata dopo l’11 settembre. E’ stata una vera fortuna per George W. che gli attacchi terroristici siano capitati durante il suo turno.
Il cuore dell’America non è puro, ma è grande. Quando sento criticare il mio Paese dall’estero sobbalzo. Quando sento che ci siamo meritati l’11 settembre mi acquatto per la paura. L’America ha provato cose contraddittorie – essere una grande potenza e nello stesso tempo una società aperta – e non ce l’ha fatta. Ma l’aspirazione a farle entrambe è meritevole anche se donchisciottesca.
E’ ora di finirla di avvolgerci nella bandiera e piangere ai memorial: è il momento di ricordare che a far grande questo Paese è stata la sua combattività. Mentre bolliamo a fuoco lento in un mare di lacrime, stiamo rinunciando proprio a quello spirito che ha fatto grande il nostro Paese. Come ha scritto Gore Vidal in risposta all’11 settembre, «il terrificante danno fisico che Osama e compagnia ci hanno fatto il Dark Tuesday non è nulla in confronto al colpo di grazia inferto alle nostre libertà che si dileguano».
Conseguenza dell’11 settembre è stata una dura lezione in fatto di manipolazione dell’opinione pubblica da parte governativa. Ci stanno preparando a una guerra infinita con un nemico indistinto. A beneficiarne è soltanto il complesso militare-industriale. E oggi la censura è quasi totale. Non è quindi un compito da niente portare alla luce le informazioni che servono per scuoterci dal nostro torpore. L’anniversario dell’11 settembre dovrebbe essere una sveglia per l’America. Altrimenti, potremmo non svegliarci mai più.

 

Carlo De Biase, GAZZETTA DEL SUD
– 27/11/2001

 

Clinton e Bush “colpevoli” del tramonto delle libertà

 

Fragili e drammaticamente in pericolo dagli anni Settanta, le nostre libertà hanno ricevuto il colpo di grazia con il crollo delle Torri Gemelle. Gore Vidal, ci mette di fronte a questa realtà, con coraggio e con il suo stile serrato e amaramente ironico, nel suo nuovo libro, quattro saggi di cui uno inedito, il primo, che i giornali americani si sono rifiutati di pubblicare. “Lo spaventoso danno fisico – afferma Vidal in questo saggio intitolato L’undici settembre e dopo – che Osama e compagnia ci hanno provocato, durante il Martedì delle tenebre, non è nulla in confronto al doppio colpo da ko inflitto alle nostre libertà in via d’estinzione: l’Anti-terrorism Act nel 1991 e la recente richiesta al Congresso di poteri speciali supplementari”. L’intervento di Vidal continua: “Segnali infausti che le nostre fragili libertà fossero drammaticamente in pericolo si sono avvertiti sin dagli anni Settanta, quando l’Fbi si trasformò, da un corpo di “generalisti” in giacca e cravatta, esperti di giurisprudenza e di economia, nell’aggressivo SWAT (Special Weapons And Tactics, “tattiche e armi speciali”), un esercito di guerrieri tipo berretti verdi, in tuta mimetica, abiti ninja e, durante alcune missioni segrete, buffi occhiali da sci”.
Nella sua impietosa analisi del destino dell’America, Vidal non ha parole da tenere per Bush e il suo staff, ma afferma che “colpevole in modo particolare è Bill Clinton”. Anche se è stato – sottolinea – il più abile capo dell’esecutivo dai tempi di Roosevelt, Clinton, nel suo frenetico inseguimento delle vittorie elettorali, ha caricato il grilletto di uno stato di polizia che il suo successore adesso è ben felice di premere”. Nel saggio c’è anche un sintetico, ma incisivo ritratto di Osama Bin Laden e un’analisi di come il mondo islamico sia stato demonizzato dai media americani. Il processo di involuzione dell’America è raccontato anche negli altri tre saggi di “La fine della libertà” che nel sottotitolo si pone una domanda: stiamo andando “verso un nuovo totalitarismo?”. Per rispondere Vidal ripercorre “Il massacro dei Dieci Emendamenti” della Costituzione Americana, racconta ne “Il significato di Timothy McVeigh” l’attacco di Waco contro la setta religiosa dei davidiani e la successiva strage di Oklahoma City in cui morirono 168 persone e infine parla de “I nuovi teocrati” che si muovono in “una repubblica imperiale moderatamente caotica che sta per uscire di scena”.

 

Francesco Durante, CORRIERE DEL MEZZOGIORNO, INTERVISTA
– 07/12/2001

 

Gore Vidal: “Che profeta quel Vico!”

 

Polemizzando sulla guerra in Afghanistan. Gore Vidal scrive che l’amministrazione Bush “sinistramente incapace in tutto ciò che non rientra nel suo compito principale, cioè esentare i ricchi dalle tasse, ha fatto carta straccia della maggior parte dei trattati sottoscritti dalle nazioni civili”; e si dichiara d’accordo con l’affermazione di Edward S. Herman, secondo cui “uno dei tratti più durevoli della cultura statunitense è l’incapacità e il rifiuto di riconoscere i crimini commessi dagli Stati Uniti”. Se Vidal fosse italiano, qualcuno gli darebbe del paleocomunista. Ma siccome, malgrado tutto, è un paradossale patriota americano, oltre che un grande scrittore, succede soltanto che in America nessuno gli voglia pubblicare quello scritto: e che esso, invece, sia edito prima in Italia. E’ “L’11 settembre e dopo” che apre la silloge “la fine della libertà”, urticante e anticonformista come sempre, la cui tesi è che le garanzie democratiche, già periclitanti per via delle deroghe richieste per la lotta al terrorismo interno e alla droga, siano prosciugate da un nuovo totalitarismo nel nome della crociata anti Bin Laden. Che, lo si sarà capito, per Vidal è una follia: l’ennesima di un lunghissima serie imperiale aperta nel ’48 dal ponte aereo di Berlino.
Lei dice: gli americani non si domandano perché le cose succedano, preferiscono accusare gli altri. E’ sempre stato così?.
E’ così da una cinquantina d’anni, dai tempi della dichiarazione di guerra alla Corea e della simultanea militarizzazioni dell’economia da parte del presidente Truman. Con Eisenhower il processo è andato avanti fino a generare una situazione in cui per dirla con il grande storico Charles Beard, abbiamo avuto bisogno di una guerra perpetua per garantirci una pace perpetua. Tutto questo fa si che la pubblica istruzione americana, che si occupa di fisica – di bombe – più che di studi umanistici, sia incapace di insegnare i perché, gli storici abbiano paura di offendere il governo, e ai media abbiano il compito di eccitare l’opinione pubblica. Nel suo ultimo discorso prima di uscire di scena, perfino Eisenhower lo riconobbe ammonendo il paese su questo pericolo. .
Prima di cinquant’anni fa era diverso?.
La mia generazione ha ricevuto una buona educazione. Ho studiato in scuole private, ma so che quelle pubbliche erano all’altezza. Insegnavano il latino. E Shakespeare. Cosa che non fanno più.
Pure, leggendo i suoi libri si ha come l’impressione di una più lontana nostalgia che risale ai tempi dei padri fondatori, a una sorta di ordinata, germinale anarchia americana, con un’enfasi particolare sulle libertà dell’individuo…
Quella dei padri fondatori era più un’oligarchia – dei proprietari terrieri bianchi – che un’anarchia…però sì, era protesa verso un’estensione della democrazia. Era precisamente liberal. E si può avere nostalgia per quell’atteggiamento.
In un saggio lei spiega le “ragioni” di Tim McVeigh, che nel ’95 lanciò un’autobomba contro un edificio governativo a Oklahoma City uccidendo 168 persone. Un gesto per rispondere al massacro dei davidiani compiuto nel ’93 dall’Fbi a Waco. Ora, certe posizioni di McVeigh sembrano essere anche quelle di molti gruppi paramilitari americani di ispirazione neonazista. Non c’è una contraddizione?
McVeigh non era un nazista. Né razzista o sessista. Aveva un senso esagerato della giustizia, vedeva le colpe del governo nei confronti dei cittadini. Waco per lui fu scatenante: vedere metodi militari applicati contro i civili, una polizia che invece che di mantenere l’ordine si preoccupa di uccidere…Militarizzare la polizia è come dichiarare guerra ai cittadini. No, i neonazisti non la pensano come lui.
Lei dice: meglio dell’intervento in Afghanistan sarebbe stato “servirsi del buon Kofi Annan”, cioè dell’Onu. Sarebbe stato sufficiente?
E poi fare un’azione di polizia, non la guerra. Voi in Italia che cosa avete fatto quando Dalla Chiesa è stato ucciso? Per caso vi siete messi a bombardare Palermo? C’era ben altro da fare invece della guerra. La quale, tra l’altro, ci procurerà alcuni nuovi milioni di nemici.
Eppure le sorti del conflitto sembrano volgere al meglio, e gli alleati dell’America sono tanti, anche tra gli Arabi…
Gli Arabi? Se ne stanno lì ad aspettare. La maggior parte dei loro governi sono stati messi in sella dagli Stati Uniti, che gli fanno da guardia del corpo. Pensi ai sauditi. Osama poteva colpirci da quelle parti, ma sarebbe stato blasfemo, ed è venuto a colpirci a casa. Il fatto è che quei popoli non sono mai stati consultati al riguardo: ci subiscono, i loro governi sono nostri impiegati. Di certo, la guerra è popolare. Ma poi: stiamo veramente vincendola? Io non penso che dovremmo credere a quello che ci dicono i nostri media: sono pagati per mentire su tutto. Accendi la tv, c’è Rumsfeld che a Washington ti mostra una foto e dice che quello è quanto sta succedendo a Kabul. Una commedia. Non avremo mai un’informazione su ciò che veramente succede. E questo non da oggi. Non c’è un solo storico che possa raccontarci che cos’è successo nella guerra del Golfo.
Comunque, la caduta di Kandahar sembra prossima. Che cosa accadrà dopo?
Belle cose, no. Avremo l’ostilità della popolazione. Almeno potevamo comprarci qualche capo. L’impero romano, o anche la mafia, avrebbero fatto così. Certo sarebbe costato un po’.
Nel saggio sui “Nuovi teocrati” lei cita Vico, non il massimo della popolarità in America. Come l’ha conosciuto?
Tanti anni fa! E a Napoli, ovviamente. Leggendo Croce. Quella storia dei corsi e dei ricorsi: che gran profeta!
Gli Usa in che fase vichiana sono?
Siamo nel Caos e viaggiamo verso la teocrazia. Nella Democrazia ci siamo stati solo formalmente: l’impero è cominciato nel 1898 con la guerra ispano-americana, e ha avuto successo perché già nel 1950 era diventato mondiale. Ora andiamo verso la forma teocratica, basta sentire il manicheo Bush quando parla del “Beene” e del “Maaaale” (la voce si incupisce, le vocali si allungano in una imitazione dell’accento texano, ndr.).
E Israele?
Un tempo, quando nel ’48 si pensava di costruire in Palestina una società pluralista, sono stato sionista pure io. Ma oggi vince la teocrazia.
Eppure, anche il “teocratico” Bush ha detto che i tempi sono maturi per lo stato palestinese.
L’ha detto per i media, per lusingare Mubarak e per mettere fuori gioco Saddam. Una pura bugia. Manovre.
Dunque gli Stati Uniti continueranno a essere il principale sostegno di Israele?
Penso che non durerà a lungo. Ho la sensazione che qualcosa stia venendo meno.
Che cosa?
Quella guerra ci costa un miliardo di dollari al mese. Nel nostro paese troppe cose non vanno per il verso giusto, e la gente non può sopportarlo, anche se i sondaggi – pure manipolazioni – mostrano questo consenso totale a Bush. Arriverà un momento in cui la priorità numero uno non sarà più Israele. Noi siamo unilaterali, pensiamo sempre soltanto al nostro interesse (pensi all’effetto serra) E’ quello il nostro gioco.
Ne consegue che le speranze di pace non possono essere legate al ruolo americano nel mondo.
L’Afghanistan fu uno dei chiodi nella bara dell’impero britannico. Non avevano soldi abbastanza e dovettero disimpegnarsi. Noi siamo molto bravi nel creare opinione e nel demonizzare. Ma a nostra volta siamo troppo piccoli rispetto al mondo intero. Gli Stati Uniti non rappresentavano una speranza per la pace. Non avrebbero mai dovuto rappresentarla.

 

Vittorio Macioce, IL GIORNALE
– 22/11/2001

 

Il prezzo della sicurezza

 


Gore Vidal è l’americano che non si riconosce e per questo sbraita, si turba, scrive: con rabbia lucida e irriverente. Eccolo a Roma, con in mano l’ultimo libro italiano, una raccolta di vecchi e nuovi saggi: La fine della libertà(fazi, pagg. 120, 25 mila). E con una domanda semplice semplice: a quanta libertà siete disposti a rinunciare in cambio di sicurezza? La risposta che si dà Vidal è secca: “Non rinuncio a un solo grammo di libertà. Per la sicurezza pago già le tasse. E non sono poche. La Cia riceve ogni anno dal popolo americano 30 miliardi di dollari per combattere il terrorismo. Bastano e non c’è bisogno che io rinunci ai diritti garantiti dalla Costituzione”. Quando però il demone della paura entra in città il discorso si fa più difficile. L’orrore sfuma i contorni, rende giusto ciò che non lo è e viceversa.
Ora Vidal ci dice che l’attacco alle torri gemelle ha accelerato, e potrebbe rappresentare un punto di non ritorno, un processo già in corso. “Lo spaventoso danno fisico che Osama e compagnia ci hanno provocato, durante il martedì delle tenebre -dice – non è nulla in confronto al doppio colpo da ko inflitto alle nostre libertà in via d’estinsione:l’anti terrorism act del 1991 e la recente richiesta al congresso di poteri speciali supplementari. Per esempio quello di eseguire intercettazioni telefoniche senza mandato giudiziario”. E poi aggiunge: “due milioni di conversazioni telefoniche ogni anno vengono intercettate da funzionari incaricati di far rispettare la legge”.
C’è una parte di Gore Vidal che ancora si porta a spasso il vecchio spirito di Dixieland, le buone abitudini del sud, i racconti di famiglia, il Tennessee, le sponde del Mississipi, West Point, lì dove è nato un giorno di quasi settantasette anni fa. E poi c’è il Gore Vidal salottiero di Washington, dove ha passato gran parte dei giorni e soprattutto delle notti. Ci sono certo anche i suoi amori omosessuali, quella storia con il ragazzo della Beat Generation, Jack Kerouac. C’è il Vidal polemista, scomodo, antipatico, sempre pronto a smascherare l’America, ancora legato alla vecchia dottrina Monroe, per cui ognuno è padrone a casa sua e se ne frega degli affari degli altri. Un’America rifiutata, ma che forse non riesce del tutto a non amare, anche dal suo esilio di Ravello, sulla costiera Amalfitana.
Questo terribile signore ha narrato la storia degli Stati Uniti, affrontando sette passaggi cruciali: da Burr a Lincoln, da 1876 a Empire, a Hollywood, a Washington DC. Fino a L’età dell’oro. E lo ha fatto da grande scrittore. Eppure parlando con lui, viene da chiedersi: chi era davvero Vidal? Un “patriota” certo, con negli occhi l’idea dell’america segnata da Jefferson, quella del Bill of Right e dei dieci comandamenti. Ma anche altro, molto altro: un anti-americano, uno jedi stile “guerre stellari” con la fissa dell’impero da combattere (“c’è un numero di patrioti che oscilla tra i due e i quattro milioni che si considera simile ai coloni americani che lottarono per l’indipendenza dell’Inghilterra. E il nemico questa volta è Washington”), un garantista, un Bruto che sogna di uccidere Cesare (“l’America è l’unico impero rimasto”), Un Catone che censura lo spirito moderrno, pronto a denunciare tutti coloro che sviliscono il mos maiorum, la legge santa dei padri costituenti. E poi: un liberal socialisteggiante, uno che si lascia affascinare dall’ideale estetico del terrorista solitario. Qualcuno dice: un cattivo maestro (“gli agenti federali sono giacobini in guerra contro i cittadini”).
Le tesi di Vidal sono quelle di un vecchio zio che ha conosciuto il mondo. Qualche volta i suoi rimbrotti sono ossessivi. Qualche volta quel pessimismo un po’ cinico urta i nervi. Ma non va ignorato. E al di là delle sue risposte ascoltate bene le sue domande: “Un funzionario della dogana ha tutto il diritto di trattare chiunque come un criminale senza uno straccio di prova e di fermarlo e di perquisirlo , naturalmente senza debito mandato?”. E’ chiaro, si può anche rispondere che pur di non saltare in aria, interra, o contro qualche grattacielo, meglio lasciarsi mettere le mani in tasca. Come dire, una perquisizione non vale una messa, funebre. Legittimo. “Sappiate però, commenta Vidal, che in questo caso si rinuncia a qualcosa, a cui ognuno può poi dare il suo peso. Si manda in soffitta il quarto emendamento della Costituzione americana”. A ognuno la sua scelta. Gore Vidal l’ha fatta, ma si è dimenticato di dire che la vecchia america di Jefferson e poi di Monroe è finita negli anni venti, quando il partito democratico di Wilson e di F. D. Roosevelt convertì Washington allo statalismo europeo. Si, proprio il suo amato Wilson e quel Roosevelt, magari criticato, ma che per il vecchio zio Gore resta il miglior presidente degli stati uniti di questo secolo: “un grande presidente un po’ Augusto e un po’ Machiavelli”.

 

Guido Caserza, LA SICILIA
– 16/11/2001

 

Usa, attenti alle tentazioni totalitarie

 

Stiamo per assistere alla nascita di un nuovo totalitarismo all’interno della più collaudata democrazia mondiale: è la tesi , esposta in modo interrogativo, su cui si articolano i quattro saggi in forma di pamphlet scritti da Gore Vidal all’indomani dell’attentato terroristico dell’11 settembre e che l’editore fazi pubblica, in anteprima mondiale, con il titolo “La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo”. Sulla copertina del libro è ritratta la statua della libertà con un bavaglio sulla bocca: un’allegoria caustica e irriverente che condensa la sostanza del discorso di Gore Vidal: da tempo – sostiene lo scrittore – i fondamenti dei diritti civili in America hanno incominciato a essere disattesi in nome della lotta al terrorismo e alla droga. E in risposta all’attacco dell’11 settembre Bush aumenterà ancora la vigilanza interna, con la conseguenza di limitare ulteriormente la libertà dei cittadini.
Forse il vaticinio di Vidal, la trasformazione di una grande democrazia in una dittatura, appartiene più alla fantasia romanzesca che a una serrata argomentazione politica e storica. Ma intanto i segnali, se non proprio di cessazione della libertà, almeno di controllo ed emarginazione del dissenso non mancano. A partire dalla democratica Barbara Lee, che è stata vittima di una campagna degna dei momenti più bui del maccartismo per avere espresso, alla Camera dei rappresentanti, l’unico voto contrario all’ampliamento dei poteri presidenziali: un primo segnale.
Cosa volete che sia la libertà di fronte alle minacce alla sicurezza? Si potrà opinare che sia un modico prezzo da pagare per proteggere l’Occidente dai nemici. Il problema potrebbe essere che questi segnali vadano nella direzione di una deriva ideologica inquietante. L’attentato dell’11 settembre ha intanto pretesto per rimobilitare l’apparato militare che può portare con sé i più temuti sbandamenti, a una nuova versione del maccartismo, con gli immigrati e gli avversari della globalizzazione come bersaglio. Infatti poiché il nuovo terrorismo è difficile da circoscrivere, in esso possono essere facilmente inclusi quei fenomeni che sono di semplice critica e di antagonismo politico. La facilità con cui si induce a una generica colpevolizzazione potrebbe far parte, secondo Vidal, di un preciso disegno: la sospensione (temporanea?) dello Stato di diritto e della democrazia e l’instaurazione di uno Stato di polizia, in un mondo assoggettato a unum imperium, unus rex, il cui fine, sul modello del grande progetto sei-settecentesco della Scienza di Polizia, sarebbe quello di gestire in maniera ottimale i comportamenti degli uomini, ossia di individuare un livello medio di consenso che non produca effetti indesiderati. Di qui l’importanza del controllo di Internet come imprenditoria dei dati personali, della statistica e il suo ruolo centrale nei dispositivi di sicurezza, parola che nei dibattiti intorno alla democrazia sta tenebrosamente prendendo il posto della parola libertà.
Il problema sollevato da Vidal è dunque squisitamente etico, poiché quando la libertà viene ricondotta sotto il segno della necessità e il potere dispiega arbitrariamente i propri mezzi, ciò significa la sistematica e legale diminuzione dell’uomo.

 

 

Giuliano Ferrara, PANORAMA
– 06/12/2001

 

Quando paura fa rima con censura

 

Oscar Wilde diceva che spesso gli capitava di non condividere le proprie idee. A volte invece ci si sente troppo forti, troppo facilmente autorizzati a esprimere con chiarezza ciò che si pensa, ci si ritrova insindacabili dopo una vita di polemiche difficili, di posizioni di minoranza, di ricerca di una verità parziale in mezzo alla melassa delle verità ufficiali: non solo la pappetta dei conformismi di stato, che poi sono i più riconoscibili, ma quell’intruglio indigeribile delle certezze sociali, delle asseverative cantonate degli intellettuali e degli ideologi, che sono sempre i conformisti meglio dissimulati. E’ una sindrome di guerra, una brutta sindrome. Gore Vidal mi ha fatto pensare a questa strana e ambigua sicurezza di sé che si acquista quando le circostanze radicali della storia ti mettono di fronte alle scelte che contano.
Vidal è un grande scrittore. Tutti lo hanno sempre pubblicato. Ha fascino e mercato. Senza Myra Breckinridge ci saremmo annoiati negli anni sessanta. Senza la sua saga storica americana ne sapremmo di meno di quel paese incredibile e il nostro paese avrebbe il sapore deludente della pedanteria divulgativa, non il senso fantasioso e avventuroso del racconto storico di classe. Lo hanno sempre pubblicato anche quando fa il pazzo, quando parla per aspri ed estremi paradossi, quando sputtana il suo paese troppo intensamente amato, quando fa dell’America il suo capriccio espiatorio e l’accusa, con tono sarcastico e intrattabile, delle peggiori tendenze criminogene, di imperialismo e totalitarismo.
Il mercato editoriale delle grandi riviste e dei grandi editori gli ha perdonato tutto. Le sue ossessioni politiche, il suo tentativo inattuale e inattuabile di diventare senatore in nome dei diritti aristocratici della sua intelligenza e della sua famiglia, la sua scostante doppia cittadinanza di villeggiante a Ravello e viaggiatore instabile in patria, le sue perfidie pettegole, le sue risse semisecolari con i grandi del firmamento letterario, il suo genio sboccato e trascinante. Stavolta no. Non lo hanno Pubblicato. Gli hanno dato uno scortese, fermo brutale ostracismo. Il pensiero di Susan Sontag sul coraggio dei Kamikaze e la vigliaccheria dei piloti dei B52 passi pure, i remark di una scrittrice liberal ma sentimentale sono compatibili entro certi limiti. Ma l’aggressione selvaggia e ghignante di Vidal a un paese avvolto nella sua bandiera, ferito e umiliato da Bin Laden dopo la tragedia dell’11 settembre, il suo schiaffo a una patria impegnata nella guerra mortale contro il terrorismo: tutto questo no, non è andato giù.
L’Italia gli dà un asilo, come può. Un piccolo ma intelligente editore, Elido Fazi, dà alle stampe un suo libricino polemico contenente il saggio provocatorio non pubblicato a New York. Un grande giornale, La Repubblica, lo ospita ma lo purga di tutte le affermazioni più controverse. Qualche passaggio in tv. Ma l’Italia, per quanto scossa e risvegliata a qualcosa di simile a un patriottismo senza frontiere, è lontana dallo spirito di tragedia nazionale che pervade l’America d’oggi, che travolge con le leggi d’emergenza e di guerra antiche certezze garantiste.
Torniamo al guaio di essere o di sentirci pienamente nella ragione, una ragione armata quando cadono le bombe e si dispiega la forza del tempo di guerra. Che ci vuole oggi a contraddire Vidal? Che ci vuole a trattarlo come un folle, a spiegare a lui e al pubblico la distanza che lo separa dal sentire comune? E’ facile ostracizzarlo. Sia quando dice che il bombarolo di Oklahoma City, Timothy McVeigh, ha agito in nome di valori umani profondi, sia quando dice che l’America depreda il mondo, lo invade con la sua politica espansionista, e dunque alla fine si è messa da sola nel guaio dell’11 settembre, al quale reagisce come un paese impaurito dalle sue stesse libertà. Palle. L’America ha portato la responsabilità della libertà sulle sue spalle in due guerre mondiali e poi ci ha mantenuti liberi nel corso della guerra fredda, e ora deve garantire un equilibrio nella catena di comando impazzita del mondo globalizzato. Sono responsabilità, non colpe. Facile dire questa verità, e mandarla in giro armata, oggi, anche a sparacchiare sulle bizzarrie di Vidal. Ma resta l’amaro in bocca. Si ha la sensazione che la guerra e lo spirito di guerra ci rendano inevitabilmente peggiori, incapaci di interloquire con gli altri perché siamo tremendamente sicuri di essere nel giusto di fronte all’abbagliante evidenza del primo colpo terrorista e della inevitabile difesa degli aggrediti. Vidal non è un’ipocrita, non è di quelli che si paludano dietro lo statuto di esperti per spacciare frottole propagandistiche. Agisce d’istinto e di testa, magari a capriccio, ma apertamente. Facciano come vogliono, gli editor che non desiderano più pubblicarlo né leggerlo. Ne hanno diritto. Ma non è escluso che sollevando il suo caso, con tutti i puntini sulle i, noi facciamo un favore anche ai nostri amici americani che non hanno più voglia di discutere con lui.

 

Donatella Trotta, IL MATTINO, INTERVISTA
– 14/09/2001

 

Occidente a rischio esplosione

 

Nella villa “La Rondinaia” di Ravello, a picco sul mare della costiera amalfitana, il telefono trilla in continuazione. Da quel maledetto 11 settembre che ha scritto l’inizio di un nuovo capitolo della storia contemporanea; Gore Vidal è letteralmente assediato, nel suo buen retiro italiano, da reporter e radio-tele-cronisti di tutto il mondo. Sono in molti a voler interpellare, in questi giorni, il celebre e controverso scrittore 76enne che Fernanda Pivano ha definito la “coscienza critica dell’impero” americano e che proprio la settimana scorsa, al Festiva-Letteratura di Mantova, ha presentato il suo ultimo libro, L’età dell’oro: settima tappa di un’appassionata e polemica controstoria degli States “riscritta” da un autore eclettico e dissacrante , romanziere e sceneggiatore di successo, rampollo di una storica famiglia americana di origini friulane e dalle ramificazioni illustri.
Già in quell’occasione, Vidal aveva puntato il dito sul rapporto di scarsa identificazione tra la popolazione americana e le decisioni del presidente, affermando: “dalla fine della seconda guerra mondiale abbiamo combattuto oltre 50 guerre illegali, perché non sono state decise dal Congresso come stabilisce la costituzione ma dal presidente. Sono molto imbarazzato per il mio paese e per Bush. Anche Reagan non era un buon presidente, ma era un ottimo attore e sapeva fingere molto bene. Il problema, ora, è una questione di turbo-dinamica: se non c’è scambio di energia, prevedo che si arriverà a un’entropia, a un grande freddo e alla perdita della vita; In fin dei conti – aggiunge Vidal – l’impero romano è durato 500 anni; quello britannico 150 e noi possiamo considerarci fortunati se ci restano altri 10 anni…”. Poi è successo quel che è successo. Ne parliamo al telefono con lo scrittore.
L’attacco terroristico negli Stati Uniti è stato più volte paragonato, in questi giorni, a Pearl Harbour. Condivide questa chiave di lettura?

Entrambi infatti sono avvenuti a sorpresa per il popolo americano. Ma Pearl Harbour non fu affatto una sorpresa per il presidente Roosevelt, perché fu lui a provocare in segreto, per un anno, i giapponesi, in quanto sapeva che l’80% degli americani – i quali non avevano ancora dimenticato la dolorosa esperienza del primo conflitto mondiale – non gradiva di scendere in guerra contro Hitler, che intanto aveva destabilizzato l’Europa da farle rischiare di soccombere. Da documenti emersi nel ’95 dagli archivi del dipartimento della Marina Usa, si evince che il presidente era a conoscenza dell’ora e del luogo dell’attacco, ma fece sì che la comunicazione di allarme avvenisse in ritardo, sacrificando così 3mila uomini per poter scatenare una guerra non voluta dal suo popolo. Per poter guidare un paese bisogna mentire, e Roosevelt mentì: bisogna poi vedere se lo si fa a fin di bene o per fini opportunistici.

E l’attacco a sorpresa dell’11 settembre 2001?

Rispetto a Pearl Harbour, ciò che è successo in questo caso è stata una sorpresa anche per il presidente Bush, oltre che per il popolo americano. Almeno così presumo. Il problema vero, qui, è che né l’FBI, né la Cia hanno fatto il proprio dovere, svolto il proprio compito con efficienza, pur essendo profumatamente pagati per questo. Come è possibile che l’intelligence americana non fosse minimamente a conoscenza di una trama terroristica tanto elaborata e meticolosa? La colpa principale di quanto accaduto è loro. Quanto ai veri responsabili, li conosceremo.

Ma la pista islamica collegata a Bin Laden le sembra convincente? Che volto ha secondo lei l’invisibile nemico degli Usa?

E chi lo sa? Mica è semplice rispondere su due piedi a questa domanda. Per ora ho solo sentito parlare di ipotesi che convergono a Bin Laden. Ma sono ipotesi? Restiamo in attesa di prove.

Lei che ha dissacrato spesso, nei suoi libri, tanti miti americani, pensa insomma che il mito dell’invulnerabilità statunitense sia ormai tramontato?

Niente affatto. L’America può ancora far esplodere il mondo. Anche se il suo futuro non mi sembra roseo: c’è una forza centripeta in atto. Negli Usa, inoltre, viviamo in un sistema così controllato dove c’è una censura totale e dove l’indottrinamento comincia dalle elementari. Paghiamo tasse alte, non abbiamo un sistema sanitario, abbiamo un pessimo sistema scolastico, abbiamo un unico partito con due sfumature e subiamo un costante lavaggio del cervello che ha cancellato la memoria collettiva. Siamo gli inventori del cellophane e dei cleenex: questo è simbolico della nostra società.
Bisogna anche prendere atto che l’80% della popolazione è povera e non è felice, mentre il 20% è felice perché lavora per i cartelli internazionali, ossia quell’1% che detiene la ricchezza del mondo.

Ma come deve reagire l’Occidente, che ha rispolverato l’articolo 5 del Trattato Nato a questo attacco che per qualcuno è un vero e proprio atto di guerra?

Cercando di far pace con il Medio Oriente senza provocare nessuno. E’ la via principale per evitare di saltare in aria. Tutti.

 

Elisabetta Michielin, PULP
– 01/01/2002

 

Gore Vidal: la fine della libertà

 

Zorro I, Desert Spring, Ghost Dancer sono solo tre degli spassosi nomi con cui i “creativi” del Pentagono hanno battezzato le oltre 200 operazioni militari che dal 1945 vedono gli Usa impegnati in una guerra perpetua per una pace perpetua sul fronte esterno e su quello interno.
Vidal snocciola questo lungo elenco per dimostrare, senza peli sulla lingua, con sarcasmo e amara ironia, che “in queste svariate centinaia di guerre contro il comunismo, il terrorismo, il narcotraffico e a volte contro niente di speciale, tra Pearl Harbour e martedi 11 settembre 2001, siamo sempre stati noi a sferrare il primo attacco”.
Nell’età dell’oro Vidal sosteneva che Roosvelt era a conoscenza ed anzi aveva provocato l’attacco a Pearl Harbour per poter entrare in guerra. Si può dire lo stesso dell’attentato alle torri gemelle? No, risponde Vidal, “per quanto ne sappiamo ora”, ma è certo, aggiunge, che questa tragedia ha drammaticamente accelerato un processo di erosione delle libertà e dei diritti negli Usa che se non viene efficacemente contrastato porterà dritti dritti ad un nuovo totalitarismo.
La legislazione antiterrorismo (dall’istituzione dei tribunali militari segreti alla possibilità di trattenere gli stranieri fino ad una settimana senza specifica accusa, ecc.) varata dopo l’11 settembre è l’anticamera dello stato di polizia e fa carta straccia del Bill of Right, base della costituzione americana; Vidal evidenzia però che questo attacco alle libertà parte da lontano, almeno dal 1970, e che Bush ha trovato la strada spianata da Clinton che, dopo la strage di Oklahoma City (oggetto di altri saggi raccolti nel volume) firmò l’Anti-Terrorist and Effective Death Penalty Act dicendo agli americani che la sicurezza nazionale poteva ben valere il sacrificio di una fetta di libertà personali.
Vidal ci ricorda che l’esercizio della libertà si misura anche con la capacità di comprendere, per quanto amaro possa essere, che gli Usa sono odiati per quel che hanno fatto nel mondo.
Questa libertà, di porsi domande scomode e controcorrente, evidentemente non appartiene più alla stampa americana – La fine della libertà è inedita in America perché nessuno l’ha voluta pubblicare – e anche in Italia il saggio è stato censurato da La Repubblica, mentre Vidal stesso è stato oggetto di un vergognoso trattamento alla trasmissione di Giuliano Ferrara. Tutti ottimi motivi per leggerlo

 

Benedetto Vecchi, IL MANIFESTO, INTERVISTA
– 22/11/2001

 

Vidal: “I veleni dell’America”

 

E’ accaduto nella terra della libertà, cioè negli Stati Uniti. Si tratta del rifiuto della stampa di pubblicare le riflessioni di uno scrittore affermato sull’attacco contro le Twin Towers. Un’analisi certo controcorrente la sua, ma che neanche “The Nation”, la rivista liberal a cui collabora da anni, ha pubblicato. Lo scrittore è Gore Vidal, da sempre un intellettuale scomodo. Ora quel saggio è pubblicato da Fazi nel volume “La fine della libertà”. Oltre a questo scritto, il libro raccoglie gli articoli che Vidal ha dedicato alla vicenda di Oklahoma City, cioè all’attentato al palazzo del governo federale dove morirono centinaia di persone e al successivo processo contro il presunto responsabile, Timothy McVeigh.
Per Gore Vidal, gli Stati Uniti corrono il rischio di una involuzione autoritaria che può condurre, se non contrastata efficacemente, a un nuovo totalitarismo. Non a caso, il saggio “incriminato” sottolinea che la limitazione della libertà individuali è stata la prima conseguenza dell’attentato alle Twin Towers.
La nuova legislazione antiterrorismo, sostiene Vidal, è l’anticamera dello stato di polizia e fa carta straccia del Bill of right, cioè quella carta dei diritti che è alla base della costituzione americana. Ma George W. Bush ha trovata la strada già spianata da un’altra legge, volta questa volta dal suo predecessore Bill Clinton che, subito dopo l’attentato di Oklahoma City, spiegò agli americani che la sicurezza nazionale valeva americani che la sicurezza nazionale valeva bene il sacrificio di un po’ di libertà personale.
Per queste ragioni lo scrittore americano ha voluto che i saggi fossero raccolti in un unico volume. “Gli Stati Uniti non si chiedono mai il perché accadono alcune cose. Perché c’è stata la bomba di Oklahoma City? Perché Bin Laden ci ha attaccati, dopo che è stato al nostro servizio? Domande che richiedono risposte, perché la libertà si misura anche sulle capacità di comprendere, per quanto amaro possa essere, che gli Usa sono odiati per quello che hanno fatto nel mondo”. Inizia così l’intervista con Gore Vidal.

Il suo saggio si chiude con un lungo elenco delle imprese militari americane nel mondo, quasi a suggellare ciò che lei sostiene, cioè che la guerra appena iniziata si possa considerare come il prologo di “una guerra perpetua per una pace perpetua”. Quali pensa possano essere gli sviluppi della guerra in atto?

Il presidente Bush lo ha detto fin dall’inizio che questa sarà una lunga guerra. E lo ha detto con molta gioia, perché tutto il denaro che verrà speso dagli Usa andrà nelle tasche dei suoi amici. Tutti i presidenti statunitensi esprimono gli interessi di alcuni gruppi economici o sociali. Bush è stato eletto con il sostegno dei petrolieri e del complesso militare-industriale. Una guerra contro un miliardo di musulmani è una vera manna per i loro affari.
Mi sembra che la spiegazione di questa lunga guerra sia da ricercare in questa meravigliosa opportunità di guadagno per l’industria delle armi e del petrolio. Quello che colpisce è però l’atteggiamento dei media americani. Il New York Times, ad esempio, sembra la “Pravda” prima di Gorbaciov, mentre i network televisivi hanno una visione del mondo limitata, semplicistica che esprime un solo punto di vista, quello dominante. Allo stesso tempo hanno accumulato una sofisticata capacità di demonizzare le persone o le nazioni considerate, di volta in volta, “ostili”. Cosa può fare uno scrittore in questa situazione?
In questo libro mi domando e cerco di dare una risposta al perché Osama bin Laden ci attacca. Per Bush ci attacca perché è cattivo, mentre noi siamo i buoni, e perché ci invidia la libertà che abbiamo…una spiegazione stravagante, visto che negli Usa non c’è la libertà di eleggere il presidente che vogliamo.
Mio cugino, il democratico Al Gore, ha avuto mezzo milione di voti in più del suo rivale, ma a causa di uno strano balletto inscenato alla Corte Suprema, alla fine la poltrona presidenziale è andata a chi ha preso meno voti.
Faccio un altro esempio del degrado dei media americani. Per loro Tim McVeigh avrebbe messo la bomba ad Oklahoma City perché era un perdente; La mia esperienza dice altro. Dalla prigione McVeigh ha cominciato a scrivermi. Mi sono ritrovato a leggere lettere di un uomo molto più intelligente di chi ha scritto sulla sua vita. Egli rappresenta 7 milioni di americani che si autodefiniscono “patrioti”. Nei miei articoli e saggi su di lui ho teso a sottolineare alcuni aspetti di quella vicenda e di cercare le risposte al perché un americano poteva considerare giusto mettere una bomba e fare centinaia di morti.
Martedì sera ho sentito Giuliano Ferrara affermare in una trasmissione televisiva che io difendevo Timothy McVeigh perché lo ammiravo. Non è ovviamente così. In realtà, penso che uno scrittore debba cercare le risposte al perché accadono alcune cose, qualunque esse siano, si tratti di Osama bin Laden o dell’attentato di Oklahoma City? Per me, McVeigh non era un pazzo o un demone. Affermare questo non significa condividere ciò che ha fatto. Al contrario. Ho solo cercato di capire le motivazioni che erano dietro a quell’attentato.
Per ritornare alla domanda, non so prevedere gli sviluppi di questa guerra, ma sono convinto dei risultati che produrrà: crescerà l’odio verso gli Usa tra i musulmani e sempre più americani proverranno ostilità nei confronti del proprio governo.

Secondo lei una delle prime vittime dell’11 settembre è la libertà in America?

Non solo negli Stati Uniti. In un mio articolo pubblicato da un giornale italiano (La Repubblica del 16 novembre) non viene riportato il lungo elenco delle guerre in cui attualmente sono impegnate le truppe americane. Forse ne erano spaventati. Ma quello che non era presente era il punto centrale del mio ragionamento, cioè i motivi che hanno spinto Bin Laden ad attaccarci, sempre se è stato lui. Se avessi saputo che stavano dimenticando queste cose non avrei approvato la pubblicazione del pezzo.

Nel suo libro lei sottolinea più volte l’involuzione autoritaria degli Usa. Ci sono controspinte a questa deriva?

Come dice una delle leggi fondamentali della fisica: a ogni azione corrisponde una reazione. Per questo mi concentro sulla domanda: perché Osama ha fatto quell’azione? E’ infatti insopportabile leggere sui giornali che lo ha fatto perché è un uomo malvagio. Gli americani sono diventati un popolo che ignora molte cose che accadono nel mondo, così come spesso non sono a conoscenza delle azioni compiute nel pianeta dal governo degli Stati Uniti.

Eppure, molti analisti e commentatori europei, e quindi non solo americani, affermano che tutta la nazione è raccolta intorno al suo residente, che gode di un consenso diffuso, mentre le voci critiche coinvolgono un’esigua minoranza. Di una reazione di critica e di presa di distanza non c’è traccia in queste analisi e commenti. Lei che ne pensa?

Mi sembra che chi sostiene questo consideri le persone che compongono l’amministrazione Bush più intelligenti di quanto no siano in realtà. Questa non è una guerra per la globalizzazione: è una guerra per dimostrare chi è il numero 1 nel mondo. Osama bin Laden si è dimostrato un ottimo psicologo. Il fatto che abbia buttato giù due “erezioni’, ha fatto molto arrabbiare chi si considerava il numero 1. Inoltre, l’attacco dell’11 settembre era alla vigilia di una recessione mondiale.
Se mettiamo insieme i due aspetti – mettere in dubbio la potenza americana e accelerare la crisi economica – possiamo dire che l’azione di Osama è diabolica.
Bin Laden conosce bene il denaro, sa come si maneggia, conosce bene i meccanismi economici e finanziari a livello mondiale. La sua famiglia può infatti essere equiparata ai Rockfeller. Questa conoscenza profonda dell’economia mondiale lo ha portato a colpire nel momento giusto. Se poi ci mettiamo questa folle guerra, potremmo dire che ha vinto lui.

Tuttavia questa è una guerra globale. Cambierà il corso della globalizzazione. Lei sostiene che l’amministrazione Bush ha reagito solo contro che metteva in dubbio la sua leadership mondiale. Ma questa guerra cambierà i rapporti del potere nel mondo. E’ prevedibile che la leadership statunitense ne uscirà rafforzata.

Si, sono d’accordo. Il mondo in cui viviamo è davvero globale. Ma la globalizzazione che conosciamo è l’esatto contrario della giustizia sociale. E allora mi domando: in un mondo dominato dalle grandi corporation che aggirano le leggi degli stati, come riuscire a fargli pagare le tasse? Il movimento antiglobalizzazione ha tutta la mia simpatia, ma dobbiamo constatare che i Grandi oramai si riuniscono in posti dove non puoi contestarli. Come far sentire la tua voce se si vedono in Congo o in un bunker costruito sotto un fiume?
L’unica soluzione che vedo è che gli stati-nazione, almeno fino a quando esisteranno, tassino le imprese che svolgono delle attività produttive sul proprio territorio. Se la Att fa profitti negli Stati Uniti va tassata negli Stati Uniti. E’ un’operazione difficile lo so, ma mi sembra l’unico strada percorribile. Cinquanta anni fa, metà delle entrate fiscali proveniva dalle tasse sui profitti delle imprese. Oggi quella percentuale è scesa al 10% delle entrate fiscali. Quello che è certo, quindi, è che questa guerra è finanziata con le tasse pagate dai singoli.

Nel libro lei parla diffusamente dei “patrioti” cioè delle milizie di estrema destra negli Stati Uniti. Spiega la loro diffusione con la scomparsa della piccola proprietà terriera e la concentrazione del settore agricolo nelle mani di quattro, cinque multinazionali

Si, gran parte dei piccoli proprietari hanno perso le loro terre che sono state riassorbite dalle grandi corporation dell’agro-business. McVeigh veniva da una famiglia di piccoli agricoltori. Molti di loro, una volta persa la terra, sono finiti nell’esercito, diventando un soldato valoroso che nella guerra del Golfo si è meritato alcune medaglie.
Secondo un recente studio, 7 milioni di persone fanno solo azioni di propaganda, altre no e si sono armate fino ai denti. Non sono sicuramente un partito, né rappresentano ancora un pericolo per la nazione americana. Ma esprimono uno stato mentale molto diffuso negli Usa di ostilità nei confronti del governo.

Eppure sono indicati come i probabili responsabili della diffusione dell’antrace…

E’ possibile. E’ però interessante notare che i senatori che hanno ricevuto l’antrace per posta erano la maggior parte dei liberal. E nessuno conservatore.

Lei usa parole molto dure nei confronti dei democratici e di Clinton in particolare.

A me piaceva il presidente Clinton appena insediato alla Casa Bianca. E’ uno scandalo che negli Stati Uniti non ci sia un servizio sanitario nazionale. Clinton lo voleva. Ci ha provato, ma si è trovato contro la dura opposizione di tre potentati economici: l’associazione dei medici, le compagnie di assicurazione e le imprese farmaceutiche. Da quel momento in poi, ogni occasione è stata buona per attaccarlo.
Clinton non ha avuto un’attività sessuale così intensa da distinguerlo da tanti altri presidenti. Soltanto che contro di lui si è spesa una montagna di denaro per metterlo in ginocchio e incriminarlo per la sua attività sessuale. Uso parole così dure contro di lui perché, per sopravvivere a questi attacchi, ha, per parafrasare Lenin, corso con i lupi e come loro ululato.

 

Angela Azzaro, LIBERAZIONE
– 22/11/2001

 

America senza libertà. Intervista con Gore Vidal

 

“Dire che gli americani sono i buoni e i musulmani i cattivi, come ha fatto Bush per giustificare la guerra, è un’affermazione cui non crede neanche un bambino. Mentre i veri perché rimangono volutamente nell’ombra”. Polemista, studioso della storia americana, scrittore controcorrente, Gore Vidal non usa mezzi termini nel condannare la guerra. In occasione della presentazione del suo libro “La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo?” pubblicato in questi giorni da Fazi editore, non ha perso l’occasione per sparare a zero sugli Usa e sul suo presidente di cui sottolinea gli interessi nel campo petrolifero. “Ho scritto questo libro – spiega Vidal che oggi verrà intervistato da Antonio Monda alla Casa delle Letterature – per spiegare due perché: perché Bin Laden ci ha attaccati e perché Tim McVeigh ha messo una bomba a Oklahoma City causando la strage in cui morirono 168 persone”.
I quattro saggi che costituiscono il volume, con un primo dedicato all’ “11 settembre e dopo” censurato dal New York Times, ricostruiscono un quadro ben preciso, dove i due perché trovano uno stesso comune denominatore nel governo USA. Secondo Vidal, che nella sua lunga carriera oltre saggi, romanzi, sceneggiature, ha scritto circa cinquecento articoli presto pubblicati in tre volumi da Fazi con il titolo “United States” c’è una strategia di controllo che viene esercitata sia all’esterno che all’interno del paese. “…la maggior parte dei terroristi di oggi si può incontrare all’interno dei nostri stessi governi, federali, statali, municipali…”, istituzioni “che muovono guerra alla vita, alla libertà e alla proprietà dei nostri cittadini”.
Ma torniamo alla guerra in atto contro il popolo afgano, alla posizione del grande scrittore.

In Italia i fautori dell’intervento armato sostengono che questa guerra era indispensabile, che sta ottenendo i primi effetti positivi contro il terrorismo. Dal suo osservatorio di americano che da anni vive nel nostro pese che cosa pensa?

Questa guerra non ha niente a che fare con una lotta contro il terrorismo. Non ha niente a che fare, se non fosse per le numerose vittime che sta provocando, con la stessa guerra. Una guerra si combatte tra due stati, ma gli USA non stanno combattendo contro un altro stato, ma contro la banda di Bin Laden che può essere paragonata ad un gruppo mafioso. Quando la mafia uccise il generale Dalla Chiesa, nessuno si sognò di bombardare Palermo. Il nostro impero invece non ha avuto scrupoli ad attaccare il popolo afghano. Sono d’accordo con tutti coloro che pensano che i terroristi vadano puniti ma per questo compito esiste la polizia. Ogni anno, noi cittadini versiamo alla Cia 30 milioni di dollari, ma poi veniamo a scoprire che quasi nessuno tre di loro sa parlare l’arabo.

Quale allora la vera ragione che ha spinto il suo paese a una nuova, terribile azione di morte?

Il petrolio. Il nostro governo è nelle mani di un covo di petrolieri con in testa Bush. Il loro fornitore principale è l’Arabia Saudita dove hanno inviato l’esercito americano e dove sostengono la famiglia reale. All’epoca della guerra tra russi e afghani, Bin Laden si era messo al servizio dell’Arabia Saudita che preferì l’appoggio Usa, che tutt’ora gode lì di un potere incontrastato controllando anche il commercio del petrolio. Osama, non potendo attaccare direttamente la famiglia reale, anche perché nel loro paese ci sono due città sante, la Mecca e Medina, ha colpito gli Usa. Il suo discorso si è poi valso delle ragioni dei palestinesi o degli iracheni, ragioni peraltro giuste, facendosi portavoce di una parte dell’Islam. Il suo atteggiamento corrisponde perfettamente a quello che vuole Bush, né più né meno. Credo che il nostro presidente soffra di un grave complesso suicida: “Sarà una guerra lunga”, ha detto con gioia, mentre si fregava le mani. Io sono molto preoccupato. Nel mondo non ci sono un miliardo di musulmani e penso che una logica come quella di Bush si rivelerà autodistruttiva in primo luogo per noi.

Come è nata l’idea di raggruppare in quattro saggi raccolti ne “La fine della libertà”?

Nei saggi che ho appena pubblicato cerco di spiegare perché Bin Laden e McVeigh hanno fatto quello che hanno fatto. Negli Usa è quasi vietato tentare di capire, perché questo farebbe risaltare i crimini del governo. Allora meglio che tutto taccia. Nel caso di Bin Laden, come dicevo prima il problema è il controllo del petrolio. Nella sua politica mediorentale, gli Usa si sono spinti troppo in là e l’11 settembre è stato il risultato. Sulla strage di Oklahoma City è necessario capire come nascono i patriots , i gruppi di destra cui si richiamava lo stesso McVeigh. Il problema è che ci sono più di sette milioni di piccoli proprietari terrieri che sono stati fatti cuori dalle grandi aziende. E’ così nato un movimento certo incoerente ma spontaneo di protesta violentacontro uno Stato avvertito come nemico. E’ da queste forze di destra che molto probabilmente arrivano le lettere all’antrace. Non hanno ancora trovato un capo, ma quando lo avranno, saranno ancora più pericolose.

Nei suoi saggi precedenti l’11 settembre, si parla già di libertà negata. Che cosa è accaduto dopo l’attacco alle Torri Gemelle?

E’ una lunga storia di negazione delle libertà, la nostra, che parte con Truman e la guerra fredda. Negli ultimi decenni l’attacco ai Dieci emendamenti, base della Costituzione degli Usa, è diventato ancora più aspro. Dopo la strage di Oklahoma city, Bill Clinton firmò un atto anti terrorismo dando al procuratore il potere di usare l’esercito contro il popolo. L’11 settembre ha dato via libera a Bush che ha continuato l’opera del suo predecessore. Il congresso, con un solo voto contrario, quello della californiana Barbara Lee, ha votato per le concessioni di poteri speciali al presidente come quello di eseguire intercettazioni telefoniche senza mandato giudiziario oppure di deportare residenti legittimi e permanenti, turisti e immigrati privi di permesso di soggiorno senza rispettare le procedure di legge. Il discorso del presidente ricorda quello di Hitler, che nel 1933 invocava una legge-delega per “la protezione del popolo e dello stato”, dopo l’incendio del Reichstag che i nazisti avevano segretamente appiccato. Tornando all’oggi, la moglie del vice di Bush ha anche stilato una lista di artisti e scrittori Liberal da mettere sotto inchiesta, tra cui compare il mio nome.

Anche nel libro non è tenero con Bill Clinton. Indica la sua presidenza come tappa verso la perdita progressiva di libertà connettendo questa questione alla mancata riforma del sistema sanitario..

Considero Bill Clinton uno dei più abili presidenti che gli Usa abbiano avuto. Lui e Hillary avevano l’ambizioso progetto di una riforma che dotasse la popolazione di un sistema sanitario e di un’istruzione degni di un paese civilizzato. Il loro progetto si è abbattuto contro gli interessi delle grandi aziende farmaceutiche e delle assicurazioni, che li hanno mortificati montando lo scandalo sessuale. Clinton per essere rieletto ha capito che non era il caso di insistere e ha cambiato rotta, portandosi sempre più vicino alle posizioni della destra.

A proposito di destra, che cosa pensa della manifestazione italiana del Polo a sostegno del suo paese?

Non esprimo opinioni sui governi stranieri. Io sono un americanista (ride, ndr).

 

Piero Sansonetti, L’UNITÀ, INTERVISTA
– 22/11/2001

 

“Il tracollo economico salverà il mondo” Gore Vidal parla dell’11 settembre e del declino della potenza americana

 

Gore Vidal è uno dei maggiori scrittori americani. Ha conosciuto Eleanor Roosevelt e Truman, di Truman è anche stato amico, così come è stato amico di John e Bob Kennedy e di tutti gli uomini del loro entourage. Oggi Vidal ha posizioni che vanno molto, molto oltre il kennedismo (anzi, parla male di Kennedy). E’ un radicale. Recentemente ha scritto un libro, un romanzo storico, che ha creato parecchio scalpore: sostiene la tesi che fu Roosevelt a provocare l’attacco giapponese di Pearl Harbor, nel ’41, per avere la scusa giusta che gli permettesse di entrare in guerra. Ora ha scritto un nuovo libro, che esce solo in Italia per le edizioni Fazi, e che sarà presentato oggi pomeriggio a Roma alla Casa delle Letterature e aprirà una rassegna, “i classici di domani”, alla quale parteciperanno scrittori americani, cinesi, cubani e sudafricani. Quest’ultimo libro di Vidal si chiama “La fine della libertà: verso un nuovo totalitarismo”. E’ un titolo provocatorio, come sempre provocatorio è Vidal. Anche perché non si riferisce a qualche sperduto pese del Sud, ma agli Stati Uniti d’America. Il libro inizia con una lunga citazione di un articolo mai pubblicato. O almeno, mai pubblicato in America. E’ di uno storico abbastanza noto, Arno Mayer, che insegna all’Università di Princeton. Vidal spiega che tutti i giornali americani hanno rifiutato lo scritto di Mayer perché considerato troppo anti-patriottico. Alla fine Mayer ha spedito l’articolo a Parigi, ed è uscito, in lingua francese, su Le Monde.

Mister Vidal, il suo amico Mayer ha scritto: “Dal 1947, gli Stati Uniti sono stati l’avanguardia e il principale esecutore del terrore preventivo di stato”. Lei è d’accordo?

“Si. Lei conosce qualche paese che ha avuto un ruolo superiore a quello degli Stati Uniti in questo campo?”

Nel suo libro lei sostiene che noi occidentali, di fronte ai grandi fatti della storia, non siamo abituati a chiederci: “perché?” Mi sembra anche di capire che per spiegare l’odio di Bin Laden verso gli Stati Uniti lei risale alla guerra del Golfo, è così?

“Io non dico che gli occidentali non sanno chiedersi il perché delle cose. Dico che la società mediatica non sa chiederselo. Ai media non interessa. Quanto all’odio verso l’occidente, penso che nasca molto prima del ’91. Direi che nasce all’inizio degli anni ’20, quando cade l’impero ottomano e iniziano i primi insediamenti ebraici sotto il controllo inglese. L’Inghilterra aveva interesse a mantenere il suo potere in quella zona per via del petrolio. Poi, nel ’45, intervennero gli americani, ma il loro interesse si spostò verso l’Arabia Saudita. Subito dopo la conferenza di Yalta ci fu l’incontro tra Roosevelt e il re saudita Iben Saud. Da quell’incontro nacque il potere saudita filoamericano che ancora oggi resiste. L’America diventò un po’ il padrino dell’Arabia Saudita. Poi ci furono gli anni del dopoguerra nei quali il petrolio cominciò a scarseggiare, e l’interesse americano per questa zona del mondo aumentò. E col tempo si è arrivati in pratica all’occupazione americana dell’Arabia Saudita. L’odio di Bin Laden, la sua rabbia, nascono da lì e sono contro la famiglia reale saudita. Però Bin Laden non può colpire l’Arabia, perché è terra sacra, è il paese della Mecca e di Medina. Allora la sua rabbia si rivolge contro gli Stati Uniti, la potenza corruttrice, la potenza occupante”

Mi pare che nel suo libro lei adombri l’idea che Bin Laden sia il nuovo Saladino…

“Si è così. Lui ritiene di esserlo. Bin Laden conosce molto bene la storia e la storia dell’Islam. Si ispira a Saladino e alle sue battaglie contro i crociati e contro re Riccardo…”

E dunque potremmo paragonare Bush a Cuordileone…

“Oh no, questo no, per carità!”

Bin Laden è un uomo di grande intelligenza politica?

“Si, molto intelligente, molto brillante. Guardi come ha scelto i tempi. La scelta dei tempi, in guerra è la cosa più difficile e la cosa più importante. Lui ha deciso di scatenare l’attacco nel momento in cui gli Stati Uniti stanno entrando in una fase di recessione e di depressione economica, e alla vigilia della nascita dell’Euro (e vedrà quanti sconvolgimenti porterà l’euro in economia!). Si, Bin Laden ha un’intelligenza quasi diabolica”.

Ha avuto l’impressione che in una prima fase, dopo l’11 settembre, ci sia stata battaglia dentro l’amministrazione americana su come reagire. Mi pare di aver capito che Colin Powell non fosse favorevole alla guerra in Afghanistan. E’ così?

“Powell è un soldato, e quindi non ama la guerra. In genere sono solo quelli paurosetti, quelli che non amano il combattimento: sono sempre loro a volere la guerra. Noi abbiamo un governo composto da persone che non hanno mai fatto la guerra e che quindi la amano. Powell è l’unico che ha combattuto è naturale che a lui la guerra non piaccia. I nostri governanti sono uomini d’affari e a loro piace la guerra perché procura affari. Però, guardiamo bene come stanno le cose: la guerra all’Afghanistan dicono che costi un miliardo di dollari al mese e nel frattempo Bush ha deciso di concedere un taglio delle tasse ai più ricchi che costerà un trilione di dollari. Paradossalmente tutto questo potrebbe salvare il mondo. Cioè potrebbe provocare una crisi devastante nell’economia americane condurci rapidamente ad un declino della nostra potenza. I grandi imperi moderni sono sempre crollati quando dono finiti i soldi. Fu così per la Gran Bretagna, nel 1914. Dominava il mondo ma si trovò con le casse asciutte e dovette chiedere aiuto all’America, passandole lo scettro di prima potenza”.

Se non ho capito male il suo libro, lei teme che capitalismo e liberalismo non si sopportino più e stiano per divorziare…

“Non si sono mai sopportati troppo. No, non divorziano perché non si sono mai sposati. Hanno vissuto insieme nel peccato, come due concubini litigiosi…”

Lei avanza anche l’ipotesi che la crisi del liberalismo stia per far diventare gli Stati Uniti un vero e proprio stato di polizia. Non è un’esagerazione?

“No, Non è un’esagerazione. Lei lo sapeva che il tre percento della popolazione degli Stati Uniti vive in carcere o in libertà provvisoria? Nessun altro paese al mondo ha mai messo in prigione tanta gente. Non succedeva neanche in Urss. La situazione in America, da questo punto di vista, è qualcosa che va molto oltre lo scandalo. L’industria carceraria è l’industria più fiorente. E infatti c’è gente che ci specula: siccome le carceri sono state privatizzate, costruiscono un bel carcere e poi ci fanno su i soldi.

Nel suo libro lei riassume le Eumenidi di Eschilo. Racconta di Oreste – perseguitato dalle Furie per il suo matricidio – che si rivolge ad Apollo, ed Apollo lo manda davanti all’assemblea degli ateniesi, la quale decide di assolverlo per por fine a una faida che altrimenti sconvolgerebbe la vita di intere generazioni. Lei dice che l’assemblea degli ateniesi è l’Onu, che Apollo è Annan, e che l’unica soluzione della faida mediorientale è l’armistizio e la pace concordata. In quali termini, in che modo è possibile trattare la pace?

“Si deve coinvolgere Annan, è un ottimo negoziatore. Bisogna che gli Americani lascino l’Arabia Saudita, si deve trovare un accordo sul petrolio, e poi si deve risolvere la questione israelo-palestinese. Gli Stati Uniti devono smetterla con la loro vecchia politica. Quello che hanno fatto in Iraq in questi anni è stato osceno. E anche il modo nel quale hanno sostenuto la destra israeliana”.

Mister Vidal, lei ce l’ha con il suo paese, ce l’ha con l’eccesso di stato, ha persino difeso Tim McVeigh (l’attentatore di Oklahoma City). Lei è un rivoluzionario, o forse è un reazionario, o invece è semplicemente un visionario?

“Io sono un correzionista. Esiste questa parola? No? Meglio. Se vedo una buca nel terreno penso che sia giusto riempirla. E poi penso che se picchi qualcuno, quello, prima o poi, si vendica. Come difendersi? Armandosi? No, la cosa migliore è non picchiarlo”.

 

Gianni Vattimo, LA STAMPA
– 30/01/2002

 

Un’America senza libertà nell’analisi di Gore Vidal

 

Un grande scrittore americano, anzi un vero monumento i cui libri sono letti nelle scuole USA, ci mette in guardia contro gli eccessi della solidarietà con gli Stati Uniti nella lotta al terrorismo. E dice cose che a noi costringerebbero grandissime reprimende, se non peggio; ma lui è americano e può permetterselo. Nel saggio iniziale del suo ultimo libretto, La fine della libertà, finora inedito in USA per l’ostracismo che gli hanno decretato anche le riviste liberal. Vidal, che non ha nessuna simpatia per Bin Laden e simili, sostiene però che sono anzitutto gli Stati Uniti a praticare un terrorismo “ di stato”, prima ancora che sul paino internazionale, a livello interno. La libertà che finisce, nel titolo, è anzitutto quella dei cittadini americani nella loro stessa patria. La lotta al terrorismo internazionale è una scusa in più, enfatizzata dal governo federale per ridurre ulteriormente le libertà civili già prima gravemente intaccate da una serie di atti formali ( come l’Anti Terrorism Act firmato da Clinton nel 1996) e dal comportamento pratico delle varie polizie. La legge di Clinton contro il terrorismo è del 1996, a un anno dell’attentato che aveva fatto saltare in aria gli uffici federali a Oklahoma City e del quale fu riconosciuto responsabile Timothy McVeigh, poi giustiziato; dunque una legge diretta a un obiettivo ben concreto, una violenza interna che un governo non può tollerare, e che si era già manifestata con le imprese del famoso Una-bomber, l’intellettuale antisistema che spediva lettere esplosive in varie parti degli Stati Uniti. Studiando, negli altri due saggi del libro, il caso di McVeigh, Vidal cerca di capire di dove provenga la violenza che ha mosso lui, e che ispira altri come lui (le famose “milizie” che pullulano un po’ dovunque negli USA, con le più varie etichette politiche e religiose). E propone la tesi che McVeigh e i suoi simili reagiscano alla violenza di un ordine sempre più modellato sulle esigenze della grande industria, ce per esempio riduce al fallimento i coltivatori diretti e i piccoli proprietari agricoli; o che suscita sempre più spesso, in singoli e gruppi, il desiderio di vivere fuori dalla modernità consumista, sottraendosi alla cittadinanza stessa. Era questo il caso del gruppo di davidiani di Waco, che, nell’aprile del 1993, dopo un’escalation di equivoci e di violenze inutili, furono sterminati dall’esercito e dall’FBI in un attacco – secondo Vidal del tutto illegale, anche nelle forme in cui si svolse – che fece 82 morti tra cui trenta donne e venticinque bambini. Proprio come rappresaglia “legittima” per la strage di Waco, McVeigh progettò e condusse a termine, probabilmente non da solo (come invece si preferì credere; un altro Oswald!), l’attentato di Oklahoma City. Anche se non aveva ragione, Vidal pensa che avesse comunque delle ragioni. Studiarle attentamente, senza ricorrere affrettatamente all’immagine del pazzo isolato e sanguinario, potrebbe voler dire capire meglio (come si combatte) il terrorismo…

 

NEXUS
– 01/01/2002

 

La fine della libertà

 

E va bene: Gore Vidal non è esattamente il tipo di patriota che George W. Bush, i generali del Pentagono e la propaganda post 11 settembre vorrebbero. Graffiante, caustico, corrosivo, uno scrittore americano che non ha mai risparmiato niente all’America, sbattendogli anzi sempre in faccia la parte peggiore della sua storia. Ma che negli Usa siano riusciti addirittura a rifiutargli la pubblicazione del suo ultimo libro – una raccolta di quattro saggi – ci pare un pò troppo. Che sia stata l’immagine della copertina con la Statua della Libertà imbavagliata? O le sei pagine e mezzo con la lista delle interminabili “guerre del mese” in cui gli USA si sono imbarcati da Pearl Harbor ad oggi? O magari quella certa presunta simpatia per Timothy McVeigh, il bombarolo do Oklahoma City e “vendicatore” di Waco? Non lo sappiamo.
Di sicuro, il fatto che “La fine della libertà” abbia dovuto remare fino in Italia prima di trovare un editore disponibile, la coraggiosa Fazi Editore, significa che qualcosa nella culla dei diritti dell’uomo dev’essere cambiato. Cosa? Probabilmente l’aria. Ma è ancora niente in confronto a quello che ci si profila davanti: l’accelerazione di un processo che – ammonisce Vidal – era già in atto molto prima che gli aerei di Bin Laden o chi per lui si schiantassero contro le Torri Gemelle.
Un processo che, in nome del “nemico del mese” (il comunismo, la droga, il terrorismo, gli invasori del Kuwait o non si sa chi) sta portando dritti alla cessazione di quelle libertà individuali di cui la democrazia americana si era fatta garante.
Libertà individuali che, sottolinea l’autore, una volta alienate sarà difficile rimettere in peidi con un improbabile meccanismo inverso.

 

IL FOGLIO
– 22/11/2001

 

Scandaloso Vidal

 

Un grande scrittore scherza col fuoco, e l’America decreta un feroce ostracismo bellico

Roma. Vento di tempesta sulla Rondinaia, la villa di Ravello dove Gore Vidal vive parte dell’anno. Il suo ultimo saggio “L’11 settembre e dopo”, commissionato da Vanity Fair all’indomani del crollo delle Twin Towers, è stato cestinato. E il Sunday Mail ha fatto lo stesso: gli ha chiesto un pezzo, ma dopo averlo letto ha preferito rimpiazzarlo con uno meno ostico di un autore di best sellers. Il fatto è che Vidal è uno scrittore eccentrico. Progressista radicale e fustigatore dell’establishment, narratore versatile e cultore critico della storia patria, aristocratico e trasgressivo, un piede nel jet-set, un altro a Hollywood, ostenta da anni posizioni controverse. Sostiene adesso che l’America è diventata uno stato di polizia e ha tradito gli ideali dei padri fondatori, sacrificando le libertà dei cittadini alla guerra contro il terrorismo. Il programma, inaugurato da Bill Clinton con l’Anti-Terrorist and Effective Death Penalthy Act, che autorizza la giustizia di guerra anche contro i civili, sospendendo l’habeas corpus, è stato corroborato dall’amministrazione Bush che ha imposto un nuovo giro di vite. Per questo, le tesi di Vidal spaventano gli editori, che temono di perdere pubblicità e lettori e di prendersi una sberla da Washington. Così, mentre lo scrittore, dal suo ritiro wagneriano, continua a sfogare la vena polemica in un nuovo saggio per The Nation, dove cercherà di dimostrare (se pubblicato) come George W. Bush avesse di fatto perso le elezioni, il suo editore italiano Fazi pubblica in esclusiva mondiale l’articolo censurato da Vanity Fair, raccogliendo nello stesso volumetto, “La fine della libertà”, il saggio su Timothy Mc Veigh, veterano della guerra del Golfo giustiziato per l’eccidio di Oklahoma City, quello sul massacro dei Dieci Emendamenti della Costituzione, e un altro sui nuovi teocrati.

 

Giovanni Borgognone, BELFAGOR
– 31/03/2002

 

La fine della libertà

 

Vidal non manca certamente di una chiara propensione per le ipotesi di complotto. Né si esime, talvolta da giudizi tagliati con l’accetta più che con il bisturi, come nella definizione del Wall Street Journal quale “allegro neofascista”. Ma gli abusi nelle intercettazioni telefoniche, le piccole violazioni della privacy da parte dei sofisticati sistemi di controllo a raggi X negli aeroporti, l’uso straordinario dei poteri di arresto, il ricorso troppo facile della polizia ad assalti e sequestri, fino ad arrivare ai casi estremi, come il massacro dei membri di una setta religiosa, tra cui ventisette bambini, compiuto dall’FBI nel ’93 a Waco, sono segnali reali della stridente contraddizione americana tra le esigenze di “sicurezza” e la retorica della libertà. Il discorso si estende alla politica internazionale degli Stati Uniti: una “guerra perpetua per la pace perpetua” l’ha definita Charles A. Beard. Dal ’47 ad oggi, attraverso omicidi politici, colpi di Stato e squadroni della morte, gli Stato Uniti hanno messo in atto una sorta di “terrore preventivo”. Gli ex-alleati che diventano incarnazioni di Satana, come è accaduto a Saddam Hussein e a Osama Bin Laden, devono indurre, secondo Vidal, a riflettere sulla strumentalizzazione del moralismo da parte dei poteri forti in America, e sulla pericolosa alleanza tra il “fondamentalismo cristiano” ed un “capitalismo feroce, decadente e schiavo del totalitarismo”.

 

Pompeo Onesti, LA CITTÀ
– 09/01/2002

 

Libertà e totalitarismi nel nuovo libro di Vidal

 

Negli Stati Uniti la “libertà” si commercializza con spot pubblicitari. La si compera al supermercato come una merce qualsiasi, la si trova ad ogni angolo di strada. E, come tutte le merci la cui produzione è inflazionata, tende a perdere di valore fino al punto che per diffonderla bisogna regalarla. Il libro di Gore Vidal, autore americano da annni trapiantato a Ravello, è un campanello d’allarme per gli Stati Uniti e anche per l’Europa e gli altri abitanti della terra. Russia inclusa. L’autore sembra dire che l’età della Repubblica negli Stati Uniti è tramontata. E, proprio come accadde ai Romani dopo la Repubblica, negli Stati Uniti sta nascendo l’Impero. Potenti famiglie lottano per la conquista del potere visto in funzione esclusivamente personale o familiare. Non si fa politica per gli altri, per il popolo, si conquista il potere per fare gli interessi della propria famiglia; intendendo come “famiglia” il gruppo che si è unito eleggendo un proprio rappresentante da portare alla Presidenza degli Stati Uniti. Di conseguenza le lotte interne in questo paese, dove nessuno vuole cedere un grammo della propria ricchezza, tra i detentori del potere e coloro che ne sono fuori, ma lottano per conquistarlo, è feroce, brutale, senza limiti. Allora, sembra dire Vidal, tutto è possibile, anche “l’invenzione” del terrorismo pur di raggiungere lo scopo che resta sempre lo stesso, la conquista del posto di “imperatore del mondo”. Conseguenza di tale lotta è l’instabilità politica, economica e sociale in molte parti del mondo, nonché il pericolo della perdita della libertà negli Stati Uniti. Si sa che il potere è un animale che ingrossa e ingrassa se la libertà, la colomba, smagrisce e si assottiglia; meglio se muore. E’ un libro inquietante che fa riflettere.

 

ALTO ADIGE – CORRIERE DELLE ALPI
– 19/12/2001

 

Gore vetriolo

 

Una raccolta di quattro saggi inediti di Gore Vidal (1925) pubblicata da Fazi in esclusiva mondiale.
Con feroce corollario di polemiche. Tra le tesi sostenute la preoccupazione che la tragedia degli attacchi agli Usa abbia accelerato un processo già in corso: le libertà individuali garantite dalla democrazia americana, il cui fondamento risiede nel “Bill of Rights”, hanno incominciato ad essere disattese con sempre maggiore frequenza in nome della lotta al terrorismo e alla droga.
Da oggi in poi, per combattere Osama Bin Laden e il terrorismo potrebbe essere definitivamente messa da parte ogni garanzia dei diritti con conseguenze difficilmente immaginabili: “una volta cancellato” avverte Vidal “un diritto inalienabile può essere perso per sempre, nel qual caso non saremmo più l’ultima e migliore speranza della terra ma solo uno squallido stato imperiale la cui maggiore preoccuapzione è tenere a bada i suoi cittadini e il cui stile di morte, e non di vita, viene imitato da tutti”.

 

L’UNIONE SARDA
– 17/11/2001

 

Ecco il Vidal censurato in America

 

I quattro saggi di Gore Vidal che i giornali americani si sono rifiutati di pubblicare hanno dato corpo ad un libro edito in Italia da Fazi e appena dostribuito: La fine della libertà. Con il suo stile serrato e amaramente ironico, e con coraggio, Vidal spiega come le nostre libertà abbiano ricevuto il colpo di grazia con il crollo delle Torri Gemelle, dopo “i segnali infausti avvertiti negli anni Settanta”, l’Anti-Terrorism Act del 1991 e la recente richiesta del Congresso di poteri speciali supplementari. Sostiene fra l’altro che l’America sia in pieno processo di involuzione e parla di “massacro dei Dieci Emendamenti” della Costituzione. Dei quattro saggi pubblicati nel libro, uno (il primo) è inedito.

 

LIBERAZIONE
– 20/11/2001

 

“La fine della libertà”, Gore Vidal

 

Da sempre osservatore acuto e spregiudicato della “sua” America, Gore Vidal negli ultimi anni (in gran parte trascorsi in Italia) si è dedicato nei suoi scritti a una sorta di rilettura della recente storia d’America.
Così è stato per “Palinsesto”, così per il recente “L’età dell’oro”, testi entrambi che rileggono gli eventi statunitensi da ottiche decisamente originali e di controtendenza. Come la tesi, adombrata per primo da Vidal, di un Roosvelt a conoscenza dell’attacco di Pearl Harbor, utilizzato come motivo scatenante per l’entrata nella seconda guerra mondiale.
In “La fine della libertà” Vidal sottolinea il nuovo grande pericolo figlio del recente conflitto: ovvero la definitiva perdita delle libertà individuali sinora garantite dalla democrazia americana.

 

Traduzione di Monica Leavy, LOS ANGELES WEEKLY/CORRIERE DELLA SERA
– 03/09/2002

 

«America, stai pagando la tua guerra perpetua»

 

«Non siamo andati in Afghanistan per prendere Osama ma perché i talebani mettevano in pericolo la costruzione di un oleodotto che avrebbe trasportato il petrolio del Caspio. E’ il momento di ritirare il nostro Impero: ci è costato miliardi di dollari e non serve a nessuno»
Gore Vidal, 76 anni, ha passato la vita a criticare gli impulsi imperiali americani, e attraverso una ventina di romanzi e centinaia di saggi ha sostenuto con forza la necessità che gli Stati Uniti tornino alle loro radici jeffersoniane, la smettano di immischiarsi nelle faccende di altre nazioni e in quelle private dei propri cittadini. E’ questo il filo conduttore dell’ultimo best-seller di Vidal – una raccolta di saggi pubblicati sull’onda dell’11 settembre dal titolo Perpetual War for Perpetual Peace: How We Got to Be so Hated («Guerra perpetua per la pace perpetua: come siamo arrivati a essere tanto odiati», tradotto in Italia con il titolo «La fine della libertà»). Per rispondere all’interrogativo, Vidal parte dal presupposto che non abbiamo il diritto di domandarci che cosa abbia motivato gli autori dei due più grandi attacchi terroristici della nostra storia, la bomba di Oklahoma City nel 1995 e la distruzione delle Torri Gemelle nel settembre scorso. «E’ una legge della fisica – dice Vidal -: non esiste in natura azione senza reazione. La stessa cosa sembra valere per la natura umana, cioè la storia».
L’«azione» cui Vidal si riferisce è la prepotenza dell’impero americano all’estero (illustrato da venti pagine di grafici sulle avventure militari statunitensi oltreoceano dalla fine della seconda guerra mondiale) e l’innesto di uno stato di polizia in patria. L’inevitabile «reazione» non è altro che l’opera sanguinaria frutto delle mani di Osama bin Laden e di Timothy McVeigh. «Ciascuno – scrive – arrabbiato per le avventate aggressioni del nostro governo ad altre società», e quindi «provocato» a rispondere con orrenda violenza.

Lei sta sostenendo che i tremila civili americani uccisi l’11 settembre si meritavano in qualche modo il loro destino?

«Non credo che noi, popolo americano, ci meritassimo ciò che è accaduto. Né ci meritiamo i governi che abbiamo avuto negli ultimi quarant’anni. Sono i nostri governi ad averci procurato tutto questo con le loro azioni in giro per il mondo. Nel mio nuovo libro c’è un elenco che dà al lettore un’idea di quanto siamo stati impegnati in interventi militari. Purtroppo riceviamo soltanto la disinformazione dei canali ufficiali. Gli americani non immaginano l’entità delle malefatte del loro governo. Il numero di interventi militari messi a segno contro altri Paesi senza essere stati provocati ammonta a oltre 250 dal 1947-48. Sono interventi di rilievo, da Panama all’Iran. E l’elenco non è neppure completo. Non comprende paesi come il Cile, perché è stata un’operazione della Cia. Mi sono limitato a elencare gli attacchi militari». «Il governo gioca con la relativa innocenza degli americani, o per essere più precisi con la loro ignoranza. Ecco probabilmente il motivo per cui dalla seconda guerra mondiale la geografia non viene praticamente più insegnata: per mantenere la gente all’oscuro su dove stiamo bombardando. Perché la Enron lo vuole. O perché la Unocal, la grande compagnia petrolifera, vuole una guerra da qualche parte».
«E la gente dei Paesi che ricevono le nostre bombe si arrabbia. Gli afgani non avevano niente a che fare con quanto è successo al nostro Paese l’11 settembre. L’Arabia Saudita invece sì. Quando siamo andati in Afghanistan, al nostro capo delle operazioni militari è stato chiesto quanto tempo ci sarebbe voluto per trovare Osama bin Laden. E il generale, piuttosto sorpreso, ha risposto che non era quello il motivo per cui eravamo lì».

«Ah no? E qual è la storia allora? Ci hanno così spiegato che i talebani sono gente molto molto cattiva, che tratta molto male le donne. A loro non interessano sicuramente i diritti delle donne, mentre noi in fatto di diritti delle donne siamo molto forti; e dobbiamo essere con Bush su questa cosa perché sta togliendo quei sacchi di patate dalla testa delle donne».

«Beh, no, la storia non è proprio così. La storia vera è che questa è una stretta imperiale sulle risorse energetiche. Fino a oggi la nostra principale fonte di petrolio importato è stato il Golfo Persico. Siamo andati là, in Afghanistan, non per prendere Osama e infliggergli la nostra vendetta. Ci siamo andati in parte perché i talebani stavano diventando troppo inaffidabili. E poi perché la Unocal, la compagnia californiana, aveva stipulato un accordo con loro per un oleodotto che trasportasse il petrolio del Caspio, la riserva petrolifera più ricca al mondo. Con l’oleodotto volevano fare arrivare il petrolio in Pakistan, a Karachi, passando dall’Afghanistan, e da lì mandarlo via mare in Cina».

Eppure al di là dell’elenco degli interventi militari americani riportati nel suo libro, non crede che esistano altre forze del male?

«Oh sì. Ma qui viene scelto il gruppo sbagliato, una delle famiglie più ricche al mondo – i bin Laden. Sono estremamente vicini alla famiglia reale dell’Arabia Saudita, che ha portato noi americani a farle da guardia del corpo contro possibili rivolte da parte del suo stesso popolo. Un popolo ancora più fondamentalista di quanto non lo siano i suoi sovrani. Abbiamo quindi a che fare con un’entità potente. Quello che non è vero però è il mito che gente come lui sbuchi dal nulla».

Eppure gli americani sembrano abbastanza sensibili a quella sorta di sciovinistico «club del nemico del mese» che viene fuori da Washington. Tuttora la maggioranza dichiara di appoggiare George W. Bush, soprattutto sulla questione della guerra.

«Spero che lei non creda alle cifre. Non sa come vengono manipolati i sondaggi? E’ semplice. Dopo l’11 settembre il paese era veramente scioccato e terrorizzato. Bush fa una misera danza di guerra e parla dell'”asse del male” e di tutti i paesi che ha intenzione di braccare. E lo vediamo lì che reagisce, che bombarda l’Afghanistan. Be’, potrebbe anche bombardare la Danimarca. La Danimarca non ha avuto a che fare con l’11 settembre? Nemmeno l’Afghanistan. Non gli afghani, almeno. Quindi ci domandano sempre la stessa cosa: sei orgoglioso del tuo presidente? Sei con lui mentre ci difende? Ma finiranno per capirlo».

Finiranno chi? Gli americani?

«Sì, gli americani. Ai quali fanno queste domande veloci. “Lei approva l’operato del presidente”? “Oh, sì, sì. O sì, ha fatto saltare in aria tutte quelle città con i nomi strani…”. Ma ciò non significa che amino Bush. Quando lascerà l’incarico sarà il presidente più impopolare di tutta la storia. Le istituzioni erano troppo pronte con il Patriot Act (la legislazione di emergenza anti-terrorismo approvata a fine ottobre 2001 tra le accuse di molti democratici, giuristi e delle associazioni per i diritti civili, ndr ) appena siamo stati colpiti. Bush e i suoi uomini erano pronti a togliere l’ habeas corpus , il legittimo processo, l’inviolabilità delle comunicazioni tra avvocato difensore e assistito. E questo significa che sono già al loro stato di polizia».

Secondo lei gli Stati Uniti dovrebbero prendere armi e bagagli e tornarsene a casa da tutto il pianeta?

«Sì, senza eccezione alcuna. Noi non siamo i poliziotti del mondo. Non riusciamo nemmeno a mantenere il controllo negli Stati Uniti, salvo per rubare denaro alla gente e in generale provocare distruzione. Nella maggior parte del Paese la polizia è vista abbastanza spesso, e giustamente, come il nemico. Credo che sia il momento di mandare in pensione l’impero – non sta facendo del bene a nessuno. Ci è costato cifre incalcolabili, e questo mi fa pensare che sia destinato a crollare da solo perché alla fine non saranno rimasti abbastanza soldi per farlo funzionare».

 

 

Tiziano La Porta,

 

La fine della libertà

 

La fine della libertà

“Adesso anche noi sappiamo; o, come diceva mio nonno ai suoi tempi in Oklahoma: ‘Ogni frittella ha due lati'”

In copertina la testa della statua della Libertà imbavagliata. Un’immagine bella e inquietante. Sembra un po’ un fumetto. E però stride con quell’altro fumetto che qualcuno avrà di sicuro immaginato lo scorso 11 settembre: Superman in mezzo ai grattacieli che sollevando un braccio ferma gli aerei e salva le due torri. Ma questo non è mai accaduto, dando a molti quella sgradevole sensazione che assai bene raccontava Douglas Coupland nel suo “La vita dopo Dio” quando a un certo punto scriveva della tristezza del giorno in cui aveva appreso che Superman era morto. La sensazione di disperazione quando prendi atto che neanche un supereroe riesce a farcela. E per un attimo, consapevole della tua stupidità, pensi: se gli americani non avessero fatto morire Superman, forse avrebbero ancora qualche speranza.
Quanto accaduto martedì 11 settembre 2001 è talmente grave, buio e complesso che ancora stiamo cercando di ricostruire nella nostra mente l’intera faccenda. E procediamo per tentativi, barcamenandoci tra editoriali, saggi e puro buon senso, senza essere ancora arrivati da nessuna parte (sempre che ci sia un qualche posto dove arrivare). Tuttavia non ci arrendiamo e, di lettura in lettura, prendiamo tra le mani il bel saggio di Gore Vidal.
Si chiama “La fine della libertà. Verso un nuovo totalitarismo?” (Fazi Editore, traduzione di Laura Pugno, pp. 120, euro, 12,91) e, per la più parte, racconta una riuscita metafora di quella che è l’America oggi. La metafora è la triste storia – realmente accaduta – di Timothy McVeigh. Meglio: la fine della storia. Il 2 giugno 1997 Timothy viene condannato a morte per avere messo, il 19 aprile 1995, una bomba a Oklahoma City causando la morte di 168 persone. A monte, il 19 aprile 1993, la strage compiuta dall’FBI e dall’esercito statunitense a Waco, in Texas, in cui persero la vita 82 persone, di cui 30 donne e 25 bambini, tutti membri della setta guidata da David Koresh (setta pacifica che viveva e pregava insieme nell’attesa della fine del mondo). Strage che McVeight pare, proprio nel giorno del secondo anniversario, abbia voluto vendicare (o forse si sia soltanto trovato a vendicare). Una vendetta mossa da quel senso di giustizia che, quando tutto intorno sembra negarlo, da qualche parte torna ad affiorare e porta a fare gesti che diventano più grandi della vita stessa. Una morte disperata quella di McVeigh, rimasta all’oggi poco chiara e diventata un labirinto di storie in cui si procede sbattendo la faccia su specchi che riflettono specchi che riflettono specchi. E in sottofondo la domanda: la libertà è tutto questo? Mentre Bush lancia il suo proclama al mondo: “O siete con noi o siete con i terroristi”. Aggiunge Vidal: “Questo si chiama andarsela a cercare”.

 

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Myra Breckinridge

Gore Vidal

Introduzione di Claudio Gorlier Traduzione di Vincenzo Mantovani «Io sono nata per essere una stella, e oggi ne ho tutta l’aria». Fin da bambina Myra vuole entrare nello sfavillante mondo di Hollywood, tanto da plasmare la propria vita come fosse una continua messa in scena: creatura...
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Duluth

Gore Vidal

Con uno scritto di Italo Calvino Traduzione di Alberto Cellotto Duluth è una città degli Stati Uniti, un serial televisivo, un luogo in cui vengono meno le coordinate narrative del tempo e dello spazio. A Duluth si incrociano, fra gli altri, una donna tenente bionda e procace, un terrorista...
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Il giudizio di Paride

Gore Vidal

Traduzione di Caterina Cartolano Attraverso le vicende del giovane protagonista, Vidal reinterpreta il mito greco di Paride, il principe di Troia che dovette scegliere tra Era, Atena e Afrodite, ovvero: il potere, la saggezza e la bellezza. Philip Warren, ventottenne americano colto e dandy,...
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L’invenzione degli Stati Uniti

Gore Vidal

Traduzione di Marina Astrologo Gore Vidal torna a parlare di storia americana. Stavolta non si tratta di un romanzo ma di un saggio, che negli USA ha ricevuto recensioni entusiastiche ed è stato tra i libri storici di maggior successo degli ultimi anni, con oltre 200.000 copie vendute....
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Democrazia tradita

Gore Vidal

Traduzioni di Marina Astrologo, Giuseppina Oneto e Stefano Tummolini Dopo La fine della libertà (2001) e Le menzogne dell’impero (2002), bestseller tradotti in venti paesi, un nuovo contributo di Vidal alla riflessione politica interna ed esterna agli USA. In prima edizione mondiale, Democrazia...
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Il canarino e la miniera

Gore Vidal

Traduzione di Stefano Tummolini Postfazione di Claudio Magris «“La vita”, scrive Gore Vidal condensando fulmineamente in mezza riga il senso dell’Educazione sentimentale di Flaubert, “non è altro che deriva”. Anche i cinquant’anni in cui spaziano questi suoi saggi – il primo lo ha...
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Le menzogne dell’impero e altre tristi verità

Gore Vidal

Traduzione di Luca Scarlini e Laura Pugno A un anno di distanza dall'uscita di La fine della libertà, Gore Vidal torna in libreria con un nuovo esplosivo volume di saggi. Pezzo forte di questo secondo piccolo capolavoro di polemica e analisi politica è il saggio "L'amministrazione Bush e l'11...
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Palinsesto

Palinsesto

Gore Vidal

Traduzione di Maurizio Bartocci In Palinsesto Gore Vidal racconta la sua vita di scrittore controcorrente nella usuale prospettiva di coscienza critica dell’impero americano. Dall’adolescenza a Washington quale nipote del senatore T.P. Gore all’apprendistato letterario e alla scandalosa...
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