Gore Vidal

Le menzogne dell’impero e altre tristi verità

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Perché la «junta» petroliera Cheney-Bush vuole la guerra con l'Iraq e altri saggi

Collana:
Numero collana:
44
Pagine:
146
Codice ISBN:
9788881123773
Prezzo cartaceo:
€ 13,00
Data pubblicazione:
25-10-2002

Traduzione di Luca Scarlini e Laura Pugno

A un anno di distanza dall’uscita di La fine della libertà, Gore Vidal torna in libreria con un nuovo esplosivo volume di saggi.

Pezzo forte di questo secondo piccolo capolavoro di polemica e analisi politica è il saggio “L’amministrazione Bush e l’11 settembre”; in esso Vidal si spinge a sostenere che l’amministrazione USA conoscesse in anticipo ciò che stava per succedere l’11 settembre e abbia intenzionalmente deciso di “lasciarlo succedere”, in quanto la successiva guerra al terrorismo avrebbe consolidato le sue posizioni di dominio politico ed economico sul mondo intero. E alle bugie degli “ultimi imperatori” sono dedicati anche gli altri undici brevi saggi. Uno di essi, completamente inedito, verte ancora sull’11 settembre e sulle sue conseguenze per la politica estera statunitense e l’equilibrio globale; negli altri, con il suo consueto stile sferzante e di impareggiabile eleganza, Vidal tocca altrettanti episodi “sporchi” della storia americana del Novecento: dalla decisione di sganciare l’atomica su Hiroshima, all’affermarsi della dottrina Truman; dal poco noto ma sanguinario intervento in Guatemala all’espandersi delle basi militari USA in tutta l’Eurasia, all’eccessiva, scandalosa autonomia delle agenzie di intelligence. Tuttavia, non è tutto destruens il Vidal di questo nuovo libro, e avanza proposte concrete, in ordine a un maggiore controllo dei rapporti fra élite economiche e politiche americane (in altre parole, al conflitto d’interessi), e persino alla struttura statuale: perché non fare degli obsoleti Stati Uniti una comunità federale, sull’esempio dell’Unione Europea?

LE MENZOGNE DELL’IMPERO E ALTRE TRISTI VERITÀ – RECENSIONI

 

NIGRIZIA
– 10/04/2003

 

Le menzogne dell’impero e altre tristi verità

 

Nella tragedia dell’11 settembre 2001 c’è un aspetto più che inquietante: i caccia statunitensi avrebbero dovuto alzarsi subito con il primo dirottamento. Invece lo fecero un’ora e venti minuti dopo. Se avessero seguito la procedura standard, tutti gli aerei dirottati avrebbero potuto essere abbattuti e le due torri sarebbero rimaste in piedi. Vidal, uno dei maggiori saggisti viventi, espone i fatti e poi si chiede chi abbia ordinato all’aviazione di non muovere un dito. E indirizza un’accusa feroce: Bush ha lasciato fare per avere via libera alle guerre mediorientali, le guerre del petrolio. Le menzogne dell’impero è un libretto esplosivo che rilegge, oltre all’attaco dell’11 settembre, altre date fondamentali della recente storia americana. Dall’attacco giapponese di Pearl Harbor nel dicembre 1941, alle bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki. Sganciate, si disse allora, per far finire subito la guerra e risparmiare così vite umane. In realtà il Giappone cercava già da mesi la pace.
Vidal ricostruisce i fatti ed espone la sua tesi: le bombe furono lanciate per intimorire Stalin, i potenti alleati degli Usa contro Hitler che però si profilava già come futuro temibile rivale. Fu l’inizio dell’impero globale americano che prese il posto della vecchia repubblica fondata sulla costituzione e sui dieci comandamenti. L’inizio di una “guerra infinita” per una “pace infinita”, che non arriva mai.

 

Alessandra Farkas, IL CORRIERE DELLA SERA
– 23/03/2003

 

Gore Vidal: “La guerra a puntate, nuova dottrina politica dell’ Impero”

 

“A Bush-Cheney interessa il dominio dell’ energia mondiale” “I media Usa disseminano solo propaganda patriottica”
Lo scrittore attacca quella che definisce “la junta al potere”. E teme per i diritti civili nell’ era della lotta al terrorismo

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE NEW YORK – Nel suo ultimo libro, Le Menzogne dell’ Impero e altre tristi verità (Fazi), Gore Vidal, uno dei massimi uomini di lettere americani, accusa la “junta” (alla sudamericana) Cheney-Bush di aver saputo in anticipo dell’ attentato dell’ 11 settembre ma di aver “chiuso gli occhi” per potere avere poi la giustificazione per scatenare la guerra globale al terrorismo. “Una scusa – scrive Vidal, 77 anni – per impossessarsi delle riserve di petrolio irachene e mediorientali, dopo aver spianato la strada agli oleodotti che gli Usa costruiranno in Afghanistan”.

Una guerra per il petrolio?
“E’ ovvio che il vero scopo di questa guerra è ottenere il controllo dei pozzi di oro nero iracheni: i più ricchi al mondo, dopo quelli dell’ Arabia Saudita. Ma almeno la metà degli americani ha capito l’ antifona e milioni di persone scendono in piazza a protestare”.
Crede davvero che metà del Paese la pensa come lei?
“Certo, anche se queste dimostrazioni sono spesso ignorate dalle corporation americane. Proprietarie dei nostri media e insieme dei consorzi petroliferi che l’ amministrazione Bush ha una gran fretta di far sbarcare in Iraq e dintorni, visto che secondo le stime governative il mondo sarà a corto di petrolio entro il 2020”.
Ma secondo i sondaggi il sostegno alla guerra e a Bush stanno aumentando.
“Un aumento insignificante. Purtroppo i media non fanno altro che disseminare fedelmente la propaganda dell’ amministrazione, la cui versione dei fatti è l’ unica campana che la maggior parte degli americani potrà mai ascoltare. Ma grazie a Internet, al giornalismo europeo e ad altre fonti, verità scomode come quelle di cui scrivo sono sempre più accessibili. In un recente sondaggio il 48% degli americani ha detto che, se le elezioni si tenessero oggi, voterebbe per qualsiasi candidato democratico al posto di Bush. La notizia è apparsa a pagina 24 del Los Angeles Times mentre il New York Times, portavoce della corporate America, l’ ha soppressa”.
Come giudica la copertura delle tv?
“E’ patriottica e di parte. L’ amministrazione ha letteralmente cooptato i giornalisti, incastonandoli e mimetizzandoli nelle varie unità militari da dove vedono ben poco e riportano ancora meno”.
Secondo alcuni la guerra può essere comunque giustificata se alla fine libererà un popolo oppresso da anni di crudele e sanguinaria dittatura.
“Al governo americano non importa nulla del popolo iracheno e ancora meno della sua libertà e benessere. La prima Guerra del Golfo ha causato la morte per fame e malattia di mezzo milione di bambini iracheni. All’ impero globale interessa solo il dominio dell’ energia mondiale ed è ciò che sta ottenendo”.
Adesso che il tabù della “guerra preventiva” è stato rotto, quale sarà il prossimo Paese a essere attaccato?
“Nel corso dell’ ultima campagna elettorale in Israele, il premier Sharon ha detto che sarà l’ Iran. L’ unica cosa certa è che la guerra semi-permanente e “a puntate” adesso fa parte della dottrina politica degli Stati Uniti”.
Secondo alcuni esponenti dell’ amministrazione Bush una rapida conclusione del conflitto e un numero limitato di vittime civili potrebbero contenere il dilagante anti-americanismo.
“Non sono un profeta. La mia preoccupazione principale è mantenere le libertà civili sancite dalla Costituzione Usa ma disintegrate dall’ amministrazione Bush col Patriot Act varato dal Congresso 45 giorni dopo l’ 11 settembre. Il suo artefice, John Ashcroft, ha già pronto il raddoppio, “il Patriot Act numero 2”, che revocherà la cittadinanza americana e deporterà qualsiasi persona nata in America in odore di terrorismo. Vorrei poter dire che il mio cuore piange per ogni iracheno e americano danneggiato da questa avventura ma non è così: non sono un sentimentale per principio. Però tremo per il mio Paese, e per questo mi batto contro chi vuol revocare il nostro diritto “alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità” fissato da Thomas Jefferson nella Dichiarazione di Indipendenza”.

 

 

Mario Turello, MESSAGGERO VENETO
– 18/02/2003

 

Letteratura e pensiero contro la guerra, “malattia della civiltà”

 

Gli scritti di Janigro, Vidal e Krippendorff affrontano un tema fondamentale

Queste mie segnalazioni librarie s’innestano nelle considerazioni che ho esposto in occasione del convegno Se vuoi la pace prepara la pace organizzato la scorsa settimana dal Movimento ProPositivo. Bello il rovesciamento del motto latino “Si vis pacem para bellum” (che la deterrenza difficilmente resti tale è implicito nella stessa etimologia che accomuna il verbo parare: preparare, a parere: generare) ma come si prepara (e genera) la pace? Una cosa è affermare, chiedere, reclamare la pace, altra cosa è promuoverla. Giuste, doverose, sacrosante le manifestazioni pacifiste nell’imminenza di una guerra, per esecrarla, per stornarla, ma rischiano di essere, per quanto nobili, iniziative estemporanee, emotive, suscitate più dall’emergenza che da una consuetudine d’impegno, da un esercizio quotidiano (anche privato), da una tensione incessante alla pace perpetua invocata da Kant: la pace non è assenza, e tanto meno sospensione temporanea, della guerra. È una mentalità, una cultura, una morale della pace quella che va promossa, e io penso che vi si possa giungere con metodo socratico: critico e maieutico.
La critica dovrebbe avere come oggetto la guerra nella sua fondamentale irrazionalità, e come scopo ultimo la sua tabuizzazione. Ne abbiamo gli strumenti: dalla storia della stupidità militare tracciata da Barbara Tuchman all’analisi dei meccanismi di potere (Canetti, per esempio) o dei meccanismi vittimari (Girard), una vasta letteratura ci fornisce argomenti per decostruire il bellicismo. Segnalo tra le pubblicazioni più recenti l’antologia di Nicole Janigro che, sotto il titolo eloquentissimo La guerra moderna come malattia della civiltà, sviluppa la lettura della guerra in chiave patologica attraverso testi di Freud, Jung, Fromm, Fornari, Eibl-Eibesfeldt, Girard, Ahmed, Colovic, Papadopoulos, e della stessa Janigro: pulsioni necrofile e stereotipi, mitologie “eroiche” e retoriche della violenza sottoposte ad analisi che dimostrano, come ebbe a scrivere Freud ad Einstein, che «la guerra contraddice nel modo più stridente a tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo di incivilimento».
Più immediatamente, la critica dovrebbe aggredire, smontare e smentire la falsità intrinseca, le menzogne e i silenzi strumentali, le ipocrisie del discorso bellicista dei «messianici cretini» (come ottimisticamente li chiama Sepulveda) che camuffa troppo ciniche realtà: a cominciare dall’assurdo logico della “guerra preventiva”, dall’obliterazione di fatto del diritto internazionale e degli statuti costituzionali (il nostro articolo 11!), dalla riduzione pretestuosa del pacifismo a meno nobili motivazioni: (anti o filoamericanismo, anti o filooccidentalismo, anti o filogovernativismo, dall’elevazione del conflitto a scontro finale tra Bene e Male…). Ristabilire la verità: non perché si pretenda di possederla, ma perché vi sono criteri assiologici che diventano veritativi, e perché vi sono falsità autoevidenti. Anche qui possiamo attingere a una ricca pubblicistica: dai pamphlet di Chomsky al recente libro di Zinn Non in nostro nome, ai saggi di Gore Vidal su Le menzogne dell’impero e altre tristi verità, catalogo e svelamento delle bugie degli “ultimi imperatori”.
Ma non basta la pars destruens: occorre una maieutica della pace che sappia instaurare una mentalità, una consuetudine, una cultura pacifica. E questo esige che si restituisca moralità alla politica, che essa riassuma come primaria l’istanza del bene comune, spogliandosi dei pragmatismi, dei machiavellismi, dell’asservimento ad altri poteri e ad altri fini. È paradossale che persino il richiamo all’etica diventi motivo di contesa (ne sa qualcosa Riccardo Illy), ma il fatto è che spesso si identifica impropriamente, ma non senza riscontro pratico, l’etica con l’ideologia religiosa e, dunque, anche con i fondamentalismi che sono la negazione di ogni irenismo.
Ma è proprio sul piano etico che i teologi delle religioni, da tempo riconosciuta la difficoltà del dialogo su quello dottrinale, stanno concentrando i loro sforzi, e al lavoro di Hans Küng (Progetto per un’etica mondiale, Rizzoli 1991) o di Pier Cesare Bori (Per un consenso etico tra culture, Marietti 1991), per esempio, si potrebbe attingere per istituire il patto (pactum ha la stessa radice di pax: e si svela la vera natura della pace come convenzione sui valori) sui “convincimenti etici fondamentali” da cui sviluppare quello che Kant chiamava il diritto cosmopolitico. Anche qui, non si tratta di definizioni assolute, o sovradeterminate come tali da “metanarrazioni”, ma di quelli che il gesuita Xavier Giraldo in occasione del convegno organizzato nello scorso settembre dall’Associazione Balducci, Le ragioni della speranza, ha chiamato «valori autovalidanti».
Tornare al vero e al bene, dunque. E il bello? Mi sono spesso chiesto se possa trovare realizzazione politica la profezia di Dostoevskij per cui la bellezza salverà il mondo. L’indicazione di una via estetica alla (ri)moralizzazione della politica ci viene ora offerta da L’arte di non essere governati. Politica etica da Socrate a Mozart, di uno dei maggiori politologi tedeschi, Ekkehart Krippendorff. «Il libro di Krippendorff è una stupenda indicazione della via da seguire se vogliamo salvarci. È un incoraggiamento a riscoprire, attraverso la nostra stessa storia, il meglio dell’uomo. Questo libro mi ha ridato speranza», ha scritto Tiziano Terzani, e davvero quest’opera, formata di saggi in sé autonomi, ma fortemente coerenti, indica strade nuove, anzi antiche, degne di essere percorse. Il titolo è una citazione da Foucault, che descrive l’arte di non essere governati nei termini di una critica radicale del politico («non voler essere governati significa… non voler accettare come vero ciò che un’autorità dichiara esser vero, o comunque non accettare per vero qualcosa perché un’autorità ci prescrive di ritenerlo vero»). Ma anche Krippendorff muove dalla critica alla proposta positiva, e già in prefazione indica, come prosecuzione sottaciuta del titolo: «con particolare riguardo alla questione del contributo che l’educazione estetica possa dare alla critica della politica e della sua ricostruzione». E i suoi modelli sono Socrate, Goethe, Mozart (accanto a essi, Lao-Tzu e Confucio, Budda e Gandhi, Luxemburg e Mandela, Weber e Kraus, Kant e Verdi). In posizione centrale è il tredicesimo capitolo, dedicato appunto all’educazione estetica, in cui viene sostenuta, tra l’altro, la funzione antagonistica dell’arte rispetto alla prassi politica di dominio, ma ciascuno dei ventiquattro saggi meriterebbe un’analisi che qui non può trovare spazio. Segnalo almeno le pagine su Destra e sinistra, e in particolare le dieci tesi del 1992 sulla “prospettiva di sinistra” e, in appendice, il carteggio tra Yehudi Menhuin, le cui riflessioni sulla pace culminano nella citazione di Edmund Burke: «L’unico presupposto per il trionfo del male è l’inattività delle brave persone» e nell’impegno a «lottare per l’irraggiungibile», e Krippendorff, che difende la sua predilezione per Mozart quale paradigma musicale per una prassi socio-politica: «Ciò di cui abbiamo bisogno è, per così dire, un “partito mozartiano”».

 

Alberto Mingardi, IL TEMPO
– 17/01/2003

 

Vidal e gli Usa. Non è tutt’oro quel che riluce

 

«NON CI piace il modo in cui viene governata Singapore (ma non sono certo affari nostri), eppure, parlando in termini relativi, è un successo commerciale maggiore degli Stati Uniti, che potrebbero prosperare, una volta che l’impero mettesse da parte le proprie miserie, se fossero divisi in unità più piccole sul modello dei cantoni svizzeri». Scrive così Gore Vidal, in una bella pagina del suo «Le menzogne dell’impero e altre tristi verità. Perché la junta petroliera Cheney-Bush vuole la guerra con l’Iraq e altri saggi» (Ed. Fazi, 150 pagine, 13 euro).
Da Vidal, non ce lo si aspetterebbe. È stato tanto bravo a ritagliarsi addosso l’immagine di critico spietato, lama fra i denti e occhio di vetro, del mondo che suo malgrado lo circonda, che finisce per stupire quando azzarda una teoria, quando anziché attaccare: propone, quando abbozza una risposta e non una domanda. Già. Ma questo nuovo libro, un pamphlettino agile e graffiante che si snoda lungo saggi diversi per spirito e stile, vede protagonista assieme il “solito” Vidal, che s’accapiglia coi potenti del pianeta e risponde con un ruggito alla rasserenante melodia della propaganda, e un “altro” Vidal, che per un attimo ripone il cimiero di giustiziere della storia e accetta di mettersi in gioco, delineando un futuro possibile (che finisce per somigliare a un passato neanche troppo lontano).
«Le menzogne dell’impero e altre tristi verità» s’è fatto notare per una copertina, come si dice, “d’effetto”: una bandiera americana puntellata non di stelle ma di teschi. Sembrebbe una provocazione, invece è una citazione. «E quanto alla bandiera della nostra provincia filippina, è presto fatto: prendiamo la nostra, la solita, dipingiamo le strisce bianche di nero e sostituiamo le stelle con teschi e ossa incrociate». Lo scrisse Mark Twain, osservando con sbigottito smarrimento i primi passi dell’espansionismo statunitense, ai tempi della guerra ispano-americana (cui Vidal ha dedicato un romanzo: «Impero»).
Questa inedita “Skulls and Stripes” nasconde centocinquanta pagine di spunti e verità, che insistono non solo sulla preoccupazione per l’imminente guerra all’Iraq. Vidal “smaschera” gli intrighi petroliferi della famiglia Bush, propone, sia pure in punta di piedi, la tesi che (esattamente come avvenuto a Pearl Harbor) la Casa Bianca non fosse all’oscuro dell’attacco alle Torri Gemelle, incrocia il fioretto con ogni dogma della “guerra al terrorismo”. Colpi ben assestati. Argomenti puntuti. Staffilate. Solo, come da copione. Ciò che invece seduce è il modo in cui le meravigliose contraddizioni di Gore Vidal riaffiorano ad ogni riga che passa. È raro, infatti, leggere un socialista scagliarsi contro l’imposta sul reddito con la veemenza e l’ardore di Vidal: una forma di tassazione, spiega, il cui unico scopo è finanziare la “costruzione di forze convenzionali e nucleari”, d’armi d’offesa e non di difesa. Ancora, Vidal, che pure stima e ammira la politica economica di Franklin Delano Roosevelt, ammette che «si dovrebbe notare – ma lo si fa di rado – che la depressione non finì con il New Deal del 1933-40. Si ripresentò, con effetti peggiori che mai, nel 1939 e nel 1940. Poi quando Roosevelt ebbe investito una ventina di miliardi di dollari sulla difesa (1941), la Depressione finì e Lord Keynes diventò un eroe». Chiosa: «Questa iniezione di denaro pubblico lasciò un messaggio chiaro nella testa dei capi postbellici del Paese: se vuoi evitare la crisi, investi sulla guerra». Nessuno disse loro che lo stesso denaro, «investito nelle infrastrutture, ci avrebbe risparmiato debiti, dolore e sangue».
C’è, ne «Le menzogne dell’impero», una vigorosa condanna della “war on drugs” che da anni insanguina le strade d’America: «I governanti di ogni sistema non possono mantenere il loro potere senza la costante creazione di proibizioni che danno allo Stato il diritto di imprigionare – o altrimenti intimidire – chiunque violi qualcuna delle leggi dello Stato, spesso nuove di zecca».
Ma c’è pure un sogno. L’idea che gli Stati Uniti debbano ritrovare la loro anima, ritornando ad essere – com’erano in principio – non uno Stato ma una confederazione di minuscole unità politiche. «Eliminiamo Washington, lasciamo che gli Stati e le municipalità tengano per sè le entrate che riescono a produrre». «Torniamo ai nostri originari articoli di confederazione, a un gruppo di Stati confederati in modo leggero e non gli Stati Uniti, che si sono rivelati ingombranti e tirannici, proprio come Jefferson aveva ammonito».
«Nel prossimo secolo, il mercato comune europeo si evolverà non tanto in un’unione di antichi stati macchiati di sangue, ma piuttosto in un mosaico di regioni omogenee e città-stato come Milano, diciamo, ognuna liberamente legata all’altra per affari… I baschi, i bretoni, i valloni e gli scozzesi che vogliono liberarsi degli onerosi Stati-nazione dovrebbero essere lasciati andare per la loro strada, perché possano cercare e anche – perché no – ottenere la loro felicità, che è la meta, o almeno noi americani abbiamo sempre finto di crederci, di ogni impresa umana». Incrociamo le dita.

 

Antonella Parisi, LA GAZZETTA DI PARMA
– 12/12/2002

 

CASA BIANCA spa

 

CASA BIANCA spa

Gore Vidal ha presentato a Roma, alla Casa delle Letterature, la sua
nuova raccolta di saggi, «Le menzogne dell’Impero e altre tristi verità»

(Fazi Editore). Alto e distinto, cammina accompagnato da un bastone, che

gli serve a un duplice scopo: puntellare il passo malcerto, sul quale
pesano 77 anni di storia americana, e, insieme, assestare colpi pesanti
e ben mirati a quanto gli capiti a tiro. Bersaglio preferito di quei
colpi è George W. Bush, che dal libro esce con le ossa rotte. «Ad un
anno dall’11 settembre ancora non sappiamo chi sia stato ad attaccarci
quel martedì e quale fosse il suo vero scopo. Ma sembra ormai chiaro, a
molti paladini delle libertà civili, che l’11 settembre abbia liquidato
non solo i nostri fragili Dieci Emendamenti, ma anche il nostro, un
tempo invidiato, sistema di governo repubblicano», scrive Gore Vidal.

Che non esita a proporre tesi alquanto originali. Secondo lo scrittore
americano Bush e i suoi conoscevano ciò che stava per succedere l’11
settembre e avrebbero intenzionalmente deciso di lasciarlo succedere per

poter scatenare una serie di guerre già da tempo programmate e
consolidare le proprie posizioni di dominio politico ed economico negli
Usa e nel mondo intero. Bush insomma avrebbe agito come Roosevelt, che
conosceva l’ora dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, e sacrificò
tremila uomini per far entrare in guerra il paese: «Ma su Pearl Harbor
si è indagato per 60 anni, sull’attacco alle Twin Towers invece Bush non

ha voluto che fosse fatta luce. Eppure c’è molto da chiarire: perché i
caccia quella mattina non sono decollati subito, come prevedono le
disposizioni di legge in questo caso?». La fame di petrolio per Vidal è
la madre di tutte le battaglie: «Il vicepresidente Cheney ha fatto fare
uno studio sulle riserve petrolifere del pianeta, dal quale è emerso che

nel 2020 il petrolio sarà finito. Noi americani siamo come drogati di
petrolio. Non ci basta mai. Ed è per questo che siamo andati in
Afghanistan e andremo in Iraq. Non certo per vendicare le vittime
dell’11 settembre».

Lo scrittore guarda con nostalgia ai giorni della guerra fredda: «La
crudeltà dei russi per averci abbandonati come nemici è stata enorme. In

America abbiamo un bisogno disperato di nemici. Prima abbiamo combattuto

contro la droga, poi contro l’alcol ed ora contro il terrorismo. Ma il
terrorismo è un’entità astratta ed è difficile combattere contro
un’astrazione. Per questo abbiamo trasferito quel concetto su un paese
di nome Afghanistan». Qual è la posizione dei media rispetto alla guerra

contro l’Iraq? «L’informazione negli Usa è monolitica.

I media appartengono ai gruppi che posseggono anche le compagnie
petrolifere e le fabbriche d’armi. Quindi sostengono la guerra. Le
opposizioni sono rare, anche perché ogni singolo democratico al
Congresso vuole diventare presidente e quindi vuole apparire come
Bismarck». Come dovrebbe governare un bravo presidente? «Eravamo un
paese di successo quando ci occupavamo dei nostri affari interni.
L’impero è nato nel 1950, quando Truman rimpiazzò la vecchia Repubblica
con un impero globale, che è quello in cui noi oggi viviamo. Nel tempo
abbiamo perso molte libertà civili e ci siamo guadagnati l’odio di
tantissimi paesi». Per Gore Vidal non è un caso se negli Usa la
geografia è un’illustre sconosciuta: «Nelle scuole abbiamo smesso di
insegnarla nel ’50, proprio quando abbiamo iniziato ad avere un impero».

 

 

Gino Castaldo, MUSICA/ LA REPUBBLICA
– 21/11/2002

 

La guerra privata di Bush

 

Seduto in poltrona, elegante, il bastone appoggiato al bracciale, ci riceve con lo sguardo fiero e combattivo di un grande vecchio determinato a dire la sua, malgrado tutto, malgrado l’America di oggi non lo faccia parlare. L’Italia è il suo buen retiro, e nel nostro paese viene pubblicato Le menzogne dell’impero e altre tristi verità , un libro spietato, violento, rivelatorio, che afferma a chiare lettere quanto la giunta Cheney-Bush sia la massima espressione del business americano, sorta di esecutori di piani bellici globali a vantaggio delle grandi corporation. Ma sembra l’unico a formulare affermazioni così esplicite.
Non c’è in questo momento in America una opposizione intellettuale in grado di combattere?
”C’è ma il problema è che i media sono posseduti dalla stessa gente che gestisce il sistema, che poi al momento è Bush. E i media non vogliono che si senta la voce dell’opposizione. C’è una precisa censura, perpetrata in modo sottile”.
E’ una situazione nuova?
C’è sempre stata, in parte. Ma in materia di guerra e di pace, non ho mai visto qualcosa di apparentemente calmo. E’ come se la gente fosse morta. Nessuno risponde. 300.000 mila persone hanno marciato su Washington, non molti giorni fa. La stampa ha detto 30.000 mila, il solito vecchio trucco. E così hanno accreditato una versione totalmente falsa anche se ora sta venendo fuori come stavano veramente le cose. Anche a San Francisco, una grande folla, a New York, tutti contro la guerra. Ma la gente non lo sa e allora: dov’è la discussione, dov’è il dibattito? C’è ma i media non ne rendono conto”.
Sembra familiare, in fondo anche in Italia succedono cose del genere, a volte le discrepanze rasentano il comico. Le ho chiesto dell’opposizione, perché nella musica americana, ci sono gruppi rock molto carismatici che stanno prendendo posizione. Anche Springsteen recentemente ha rilasciato affermazioni interessanti.
“Springsteen è ancora la voce dell’opposizione. Ma in generale non vedo una forte risposta culturale. Quando io e Chomski parliamo anche di fronti a grandi platee i giornali non ne fanno menzione. E così sembra che non accada nulla”.
Però si vendica con i suoi articoli?
“Si e se per questo sono stato per molti anni una figura televisiva, ma;ora non più”.
Non trova che ci siano delle similitudini molto forti, in questo momento, tra Italia e America?
“Non presto molta attenzione alla politica italiana”.
Eppure quando nel suo libro spiega i legami dell’amministrazione Bush coi potentati economici, sembra che le sue parole si adattino perfettamente alla nostra situazione. In fondo abbiamo un presidente del consiglio che è un uomo di affari.
“Gli affari dell’America sono gli affari in cui è implicato il Presidente,e se la politica di un paese sono gli affari, è naturale che prima o poi nell’ufficio arrivi un uomo d’affari, piuttosto che un guerriero”.
Secondo lei come potrebbe cambiare questa situazione in america? Quale potrebbe essere la via uscita per fermare questo tipo di guerre combattute , come lei scrive, per interessi privati?
“Sono contro queste guerre e credo si fermeranno perché non hanno soldi. Siamo vicini a una grande depressione, come negli anni venti. Non ci sono soldi nel paese, e forse neanche per conquistare l’Iraq. Le grandi corporation hanno i soldi , i ricchi hanno molti soldi. Ma la gente no, e non c’è modo di mandare 250.000 mila uomini in Iraq. Realizzeremo improvvisamente che non abbiamo alleati e fermeremo l’avanzata imperialista”.
Noi definiamo il Novecento il secolo americano. C’è stata una egemonia anche culturale dell’Americana. Crede che nel nuovo secolo le cose cambieranno?
“Tutto cambia. E personalmente penso che il cambiamento avverrà verso l’Asia. Presto o tardi la Cina e il Giappone si metteranno insieme e saranno i padroni del globo, non noi. Credo che la razza bianca, anche se so che non dovremo parlare di razza, sia solo il 14 per cento della popolazione mondiale. E siamo molto odiati perché abbiamo fatto cose terribili all’altra gente. Credo che saremo sempre più isolati. Ci sono miliardi di gente in Cina e in India. Loro sono il futuro. Noi siamo qui solo temporaneamente”. E l’Islam? “E’ uno spreco di tempo cercare di demonizzare una religione. Ci stanno provando ma non credo sia una buona idea”.
Non é molto ottimista sul ruolo dell’Europa in questo scenario?
Ero a Mosca nei primi anni Ottanta, quando Gorbaciov prese il potere. Ci fu un grande meeting al Cremlino, c’erano 700 ospiti da tutto il mondo, artisti, scienziati, politici. C’era anche il ministro giapponese della cultura, e si parlava del futuro. Lui disse: “Gli Usa saranno la nostra fattoria, l’Europa la nostra boutique. Io stavo ripetendo questo ai russi e uno di loro mi chiese: cosa sta dicendo di noi? Io risposi: voi sarete gli istruttori di sci”.
Crede che potrà essere un mondo migliore?
“Io non lo so. Di sicuro diverso. Comunque sia, questa è la ragione per cui stiamo andando in Iraq, e perché stiamo andando in Eurasia, in Belucistan, Kazakistan, e negli altri posti…Per prendere il petrolio euroasiatico, ed è la ragione per cui esiste questa amministrazione. E così l’Asia potrà scoprire che anche noi siamo asiatici. Abbiamo 60.000 soldati nelle vecchie repubbliche musulmane dell’Unione Sovietiche, Kazakistan, Uzbzkistan e così via. Ci sono ora 60.000 soldati laggiù, americani, e stiamo costruendo basi aeree, cercando di essere pronti a prendere il controllo”.
Sarebbe possibile sostenere le tesi del suo libro in televisione, in questo momento in America?
“Direi di no, ma qualcosa di nuovo sta accadendo, ora c’è internet. Non so perché, ma ci sono almeno venti siti Gore Vidal, c’è anche un Gore Vidal index ed è molto popolare. Può essere una buona cosa perché è un media ancora non controllabile. E’ un peccato che io non ne capisca nulla. Non so assolutamente come funzioni”.
in questi anni alcuni studiosi essenzialmente europei hanno definito il terrorismo come una forza in qualche modo razionale, ma anche una componente irrazionale, come se fosse un prodotto oscuro di cui è difficile rintracciare la testa. In questi anni questa profezia sembra diventata abbastanza reale, nel senso che è sempre più forte la presenza del terrorismo, e dai suoi scritti, sembra che anche lei, in qualche modo, veda il terrorismo come un problema generato dagli errori della politica americana. E’ così?
Bene, bisogna ricordare la nostra storia, e soprattutto il fatto che abbiamo speso tutti i soldi per mezzo secolo combattendo qualcosa chiamata comunismo. Nessuno sapeva davvero di che cosa si trattasse, nessuno sa di che cosa si tratta. Sapevamo solo che era il diavolo e che l’Unione Sovietica era il diavolo. E così abbiamo speso tutto per combattere il comunismo. Poi se ne sono andati, il che è stato piuttosto crudele da parte loro. Semplicemente non c’erano più. Ora dobbiamo combattere qualcos’altro, e quindi andiamo a combattere il terrorismo, che è meraviglioso, perché non è da nessuna parte, ma allo stesso tempo è dovunque. E’ dovunque tu voglia trovarlo. Molto più comodo dei giorni del comunismo. Puoi dire quello che vuoi. Ma non abbiamo un paese che abbia direttamente a che fare con quello. Bisogna a creare una guerra al terrorismo, ma non si può crearla senza che ci sia un paese da combattere. E così facciamo finta che il paese sia l’Afghanistan, e distruggiamo l’Afghanistan. Ora facciamo finta che sia l’Iraq, ma l’Iraq non ha niente a che vedere con questo. Domani toccherà a qualcun altro”.

 

Daniela Binello, LA RINASCITA DELLA SINISTRA
– 15/11/2002

 

Gore Vidal: temo il “big crash”

 

Per un pelo non è diventato il “cugino del presidente”. Lo storico americano Gore Vidal, 77 anni, più conosciuto come scrittore di libri cult, da La città perversa a L’età dell’oro, Jim, La fine della libertà e l’ultimo Le menzogne dell’Impero e altre tristi verità ( Fazi Editore) è imparentato con Al Gore, l’ex delfino di Bill Clinton che, conta e riconta, non ce l’ha fatta a superare Bush jr nelle anomale elezioni presidenziali del 2000.

Personaggio carismatico, iconoclasta, amante del paradosso e di uno stile di vita anticonformista. Da giovane ha militato per tre anni fra i marines impegnati nel Pacifico settentrionale. Appassionato del Bel Paese, è solito svernare nella sua villa di Ravello, in cui racconta d’avere ospitato una signora americana che, incantata dal luogo, gli ha confidato che non era mai stata in quella zona della Spagna. Vidal ama prendere in giro la presunta ignoranza e superficialità degli americani, i loro tic, le paure e, da sempre affascinato dal mondo del teatro e della fiction, ha perfino recitato nei film Bob Roberts e Gattaca.

Lo intervistiamo a Roma, il giorno dopo le mid-term elections”.
Un trionfo per i repubblicani. Come la mettiamo, signor Vidal, con la sua personale visione dell’America?
Non condivido i giudizi entusiastici di chi giudica queste elezioni un successo personale di Bush e dei repubblicani. Sono andati a votare solo il 38 per cento degli elettori, e non il 50 per cento che in genere registrano le mid-term. Voi non sapete, forse, che in America anche solo lo scarto di un 1 per cento può spostare gli equilibri interni, ma i media non lo dicono. Il motivo è semplice. La General Electric, che produce anche armi, possiede la Nbc tv. Anche la Disney e tante altre multinazionali sono proprietarie di tv e giornali. Loro la chiamano “sinergia”. L’opinione pubblica non è rappresentata, quindi, da questo risultato elettorale, ma non ha voce perché i media appartengono alla lobby del petrolio.
La maggior parte dei commentatori dice che la vittoria dei repubblicani dà ormai carta bianca a Bush per attuare la guerra contro l’Iraq e poi, senza più discussioni, la dottrina della guerra preventiva. Condivide questa tesi?
Non c’è dubbio. Gli americani vogliono controllare l’Eurasia per imporre il loro dominio anche su quella parte del mondo. L’Eurasia è la zona dove c’è una quantità enorme di petrolio e metano. Gli americani pensano che queste risorse siano finite nelle mani sbagliate e sono convinti che chi controllerà l’Eurasia vincerà anche la partita per il passaggio dei grandi oleodotti. Quindi, per loro, Bin Laden è stato come la manna piovuta dal cielo. Grazie a lui hanno potuto attaccare l’Afghanistan, da cui molto difficilmente si ritireranno.
Lei non è mai stato marxista, non è un no-global, si definisce un democratico liberale. Come mai, allora, riscuote grande successo nel Movimento?
Io non sono marxista, è vero, ma anch’io mi pongo un’infinità di “perché”. E mi sono dato una risposta fra le tante: per evitare il “big crash” (il disastro totale) dobbiamo lavorare per trovare delle alternative a questo potere, rappresentato dalla cricca del petrolio. Da Condoleeza Rice a Dick Cheney, che è il vero leader della “junta”, gli uomini e le donne del presidente provengono tutti dalle maggiori compagnie petrolifere americane. Ma negli States non è permesso di parlare di “complotto” per cercare di spiegare quanto è accaduto l’11 settembre perché, ci è stato ripetuto fino alla nausea, vorrebbe dire, altrimenti, che crediamo ai dischi volanti. Dobbiamo usare, allora, al posto di complotto “coincidenza”.

 

Stefano Porro, CLARENCE.COM
– 03/12/2002

 

Le menzogne dell’impero

 

Gore Vidal: “La junta Bush-Cheney conosceva in anticipo quello che sarebbe accaduto l’11 settembre”. Benvenuti nell’american dream…

Le bombe statunitensi sganciate su Bassora sono solo i prodromi della prossima guerra che gli Stati Uniti scateneranno contro l’Iraq. Un’affermazione forte? Non tanto, perlomeno leggendo Le menzogne dell’impero, recente raccolta di pamphlet di Gore Vidal, pubblicata in Italia da Fazi Editore. A un anno di distanza da La fine della libertà, il massimo saggista statunitense prosegue la sua analisi politico-economica sull’evoluzione del suo paese dopo gli stravolgimenti dell’11 settembre. E le conclusioni a cui giunge sono a dir poco sconcertanti. Secondo Vidal, la junta (alla sudamericana) Cheney-Bush avrebbe conosciuto in anticipo quello che stava per accadere l’11 settembre e avrebbe deciso unilateralmente di “chiudere gli occhi”, per avere poi la scusante per scatenare una guerra globale al terrorismo. Anche se in realtà, il terrorismo al presidente degli Stati Uniti interessa ben poco, in confronto alla possibilità di estendere il suo dominio politico a livello globale e la sua influenza economica in campo petrolifero. Non è un caso che le zone contro le quali gli Stati Uniti hanno fatto o stanno facendo convergere il loro arsenale bellico (Afhganistan, Iraq) siano siti ad alto interesse strategico per quanto riguarda la produzione e la distribuzione di oro nero. Solo una mancanza di soldi e investimenti in campo militare avrebbe impedito lo scatenarsi delle offensive, ma, sempre secondo Vidal, è probabile che intorno a dicembre-gennaio gli americani si decidano a entrare n azione. La guerra come strumento di imposizione di potere politico-economico, e la comunicazione come mezzo di controllo mentale. Un recente quanto lucido intervento di Noam Chomsky ha descritto alla perfezione le modalità attraverso cui il governo statunitense controllerebbe l’informazione del proprio paese, per instillare nei cittadini la nascita di sentimenti militanti, in modo da garantirsene l’appoggio politico in caso di azioni belliche.
Lo scenario disegnato da Gore Vidal potrebbe sembrare il frutto improbabile di una mente apocalittica, se non fosse che lo scrivente è un gigante della coscienza politica del suo paese. Ed è impressionante seguire il suo discorso schietto e pungente, ma sempre profondamente argomentato. Non crediamo a Vidal (solo) perché è Vidal, gli crediamo perché la sua tesi è la manifestazione nero su bianco dell’evidenza dei fatti. Gli Stati Uniti attaccheranno l’Iraq perché glielo impone la congiuntura economica, e perché l’accoppiata Chene-Bush vuole saziare la sua sete di potere. E a poco serviranno le manifestazione pacifiste e i dissensi interni. Quando anche un raffinato economista come Tom J. Donohue, presidente della Camera di Commercio Americana, dichiara che “la guerra deve essere fatta perché attaccare per primi costa molto meno che riparare ai danni di un eventuale offensiva avversaria”, l’odore dell’ineluttabilità dei poteri forti si fa sempre più intenso.

Visita lo speciale Gore Vidal su www.Clarence.com

 

Roberto Bonzio, REUTERS
– 05/11/2002

 

Gore Vidal: dubbi inquietanti sugli Usa e l’11 settembre

 

Gore Vidal, uno degli scrittori Usa più controcorrente, ha pubblicato in anteprima in Italia un libro in cui pone domande inquietanti sui fatti dell’11 settembre, sostenendo che la difesa aerea Usa è entrata in azione con un ritardo ingiustificabile e dicendo che oltre ai circa 3.000 morti, il bilancio delle vittime comprende anche i diritti civili.
Nel suo libro “Le menzogne dell’Impero e altre tristi verità – Perché la junta petroliera Cheney-Bush vuole la guerra con l’Iraq” Vidal, 77 anni, afferma che la politica estera di Washington è guidata dall’interesse per il petrolio del Caspio, motivo sufficiente a giustificare l’invasione dell’Afghanistan e quella che potrebbe avvenire in Iraq.
“Abbiamo conquistato l’Afghanistan per metterci un oleodotto” ha detto Vidal, un americano che spesso visita Ravello sulla costiera amalfitana, in un’intervista a Reuters. “Oggi abbiamo 60.000 soldati tra Uzbekistan e Kazakistan… e l’Afghanistan e’ la porta d’accesso al petrolio del Caspio”.
Il libro, pubblicato in anteprima in Italia da Fazi, è un pamphlet incandescente sullo scenario mondiale del dopo 11 settembre. Un saggio che arriva a chiedere l’impeachment del presidente: “Deve dirci che cosa sapeva, e quando esattamente venne a sapere dell’enorme e diretta minaccia nemica”, ha scritto Vidal, sostenendo che “il comportamento del presidente George W. Bush, l’11 settembre, certamente fa nascere una serie di sospetti di ogni genere”.
Una decina di giorni fa, pubblicato da The Observer, il pamphlet ha suscitato scalpore in Gran Bretagna, mentre negli Usa uscirà solo a metà dicembre.
“A un anno dall’11 settembre, ancora non sappiamo chi sia stato ad attaccarci quel martedì e quale fosse il suo vero scopo. Ma sembra ormai chiaro a molti paladini della libertà civili, che l’11 settembre abbia liquidato non solo i nostri fragili Dieci Emendamenti, ma anche il nostro, un tempo invidiato, sistema di governo repubblicano”, scrive nel suo libro Vidal.
Raccogliendo pareri di analisti, esperti di politica estera, difesa e servizi segreti, lo scrittore lascia aperte molte domande dicendo che la guerra, sulle rotte del petrolio asiatico, ha fatto gli interessi dell’amministrazione Usa.
“UNA DIFESA ARRIVATA CON UN RITARDO INSPIEGABILE”
Sulle polemiche sorte dopo la pubblicazione di questo libro, Vidal risponde: “Sono solo fatti. E’ una descrizione di un docente di West Point su cosa è andato male l’11 settembre, sul perché l’aviazione non era subito lì a fermare gli attentatori…Sono passati un’ora e venti minuti prima che un aereo (della difesa) si alzasse in volo”.
Tra le tante testimonianze raccolte infatti, compare nel libro quella di Stan Goff, già docente di Scienza e dottrina militare a West Point (dove Vidal è nato), che esprime incredulità sulla scansione di quell’11 settembre, con dirottamenti registrati tra le 7.45 e le 8.10 e la virata dell’ultimo aereo sul Pentagono, alle 9.35, ben 32 minuti dopo il secondo schianto sul World Trade Center.
Com’è possibile, si chiede Vidal, che in quell’arco di tempo non sia scattato il piano automatico di difesa aerea con l’intercettazione degli aerei dirottati, che il presidente Bush sia rimasto in visita ad una scuola elementare in Florida?
Riguardo la difesa aerea in caso di dirottamenti, il vicepresidente Dick Cheney, nei giorni successivi all’11 settembre, aveva affermato che esisteva un piano che prevedeva l’intercettazione e l’abbattimento nel caso in cui l’apparecchio si fosse diretto verso la Casa Bianca e che dopo il secondo schianto sul World Trade Center era stato dato il via libera agli abbattimenti di eventuali altri aerei dirottati.
Citando Macbeth di Sakespeare, “Siamo così immersi nel sangue che per noi sarebbe faticoso andare avanti o tornare indietro”, lo scrittore teme che ormai sia troppo tardi per recuperare quelli che furono i valori fondanti degli Usa.
Valori celebrati nel veemente pamphlet anti-islamico “La rabbia e l’orgoglio” dalla scrittrice Oriana Fallaci. Un libro che Vidal dice di non aver letto, anche se conosce l’autrice. “Non m’interessa, so chi è ma credo che su nulla mi rivolgerei a lei per una lezione di storia. Lei avanza le sue opinioni come fossero dei fatti. Io non spaccio le mie opinioni per fatti, perché se non ci fossero i fatti, sarebbero solo opinioni”.
Considerato un intellettuale eccentrico, Vidal non si ritiene affatto tale. “Rappresento la maggioranza degli americani che non vuole guerra, come non voleva la I e la II guerra mondiale: ci siamo stati trascinati da leader che servivano interessi non nostri”, dice lo scrittore, che in un precedente saggio aveva avvalorato la tesi che il presidente Franklin Delano Roosvelt fosse al corrente dell’imminente attacco a Pearl Harbor ma non agì per evitare quello che fu l’episodio che indusse gli Usa ad entrare nel conflitto mondiale.
Vidal accomuna nel suo atto d’accusa politici americani, petrolieri e mondo dei media: “Lavorano tutti assieme per dare una visione falsa del mondo agli americani, che però lo sanno”, dice lo scrittore che spiega così la disaffezione dei suoi compatrioti per la partecipazione alla politica.

 

 

Michele Farina, CORRIERE DELLA SERA
– 25/11/2002

 

Doppia accusa. Gore Vidal e Scott Ritter, lo scrittore e l’ex marine contro «la Grande Bugia»

 

   

Per Gore Vidal sono «bugie» di un «presidente ponpon». Per Scott Ritter sono «bugie criminali». Per il primo «la junta petroliera Cheney-Bush» sta «fabbricando prove per attaccare l’Iraq». Per il secondo «la Casa Bianca non vuole disarmare Saddam Hussein ma farlo fuori» e per questo «mente vergognosamente sostenendo che Bagdad possiede armi di distruzione di massa». Stessa accusa: «Lies», menzogne. Pulpiti diversi: Vidal (76 anni) è uno dei grandi scrittori contemporanei, Ritter (41) è un ex ispettore Onu in Iraq. Entrambi americani, come americano è il «nemico» comune che mettono sul banco degli imputati: George W. Bush.
La «giuria», in questi giorni, è anche un po’ italiana. Il libro di Vidal, «Le menzogne dell’impero e altre tristi verità» (Fazi editore), scala le classifiche dei saggi più venduti. Ritter, che presso lo stesso editore ha pubblicato «Guerra all’Iraq, tutto quello che Bush non vuole far sapere al mondo», sarà oggi a Roma per una conferenza stampa presso la Sala del Refettorio della Camera dei Deputati.
Due eretici ciascuno a modo suo, il grande scrittore che andava in auto con Jfk e l’ex marine che ha lavorato per la Cia. Anche loro fanno parte di quei «teorici del complotto accusati di antipatriottismo che – sostiene Vidal – sono facile bersaglio di discredito mediatico: perché, nella vita politica americana, l’inesistenza dei complotti è un articolo di fede».
Vidal la chiama «junta», alla sudamericana. E chiama Bush il «presidente cheerleader», «perché fare il padrone ponpon di una squadra di baseball è la sola cosa che abbia fatto in vita sua». Ancora più feroce l’accusa politica: la fabbricazione di «una minaccia nemica enorme, percepita a livello di massa – scrive Vidal -, ha permesso al ragazzo ponpon di lanciarsi nella sua danza di guerra davanti al Congresso».
Anche per Scott Ritter quello che va in scena in questi giorni (risoluzione Onu, ispettori a Bagdad, posizione Nato) è una sorta di balletto. «L’Amministrazione Bush non vuole disarmare Saddam – dice al Corriere -. Stanno preparando una guerra per essere pronti a dicembre». La più grande bugia di Bush? «Dire che l’Iraq abbia a disposizione armi chimiche in grado di minacciare il mondo». Mentre il mondo sta a guardare: «Solo la Francia ha avuto la forza di opporsi veramente». La Russia? «Troppo debole economicamente». Ritter ha parole dure per i governi Alleati che appoggiano la linea Bush: «Più che da alleati si comportano da colonie degli Usa».
Accuse dure perché «quelle di Bush sono menzogne criminali, che porteranno alla morte migliaia di iracheni e centinaia di nostri soldati». E i sondaggi favorevoli alla Casa Bianca? «Bush sfrutta la paura degli americani dopo l’11 settembre». Vidal sostiene la stessa cosa. Attacca i media americani («Perfino quelli italiani sono migliori», dice in un’intervista a LA Weekly ), lui che ha vissuto per decenni a Ravello (si è da poco stabilito definitivamente a Hollywood). A proposito dell’11 settembre Vidal ha una posizione molto radicale. «L’America aveva già previsto di occupare l’Afghanistan nell’ottobre 2001 e Osama, o chiunque abbia colpito le Torri Gemelle, ha lanciato il suo attacco preventivo. Sapevano che stavamo arrivando». Lo scrittore di «L’età dell’oro» trova inspiegabili le carenze nell’affrontare l’emergenza l’11 settembre: «La decisione di far alzare in volo i caccia non è stata presa dal Pentagono se non al terzo attacco». Il sospetto è che ci fosse l’ordine di non reagire. Così che «l’impero» potesse colpire su scala mondiale.
Chissà se Vidal accetterebbe di scrivere la prefazione di «Pentagate», il secondo libro del francese Thierry Meyssan che uscirà in Italia a gennaio (Fandango editore). Dopo il successo dell’«Incredibile menzogna» (50 mila copie vendute nel nostro Paese) Meyssan, 44 anni, ex seminarista, massone, ex bestia nera di Le Pen, ribadisce la teoria che «nessun aereo è caduto sul Pentagono». Screditato in Francia, bollato come «incredibile impostore», Meyssan avanza l’ipotesi che a colpire il Pentagono sia stato un missile. Americano, naturalmente.

© Corriere della Sera

 

Ludina Barzini, CORRIERE DELLA SERA
– 06/11/2002

 

Gore Vidal: “Ravello addio, torno a Hollywood”

 


Lo scrittore parla del libro dedicato alle “menzogne” sull’’11 settembre e spiega perché ha deciso di lasciare l’Italia.

Nella sua ultima raccolta di saggi, lo scrittore americano Gore Vidal, 76 anni, si chiedeva se Bush, come Roosvelt prima di Pearl Harbor, sapesse dell’imminente catastrofico attacco. La risposta di Vidal era un no, con un’avvertenza: “almeno per quanto ne sappiamo ora”. Era un anno fa. Ora ne sappiamo molto di più.
Nel suo nuovo libro, Le menzogne dell’impero e altre tristi verità(Fazi), egli sostiene che Bush e i suoi conoscevano ciò che stava per succedere l’11 settembre e avrebbero intenzionalmente deciso di “lasciarlo succedere” per poter scatenare una serie di guerre già da tempo programmate e consolidare così le posizioni di dominio politico ed economico nel mondo. Infatti si chiede ad alta voce, alla Casa delle Letterature di Roma dove ieri ha presentato il libro: “Cosa succederà al prezzo del petrolio se c’è una guerra in Iraq? L’economia sarà colpita duramente. I kamikaze esistevano già nel Pacifico durante al Seconda guerra mondiale, non è quindi un’idea nuova. I nemici possono essere provocati come fece Roosvelt con i giapponesi perché voleva fermare Hitler”. Negli anni Sessanta Vidal scelse l’Italia per vivere: “Era il 1961 e stavo scrivendo un romanzo Giuliano. Avevo bisogno di una buona biblioteca di testi classici e avevo la scelta fra Atene e Roma. Atene era troppo brutta e Roma tanto più bella, l’ho scelta e ci sono rimasto. Nel 1960 cominciava già ad assomigliare ad altre città, ho comprato la villa a Ravello e mi sono trasferito. Oggi voglio venderla perché non riesco più a camminare quel chilometro fino alla piazza del paese. Ma di fatto vivo a Los Angeles, sulle colline di Hollywood. È lì che pago le tasse”.
Chi sono i suoi amici italiani? “L’italiano che più ammiravo era Italo Calvino. Scrissi un lungo articolo su di lui per la New York Rewiew of Books e Luigi Barsini si mostrò stupito che io dedicassi a Calvino tanta attenzione. Era il mio mestiere di critico, ammiravo Calvino immensamente perché ha scritto tante cose strane, scritte in modo brillante. Pasolini non mi piaceva”. Il potere sembra dare fastidio a Vidal: “La gente intelligente non sembra usare il potere anche se lo fa. Il presidente Mitterand disse al suo braccio destro Jaques Attali che un suo successo gli veniva attribuito perché era intelligente, sincero, mentre avrebbe preferito l’indifferenza. Molti dicono bugie, alcuni presidenti più di altri. Roosvelt era certamente un gran mentitore, era parte del suo modo di governare. Lo scrittore Truman Capote non mi piaceva, era un bugiardo terribile”. Vidal frequentava molti artisti italiani: “Io chiamavo Fellini Fred e lui mi chiamava Gorino. Litigavamo sui film perché ero e sono contro il doppiaggio e gli dicevo: “Fred ti chiedi perché la gente non va a vedere i tuoi film: sono dei quadri, uno va nei musei per vederli, non c’è bisogno di andare al cinema”. Lui mi rispondeva: “Gorino sei così schematico”. Ho scritto la versione inglese di Casanova che gli serviva per avere i soldi dalla Paramount. Ha ricevuto un milione di dollari, ha buttato la sceneggiatura dalla finestra e ha fatto il film. Questo era Fred.”

 

 

Lucio Manisco, LIBERAZIONE
– 09/11/2002

 

Guerra permanente, 11 settembre, crisi economica: Gore Vidal, scrittore e saggista, discute le tesi del suo ultimo volume, “Le menzogne dell’impero”

 

 

L’esito delle elezioni di medio termine negli Stati Uniti è stato interpretato da qualche commentatore come la restaurazione delle legittimità di George Bush, portato due anni fa alla presidenza della Corte Suprema e da quella che nel tuo libro chiami la “Junta petrolifera” che occupa oggi la Casa Bianca. Cosa pensi di un’interpretazione del genere?
Nulla di più lontano dal vero. Sembra che l’affluenza alle urne sia stata intorno al 37-39 per cento: il che vuol dire che solo un 20 per cento degli iscritti nei registri elettorali – un americano su cinque – ha votato non per Bush ma per i Candidati repubblicani alla Camera, al Senato e in qualche governatorato. Non credo proprio che si possa parlare della legittimazione di un presidente che non ha ottenuto la maggioranza del voto popolare e che è stato imposto al paese da una grossolana truffa elettorale in Florida e da una più grossolana sentenza della magistratura suprema.
Non si può comunque dire che Bush non sia uscito rafforzato da questa prova elettorale.
Con l’investimento di 150 milioni di dollari da parte delle grandi corporazioni sono usciti rafforzati il partito della guerra e il partito dell’avidità e dei profitti: le conseguenze saranno gravi, gravissime per la pace nel mondo e per l’economia degli Stati Uniti. La protesta cresce, soprattutto in Europa come stanno ampiamente dimostrando le giornate dei “no-global” a Firenze, un evento molto importante che i mass media Usa stanno cercando invano di minimizzare.
Nel primo capitolo di Le menzogne dell’impero e altre tristi verità che reca la data dello scorso settembre, ti chiedi se il Congresso darà l’approvazione per una guerra e se l’Onu farà eco a papa Urbano II e darà la sua benedizione a questa crociata al petrolio. Sono trascorsi due mesi e il congresso ha dato l’approvazione richiesta mentre le Nazioni Unite proprio in queste ore si apprestano con qualche difficoltà a offrire a diversi governi europei la foglia di fico necessaria a mascherare il loro asservimento al padrone Usa. Cosa è successo a tutti quei congressisti che in un primo tempo avevano manifestato un forte dissenso su una guerra preventiva contro l’Iraq?
Le cose non stanno proprio così: il congresso non ha conferito espressamente al presidente il potere di dichiarare la guerra…
Dagli anni cinquanta in poi il congresso non ha mai approvato vere e proprie dichiarazioni di guerra, ma gli Stati Uniti hanno scatenato lo stesso molte guerre. Resta il fatto che il congresso anche questa volta ha dato il via libera al Capo dell’Esecutivo.
Come ai tempi della risoluzione sul Tonkino, è vero: il problema è che in questa legislatura volta a termine tutti i congressisti andavano a caccia di una candidatura presidenziale. Persino Daschle si candidava e sono in pochi a conoscerlo e ancora in meno a pensare che sia un personaggio di calibro presidenziale. Ma lui è convinto di potercela fare e va avanti da solo, così come tanti suoi colleghi idioti che per lo stesso motivo non se la sono sentita di dire no a Bush. È chiaro che io non sono meno patriottico di questo presidente, ma posso dire con assoluta certezza che gli americani sono contrari alla guerra: questa è una realtà ancestrale che risale alle origini, al generale Washington; un imperativo antico che ci ha sempre suggerito di star fuori da queste cose. Sono molto fiero di dire che sotto questo aspetto noi siamo un popolo talmente codardo da non aver voluto mai combattere guerre all’estero per “sistemare” dei paesi i cui più spesso che volentieri non conoscevamo neppure il nome e l’ubicazione geografica.
Le guerre le avete fatte lo stesso e sempre sulla scia di un ricorrente “great american disaster”, di un grande disastro americano, utilizzato come trampolino di lancio per l’espansione dell’Impero: la distruzione dell’Alamo di Davy Crockett, l’esplosione della corazzata Maino all’Avana, Pearl Harbour su cui tu hai tanto scritto ed ora le Due Torri.
Questa volta non abbiamo soldi per una guerra all’Iraq, anche se certamente la faremo. Non so davvero dove li prenderemo questi soldi: non certo dalle tasse che Bush junior ha tagliato. Tagli senza precedenti alle tasse sui ricchi, soprattutto sulle grandi imprese che ormai negli StatiUniti non pagano più le tasse: è considerato antipatriottico far pagare le tasse alla General Motors o alla General Electrics.
Dieci anni fa la prima guerra all’Iraq fu pagata da Emirati Arabi e da Governi stranieri come quelli giapponese e tedesco e gli Usa fecero anzi “la crescita” e ci guadagnarono qualcosa come sei miliardi di dollari.
Forse quei conti li gestivano la Paramount Pictures o la Enron? Ora veramente non c’è un dollaro da buttar via e tanto meno uno yen giapponese o un euro tedesco. Se non esistessero altri motivi, questo sarebbe più che sufficiente per evitare l’attacco all’Iraq. Quando si bruciano somme pazzesche di cui non si dispone, le conseguenze sono calamitose: saremo costretti a stampare carta moneta, a scatenare un’inflazione senza precedenti, ad andare in bancarotta ed a portare alla bancarotta altre economie. Anche se l’euro la scorsa settimana ha raggiunto la parità con il dollaro, voi in Europa non state certo meglio di noi. C’è già una recessione in corso e andremo verso un “crash” tipo 1929. Qui si parla di finanziare l’invio di 250 mila soldati e l’impiego di nuovi mezzi bellici dei più “sofisticati”, letali e costosi.
Quello che preoccupa ed allarma è che questa volta, a differenza del 1990-1991, non assistiamo ad una massiccia mobilitazione di truppe. Quindi per rovesciare il regime di Saddam e “portare la libertà agli iracheni” si farà grande uso di quei mezzi sofisticati, letali e costosi di cui gli stessi “Stranamore” del Pentagono hanno menato gran vanto. È giustificato parlare di eccidio e genocidio annunciati?
È giustificato per noi parlare di questa tragedia imminente. Non ne parlano negli stessi termini i mass media perché i loro proprietari e gli interessi che rappresentano sono i beneficiari di ogni guerra e di questa in particolare: sono gli stessi personaggi che gestiscono o che comunque si prendono cura del business petrolifero. Perché questa contesa riguarda primariamente i giacimenti di greggio in Iraq e nei paesi vicini nel contesto del rapido esaurimento di altre risorse come quelle del Mare del Nord e dei crescenti consumi negli Stati Uniti: “loro” hanno il petrolio ma noi pensiamo che non se lo meritino perché noi siamo veramente i buoni, mentre loro sono i cattivi. Quindi decidiamo di portarglielo via in questa marcia verso l’Est, sempre più verso l’Est fino ed oltre il Mar Caspio.
In questo tuo ultimo saggio su Le menzogne dell’Impero e altre tristi verità pubblicato in anteprima da Fazi Editore, hai scatenato un attacco frontale contro la “Junta Bush” e hai chiesto lo “impeachment”, la procedura di destituzione del presidente degli Stati Uniti. Toglimi una curiosità: con l’apoplessia patriottica e con il clima di piombo calati sul tuo paese, ti senti sicuro nei frequenti viaggi che fai tra New York e Los Angeles?
Non mi sento affatto sicuro e spesso per strada vengo fatto oggetto di attacchi verbali e improperi di ogni genere. Anche qui a Roma sta accadendo qualcosa del genere: stamane nel salone d’ingresso del mio albergo tre corpulenti turisti americani mi hanno riconosciuto e hanno urlato che sono un traditore, un amico dei nemici del mio paese. Sono episodi che mi procurano qualche momentaneo disagio ma anche molta soddisfazione: vuol dire che quanto vado da tempo scrivendo non cade nel vuoto, disturba il conformismo imperante, irrita i ladri di verità.
Ti compiaci allora di condividere con Naom Chomsky il titolo di nemico pubblico numero uno dello establishment Usa?
Ma guarda, è così che funziona: quello che dico è quello che pensa e sente la grande maggioranza degli americani. Non sono un eccentrico, sono in mezzo alla gente, sono la voce di quello che pensa il popolo americano, che non vuole la guerra ma che non vuole esporsi. Gli americani sono stati travolti da questa fanfara patriottica, ma posso assicurarti che se una sera tengo una conferenza, assistono 4 mila persone, mentre se parlasse ad esempio un Ted Kennedy, non ci andrebbe nessuno…e questo significa qualcosa: anche Chomsky riscuote lo stesso successo di pubblico. Io forse un po’ di più.
Una domanda che spesso ci poniamo in Europa: qual è il ruolo del dissenso intellettuale negli Usa? Tu affermi di dare voce al popolo americano, ma quali sono gli effetti? In un certo senso, il “dissenso” rimane un po’ nell’accademia, in una gabbia dorata, e offre anche un alibi al governo per autocompiacersi nel dire “ma guarda come siamo democratici: accettiamo Gore Vidal!!”, con tutti i veleni. So che il dissenso è come un seme che potrebbe germogliare dando ottimi frutti, ma al momento qual è il ruolo del dissenso? Qual è l’effetto vero e proprio, che cosa cambia grazie al dissenso oggi?
Solo un 3-4% degli americani si interessa di politica. Gli altri non si interessano e non sanno nulla. Bisogna parlare a questo 3 o 4%, non importa quanti siano realmente. Bisogna raggiungere queste persone, è l’unico modo. Alcuni anni fa ebbi una discussione con Hilary Clinton, sulle stesse cose di cui stiamo parlando adesso. Parlammo del suo progetto di realizzare un sistema di sanità per tutti: io le dissi che aveva aspettato troppo, che si era lasciato tempo ai malintenzionati di fare propaganda e di bloccare tutto quanto. Le dissi che pensavo che il 10% degli americani sentisse fortemente queste problematiche…Ma Hilary Clinton rispose “molto meno”, e comunque sì, è circa il 3% ad interessarsi veramente di politica. Riuscire a coinvolgere queste persone, che rappresentano un pubblico raggiungibile, è tutto quello che possiamo fare.
Al momento, negli Stati Uniti, dopo l’esito elettorale non vedo molti cambiamenti, anche perché questo 3% è silenzioso…
I media non dedicano largo spazio al dissenso, tutte le voci vengono soffocate. In aprile, quando l’altro mio libro è uscito in America, avrei dovuto comparire in sette trasmissioni televisive. Di queste, cinque sono state cancellate: cinque su sette. Ho fatto solo due programmi, e gli altri sono stati cancellati il giorno stesso della trasmissione: dalla Cnn, da altre reti, senza spiegazioni di alcun tipo. Il problema è che se io sono in televisione, si alzano gli ascolti: io lo so, e anche le televisione stesse sanno che io lo so. Me lo dice lo stesso Peter Jenkina, dell’Abc, che cerca sempre di farmi andare in onda. E che scusa dovrei mai dare? Una volta facevo un programma insieme a Buckley, sulla Abc, un ottimo programma. E ora mi dicono, “saresti offensivo”. E io mi chiedo che cosa mai potrei dire per essere “offensivo”? Una volta forse, con Buckley, hanno pensato veramente che fossi offensivo, quando dissi che i due partiti statunitensi sono uguali, anzi di più: abbiamo un solo partito politico con due destre, una che si chiama “democratica” e una “repubblicana”. Ecco, forse quello fu considerato offensivo, o addirittura un tradimento, visto che si era nell’anno delle elezioni.
Beh, il partito demo-repubblicano è una sorta di “partito intercambiabile e polivalente”.
Sì. Ecco perché troppa verità crea disperazione nei circoli del libero mercato.
Veniamo al tema principale del tuo saggio: il comportamento di Bush avrebbe consentito l’attacco alle Torri Gemelle.
Questo non lo dico perché non lo so. Ho delle opinioni, ma non presento mai le opinioni come fossero fatti.
Nel tuo libro però tu fornisci indizi in questo senso, e non sei certo il solo.
Ci sono degli indizi.
Sì, congetture…Vien fatto di pensare alla canzone dei Beatles “Let it be”…a livello congetturale è possibile che una amministrazione più o meno responsabile o irresponsabile degli Stati Uniti abbia permesso che avvenisse questo grave attentato?
Ci sono alcune domande a dir poco sconcertanti, rimaste senza risposta. Perché per un’ora e venti minuti dopo l’impatto del primo aereo sulle Due Torri non si è fatto nulla? Normalmente, come prescrive la legge su emergenze del genere, quando un aereo viene dirottato, vengono fatti decollare degli arerei intercettatori nel giro di tre minuti.
Hanno detto che in quel momento sulla costa Atlantica avessero solo tre caccia a disposizione.
Ma chi può creder ad una storia del genere? È una favola: gli Stati Uniti sul territorio nazionale hanno centinaia e centinaia di caccia intercettatori in stato di all’erta.
Entrano allora in gioco le solite scuse, l’elemento sorpresa e l’inefficienza dei comandi.
Come al solito.
Nel tuo libro scrivi che i comportamenti dell’aviazione militare furono a dir poco irrazionali e comunque incomprensibili.
Non si trattò, è vero, di coordinare e ordinare un bombardamento massiccio – non c’erano giapponesi da far fuori. Il fatto rimane che il 9 settembre i nostri aviogetti militari rimasero a terra per un’ora e venti minuti e a tutt’oggi non si capisce ancora perché.
Non si è trattato dunque di sola inefficienza, che è nel Dna di militari, ma di qualcosa di diverso?
Dico solo che un attacco aereo contro il Pentagono lasciato senza difesa, un attacco contro la capitale dell’impero globale, non è una cosa possibile. E allora cosa è veramente accaduto? Come mai non è stato immediatamente allertato il Norad, formidabile difensore nel cielo e nello spazio? È entrato in scena o è stato costretto a entrare in scena dal generale Myers solo dopo che tutti i bersagli erano stati centrati.
Quindi anche il comandante in capo General Myers sarebbe coinvolto in questo grosso pasticcio?
Ma certo. E in tempi non troppo lontani le corti marziali sarebbero entrate in funzione a pieno ritmo. A parte qualche “inchiesta interna” dei servizi e del Congresso i tribunali militari questa volta sono rimasti a casa.
Sono accadute molte cose dopo il 9 settembre: dal National Security Act di Truman si è passati al Patriot Act che ha azzerato il Bill of Rights – la Carta dei Diritti integrata nella Costituzione – ed ora alla vigilia della guerra preventiva contro l’Iraq. Tu hai menzionato le giornate dei “no global” a Firenze ma l’oppposizuione alla guerra mobilita un po’ tutti in Europa, grazie anche a quotidiani quali il “Guardian”, “Le Monde”, “Liberation”, il “Frankfurter Rundschau”. Purtroppo nulla del genere viene registrato negli Stati Uniti. Si tratta solo di “Apoplessia patriottica” che coagula il consenso e paralizza l’informazione?
L’opposizione c’è, basta pensare alla recente marcia per la pace di Washington, ma i mass media in gran parte la ignorano o ne travisano significato e portata con i risultati che abbiamo visto nelle ultime elezioni. C’è comunque un’altra informazione, sotterranea, veramente alternativa, ad esempio in tutte le università. E di questo abbiamo già parlato. E poi sull’altro versante c’è, con poche eccezioni, il silenzio assordante di tanti cosidetti “intellettuali” e il vociferare bellicista dei prezzolati, che del resto non mancano certamente anche nel tuo paese. Un degrado sconfortante delle coscienze che va contro e soffoca il sentimento popolare: il confronto con quanto accadde durante la guerra del Vietnam e prima ancora potrebbe far disperare.
Già, mi sembra che le tue pagine siano soffuse di nostalgia per un passato più o meno lontano. In questo libro mi hanno sorpreso le tue osservazioni sull’età dell’oro, sugli anni del dopoguerra, sulla creatività e la generosità e l’impegno degli intellettuali di allora. Eppure quelli furono gli stessi anni in cui vennero gettate le fondamenta dello “stato di sicurezza”, della Cia, dell’Impero. Le stesse persone che avevano letto Dante e studiato a Yale ed erano state educate alle più elevate virtù civiche finirono con il reclutare fior fiore di nazisti al servizio del nascente impero, con il somministrare a titolo sperimentale l’acido lisergico o Lsd a cittadini inconsapevoli, con il manipolare i risultati di elezioni democratiche – tu citi il caso dell’Italia – con il rovesciare governi democraticamente eletti e poi ordirono complotti e assassinii politici, appoggiarono dittature delle più atroci, crearono i presupposti della disastrosa invasione della Baia dei Porci. Il tutto in nome di che cosa? Non certo di alte virtù civiche, ma sicuramente dell’impero da costruire. E tu chiami questa l’età dell’oro?
Sì, perché il popolo americano era felice di tornare al suo stato naturale, quello della pace e purtroppo non si rendeva conto che altri a suo nome stavano pianificando la guerra fredda. Accadeva tutto a Washington nella stanza dei bottoni e noi non ne sapevamo nulla. E così nel 1950 eravamo di nuovo in guerra con la Corea, e da quell’anno ad oggi la guerra non è mai finita: ora è diventata permanente e come tale viene proiettata nel futuro. Allora tutto questo non potevamo neppure immaginarlo.

 

 

Piero Sansonetti, L’UNITÀ
– 06/11/2002

 

Gore Vidal, “impeachment per Bush”

 


La provocatoria tesi nel libro dello scrittore Usa: solo così la verità sull’11 settembre”

Gore Vidal non crede alle versioni ufficiali sull’11 settembre. Cerca una spiegazione sua: razionale. Possibilmente basata su indizi, su prove: non su teoremi. Parte da un’ipotesi politica: che quegli attentati abbiano fatto comodo all’Occidente, e specialmente alla destra americana. E lentamente – seguendo la logica, ma anche concreti riscontri – arriva alla conclusione che gli attentati sono stati eseguiti su mandato e finanziamento dei servizi segreti pakistani. I quali servizi pakistani, si sa, non sono affatto nemici degli Stati Uniti. “Tutto si tiene”, dicono i francesi. È una teoria da maniaci di complotti? Vidal crede che quelli che negano i complotti, in linea di massima, lo facciano in mala fede. Forse negano perché loro stessi colpevoli di qualche complotto. Del resto, per buttare giù due grattacieli in piena Manhatttan, e per radere al suolo il Pentagono, almeno un minimo bisogna aver complottato…
Gore Vidal è uno scrittore americano molto famoso, autore di romanzi, saggi politici e di romanzi storici. È conosciutissimo in America, e anche qui in Italia, doive tra l’altro soggiorna spesso, perché ha una casa a Ravello. Vidal da giovane è stato un attivista politico democratico. Ha conosciuto personalmente il presidente Truman, ed è stato amico di Eleonora Roosevelt e dei fratelli Kennedy. Con gli anni è diventato sempre più radicale, e oggi mette sotto accusa, alla radice, il sistema politico-economico americano, che giudica – nell’ordine – antidemocratico, arrogante, violento, e soprattutto “suicida”. Vidal da molto tempo sostiene che la corsa “reazionaria” degli Stati Uniti – che finanziano i propri lussi prendendo a prestito i soldi di tutto il mondo – finirà in uno schianto mortale dell’impero. Perché i soldi prima o poi si esauriranno, e gli imperi finiscono tutti così: al verde.
In questi giorni l’editore Fazi ha mandato in libreria l’ultimo libro di Vidal. Si chiama Le menzogne dell’impero (pagine 152, euro 13), e il titolo è l’aspetto più moderato del volume. Più radicale del titolo è il sottotitolo, più radicale del sottotitolo è la copertina, e più radicale di tutto è il contenuto del libro, specie del primo capitolo. Il sottotitolo è il seguente: “Perché la junta petroliera Cheney-Bush vuole la guerra in Iraq”. Contiene in una riga e mezza tre messaggi. Primo: quello americano non è un governo ma una junta golpista, come le giunte militari sudamericane negli anni ’70. Secondo, la giunta è dominata da interessi economici, e in particolare da interessi sul petrolio. Terzo: il capo della giunta non è Bush, povero ragazzo, ma è Cheney, che Vidal, nel libro, chiama il boss.

Infine la copertina. È fatta tutta come una bandiera americana, con le strisce rosse e bianche: ma il rettangolo blu riservato solitamente alle stelle, stavolta, anziché dalle cinquanta stelline bianche è riempito da cinquanta teschi con le tibie incrociate.
Il volume è composto da 11 capitoli. Solo il primo però è scritto recentemente e si riferisce alle questioni attuali, e cioè agli attentati di New York e Washington e alla decisione dell’amministrazione di muovere guerra contro l’Afghanistan e poi contro l’Iraq. Gli altri capitoli sono scritti prima dell’11 settembre, saggi vari, tutti molto interessanti,e che servono principalmente a dimostrare che il pensiero di Vidal non è improvvisato: è coerente ed è costruito su analisi e idee maturate negli anni.
Il primo capitolo, quello di gran lunga più importante, parte dalla convinzione che i servizi segreti americani non potevano non sapere dell’attacco dell’11 settembre. Vidal porta un buon numero di documenti che dimostrano che gli Usa erano stati avvisati molte volte e in molti modi. Perché non ne hanno tenuto conto? E perché dopo il primo dirottamento, che avviene alle 7.45 del mattino, passano quasi due ore prima che si decida di far scattare le normali procedure previste in questi casi, e cioè l’attivazione dell’aeronautica militare? E perché il Pentagono è stato tenuto per quasi mezz’ora sotto tiro senza essere evacuato? Seconda questione: quanti interessi avevano in comune la famiglia Bush e i Bin Laden? Vidal cita il gruppo economico Carlyle, e dice che sia Bush che la famiglia del capo di Al Qaeda hanno soldi lì dentro. Terza questione: è vero o no che il progetto di attaccare l’Afghanistan – per motivi legati non all’etica o alla grande politica, ma alla possibilità di far passare di lì un oleodotto e di poterlo poi controllare .- era un progetto abbastanza antico? Quarta questione: perché non si è dato seguito al piano di Clinton per distruggere Al Qaeda? E infine: perché Bush non ha voluto che il congresso indagasse a fondo su cosa è successo l’11 settembre e nei giorni precedenti? Vidal conclude con una risposta provocatoria: solo un processo di impeachment del presidente potrà chiarire tutto ciò, e prima o poi bisognerà arrivare a questo processo.
Vidal nel suo libro esamina nel dettaglio la gigantesca mole di interessi petroliferi che riguardano personalmente gran parte degli attuali capi dell’America: da Bush, a Cheney a Condoleeza Rice, al ministro Rumsfield. E descrive un conflitto di interessi – che considera il motore della politica americana, e soprattutto della guerra – di fronte al quale quello di Berlusconi appare come una marachella da ragazzi. E poi descrive la sostanza della politica estera americana come la ripetizione della politica estera della Roma imperiale. Cita Shumpeter, un saggio del 1919 che parlava di Roma: “Non c’era angolo del mondo conosciuto in cui non si sostenesse che un qualche interesse non fosse in pericolo, o addirittura soggetto a un attacco in quel preciso momento. Se gli interessi non erano quelli di Roma allora erano quelli dei suoi alleati. E se non aveva alleati se li inventava. Roma si considerava costantemente attaccata dai suoi malvagi vicini”. Vidal dice che gli americani non hanno fatto altro che superare i romani nella loro smania imperialista e vittimista.
Ma in concreto, qual è l’opinione di Vidal sugli autori dell’attentato? Vidal racconta che il 4 settembre il direttore generale dei servizi segreti pakistani, il generale Mahmoud Ahmed, arrivò a Washington. Il 10 settembre il quotidiano pakistano The News sollevò pesanti interrogativi su questa visita di una settimana e sui contatti misteriosi col dipartimento di Stato. Le autorità americane risposero che era una normale visita di cortesia, e ci informarono in quella occasione che in precedenza il capo della Cia, Gorge Tenet, era stato in visita a Islamabad. Infine l’otto ottobre, un mese dopo gli attentati, il generale Mahmoud fu licenziato perché gli indiani avevano trovato le tracce di un bonifico bancario di 100 mila dollari inviato per ordine di Mahmoud, a Mohamed Atta, cioè al capo dei dirottatori kamikaze dell’11 settembre. Come mai gli americani, invece di attaccare il Pakistan che sapevano quantomeno sospetto, decisero di allearsi col Pakistan per attaccare l’Afghanistan? Vidal non ha molti dubbi sulla risposta: per l’oleodotto. E cioè per motivi molto simili a quelli che ora li spingono ad attaccare l’Iraq. Con il sogno di conquistarlo e farlo diventare il principale avamposto di Washington nel mondo arabo e nell’area del petrolio.

 

 

Gianni Marsili, L’UNITÀ
– 08/11/2002

 

“In Usa più retorica che democrazia”

 


“L’intellettuale: ha votato come al solito un terzo degli elettori, perciò questa consultazione non è rappresentativa di niente.

Gore Vidal non si smentisce. Radicale e provocatorio, è a Roma per la presentazione del suo ultimo libro “Le menzogne dell’impero” (pagg 152, 13 euro, ed Fazi), nel quale sostiene né più né meno che l’amministrazione Bush era al corrente dell’attentato che si preparava contro le Twin Towers e che nulla ha fatto per impedirlo. Lo incontriamo in un albergo del centro e ne approfittiamo per commentare con lui i risultati delle elezioni americane di “mid term”.

Gore Vidal, ma le cose sono proprio così semplici come sembrano? È la paura la chiave di lettura della vittoria sonante di Bush?
“La paura: sì, forse. Non lo so. Mi pare che le cose siano andate come sempre. Ha votato più o meno un terzo degli elettori aventi diritto, vuole dire che questa elezione non è rappresentativa di niente. Non c’è stato dibattito, nessuno ha parlato di pace, i neri, gli ispanici e le altre minoranze in buona parte non hanno votato, sono rimasti a casa…”
La posta in gioco però c’era, soprattutto guardando in prospettiva alle elezioni che si terranno tra due anni.
“Sì, ma abbiamo avuto a che fare sostanzialmente con della propaganda becera. Certo che con questo risultato la gente ha perso molto, basti pensare a quello che ci toccherà sentire per i prossimi due anni. Il fatto è che negli Stati Uniti non abbiamo una democrazia, contrariamente a quello che si crede. Abbiamo una repubblica, questo sì, ma non una democrazia. Una repubblica dove si fa gran spreco di retorica. Se ci fosse una democrazia il presidente si chiamerebbe Al Gore, che fu regolarmente eletto due anni fa”.
Secondo lei Saddam ha giocato un ruolo nel voto americano?
“No, non credo proprio. In America non sanno chi è e non sanno neanche dov’è l’Iraq”.
Diciamo allora così: dopo il voto la guerra è più vicina?
“Spero proprio di no, ma temo di sì. Ha vinto quella che io chiamo la “junta petroliera”, dove domina la famiglia Bush: sono maleducati, ignoranti e hanno come unico interesse i soldi, il profitto. Per il profitto sono disposti a mandare all’aria tutte le regole internazionali, diventano ogni giorno più pericolosi”.
Al di là di questo c’è però una filosofia geopolitica che si sta facendo strada: l’unilateralismo in politica estera.
“Ma gli Stati Uniti sono sempre stati fondamentalmente isolazionisti. È molto facile non voler far parte di questo mondo e del suo intreccio di relazioni. È evidente che Bush e i suoi si sentono perfettamente a loro agio in questo atteggiamento.”
Ritiene che vi sia una conflittualità crescente tra Europa e Stati Uniti? C’è persino chi ipotizza che il prossimo vero conflitto armato si svolgerà tra le due sponde dell’Atlantico…
“Mah, tanto gli Stati Uniti quanto l’Europa tra cinquant’anni saranno irrilevanti sulla scena mondiale. Verrà fuori la Cina, con il suo peso demografico e politico, e tutta la regione eurasiatica, così strategica per le fonti di energia petrolifera”.
Ma secondo lei che cosa è mancato ai democratici in queste elezioni? Un progetto alternativo? Un leader carismatico? L’esercizio più puntuale di un’opposizione?
“Ma noi non abbiamo partiti politici in America. Nel senso che non abbiamo nessun partito che rappresenti veramente l’interesse nazionale. A nessuno interessa la gente, ed è per questo che la gente non vota”.
Nel suo libro lei parla di un auspicabile “impeachment” per Gorge W. Bush a proposito dell11 settembre…
Vorrei mettere le cose in chiaro. Io non chiedo l’impeachment di Bush. Non ne ho facoltà. È cosa che spetta semmai al Congresso. Dico invece che Bush dovrebbe rifornire delle risposte rispetto al suo comportamento in quelle settimane. E trovo che un processo sia una delle strade per avvicinarsi alla verità”.

 

LOMBARDIA OGGI
– 10/11/2002

 

Gore Vidal e Naom Chomsky. Nella Casa del male

 

 

Non hanno remore, né alcun timore. Anzi, nel lungo e fiero schierarsi contro la politica del loro Paese, gli Stati Uniti, si sono sempre rivelati molto intransigenti. E altrettanto pragmatici. Oggi che i tempi sono caldi e il panico da terrorismo è ormai alle stelle, soprattutto oltreoceano, Gore Vidal e Naom Chomsky sono tornati in libreria con due saggi che prendono di mira la “superpotenza imperiale” e la sua cattiva abitudine di determinare i destini del mondo in base alle proprie esigenze politiche ed economiche.
“Le menzogne dell’impero e altre tristi verità” di Gore Vidal (Fazi, 152 pagg. 13 euro) è una raccolta di saggi che attraversa 50 anni di politica statunitense raccontando “la storia di un impero che mette insieme i propri pezzi trasformando prima i suoi alleati e poi i suoi ex nemici in Stati clienti”. Non a caso il libro contiene il saggio “Perché la junta petroliera Cheney-Bush vuole la guerra all’Iraq” in cui Vidal, prendendo spunto dal volume di Nafeez Ahmed “Guerra alla libertà”, sostiene che l’amministrazione Usa conoscesse in anticipo ciò che stava per accadere l’11 settembre e che abbia intenzionalmente deciso di non intervenire per favorire una successiva guerra al terrorismo. La quale, manco a dirlo, avrebbe consolidato le sue posizioni di dominio politico ed economico.
Gli altri capitoli affrontano i tanti episodi oscuri della storia americana del ‘900: dalla decisione di sganciare l’atomica su Hiroshima, all’affermarsi della dottrina Truman che gettò le basi per l’avvio della Guerra Fredda, dal sanguinario intervento in Guatemala, alle ambigue risoluzioni di Yalta e Potsdam. Ma Vidal va oltre la semplice analisi della storia e avanza proposte concrete, come un maggior controllo dei rapporti tra élite economiche e politiche, o l’idea radicale di devolution per trasformare gli obsoleti Stati Uniti in una comunità federale sul modello dell’Unione europea.
Non meno accusatorio si rivela “Capire il potere” di Naom Chomsky (Marco Tropea, 512 pagg., 19 euro), forse il più implacabile oppositore della politica statunitense, nonché uno dei padri fondatori del movimento dei no-global. Il poderoso volume raccoglie tutta la mole di argomentazioni usate da Chomsky in 30 anni di conferenze e saggi. La critica è feroce e l’autore non ha peli sulla lingua: parla di “terrorismo americano” e sostiene soprattutto la tesi secondo la quale la democrazia Usa è caratterizzata da una spinta imperialistica che ha effetti dirompenti sull’equilibrio mondiale. Una democrazia che nuoce al suo stesso Paese, afflitto da una grave ineguaglianza sociale.
Chomsky usa per le sue analisi un approccio marxista ben filtrato dalle esperienze staliniane e sovietiche. E la sua critica al potere è a tutto tondo perché individua nell’oppressione dell’uomo e nella struttura economica che la determina la chiave di volta di meccanismi sociali e politici. Da vecchio “liberal” Usa, infine, Chomsky conosce bene l’influenza dei mass media e proprio a loro è dedicata una parte del libro. È in quelle pagine che l’autore definisce “attivismo mediatico” il lavorio delle Tv e dei giornali americani per costruire il consenso (dunque l’omologazione) in una società che non ammette o reagisce male al dissenso. (c.c)

 

Bia Sarasini, IL SECOLO XIX
– 07/11/2002

 

Gore Vidal: ha vinto il partito della guerra.

 


“Lo scrittore duro anche con il presidente: è stato “selezionato” dalle compagnie petrolifere. Gore Vidal: ha vinto il partito della guerra. “Il successo repubblicano? È proprio un brutto giorno. Un Paese sempre più imperialista”

“È proprio un brutto giorno. Il dollaro scende, ci prepariamo a una guerra e non abbiamo il denaro per farla”, commentava ieri mattina lo scrittore radicale Gore Vidal, a proposito dei risultati delle elezioni americane di medio termine, che hanno dato la maggioranza ai repubblicani, rafforzando così il presidente Bush. In Italia per presentare “Le menzogne dell’impero e altre tristi verità. Perché la junta petrolifera vuole la guerra contro l’Iraq” (Fazi Editore, 156 pagine), tra le pochissime voci americane dissonanti Gore Vidal rinnova in questo libro le accuse al governo degli Stati Uniti, come già aveva fatto in “La fine della libertà”, dedicato all’11 settembre. Oggi il tema centrale è la guerra all’Iraq.
Perché sostiene che gli StatiUniti non hanno il denaro necessario per sostenere la guerra contro l’Iraq?
“Bush ha tagliato le tasse, a favore degli americani ricchi e delle grandi società. In questo modo ha ridotto ai minimi termini le entrate dello Stato, che è costretto a prendere in prestito ogni giorno tre miliardi di dollari. Non ci sono soldi in cassa”.
Come si prepara una guerra senza denaro?

“Quello che può fare il presidente è aumentare il denaro in circolazione, cioè stampare più dollari. Il che è molto preoccupante, perché porta dritto verso l’inflazione. E non ci saranno Germania e Giappone a finanziarlo, come fecero con suo padre nel 1991. insomma, tutto va per il peggio. Senza eccezioni, a quanto pare”.
Eppure Bush viene votato, raccoglie consenso.

“Lui non è stato eletto. Al Gore ha preso 600.000 voti in più. Hillary Clinton dice che Bush non è stato eletto – elected in inglese – ma selected, selezionato. Selezionato dalle grandi società che lui paga eliminando le tasse. E poi non è vero che Bush è popolare. La guerra non la vuole nessuno.”.
Perché parla di “Junta”?

“Junta è una parola spagnola. La usiamo per indicare un gruppo di persone che si associano, un po’ come camorra. Bush 1, Bush 2, il vice presidente Dick Cheney, la responsabile della sicurezza Condoleeza Rice, il segretario alla difesa Gorge Rumsfield, tutti lavorano per il settore petrolio. Un giornalista in vena di scoop parlerebbe di un complotto, io le chiamo “coincidenze””.
Lei scrive che non ci sono “guerre buone”, neppure la seconda guerra mondiale, che ha salvato l’Europa. Cosa vuol dire?

“C’è sempre tutta questa propaganda. Io mi sono arruolato a 17 anni e ho combattuto in marina, ho dato il mio contributo. Ma non mi faccio illusioni. Di sicuro Hitler era “cattivo”, toglierlo di mezzo è stato un risultato. Per il resto abbiamo completato la nostra espansione nel mondo”.
Lei sostiene che la guerra all’Iraq segna la seconda fase dell’espansione americana.

“Un anno fa arrivò sul tavolo di Cheney una ricerca da cui risulta che a partire dal 2020 il petrolio comincerà a scarseggiare. Ma investire in energie alternative, come l’idrogeno, non è molto divertente. È più divertente impadronirsi delle risorse petrolifere che ancora esistono. Perché tutto il mondo ormai è drogato, è dipendente dal petrolio. È come se Saddam Hussein avesse la più grande partita disponibile della droga più ricercata, il petrolio. Si fa di tutto per averla. Anche parlare di bandiera, diritti delle donne o democrazia”.
Eppure molti trovano che ridurre tutto al petrolio è troppo banale.

“La realtà è banale. Certo, dall’altra parte c’è di tutto, Maometto, Gesù, il bene, il male, lo scontro di civiltà. Pura ideologia.
Non le pesa di essere considerato antipatriottico?

“La mia famiglia, la famiglia Gore, è tra i fondatori degli Stati Uniti di America. Accusarmi di antipatriottismo è assurdo. Anzi sono un gentiluomo a non definire usurpatore Bush il giovane, che ha preso il posto che aspettava a mio cugino Albert, Al Gore, appunto. Sono convinto che repubblica e democrazia, non sono compatibili con l’impero”.

 

 

FRANCESCO FANTASIA , IL MESSAGGERO
– 06/11/2002

 

Vidal: «Le bugie di Bush puzzano troppo di petrolio”.

 

 

Da grande scrittore americano, ha passato la vita a mettere sotto accusa gli impulsi imperiali degli Stati Uniti. Per sostenere con forza la necessità che l’America torni alla sue radici jeffersoniane, agli ideali dei padri fondatori e la smetta di impicciarsi nelle faccende delle altre nazioni e in quelle private dei propri cittadini. Tutto raccontato in una ventina di romanzi e centinaia di saggi. Ma da quel maledetto 11 settembre la penna di Gore Vidal è diventata, se possibile, ancora più spietata, sferzante, provocatoria.
E quel che accade di qua e di là dell’Oceano, a Vidal non piace un granché. Già un anno fa aveva dato alle stampe un libretto corrosivo (La fine della libertà) in cui denunciava il nuovo totalitarismo dell’amministrazione Bush, «che ha fatto carta straccia del Bill of Right, soffocando le garanzie democratiche dei cittadini», sacrificate nel nome della crociata anti Bin Laden. Ma adesso Vidal colpisce ancora più duro. E sostiene: il Presidente e i suoi – anzi, la «junta petroliera Cheney-Bush», per ripetere la sprezzante definizione di Vidal – sapevano bene quel che si preparava, l’attacco terroristico a New York e Washington. E non hanno mosso un dito per impedirlo: hanno semmai intenzionalmente deciso di “lasciarlo accadere”, per poter poi scatenare guerre già da tempo programmate e consolidare il dominio degli States sull’intero pianeta.
Accuse brucianti, che da mesi circolano in ambienti e giornali di ispirazione radicale, e che lo scrittore americano rilancia in una spigolosa raccolta di saggi, Le menzogne dell’Impero e altre tristi verità (Fazi editore, 154 pagine, 13 euro), che verrà presentata oggi pomeriggio a Roma, alle ore 17, alla Casa delle Letterature in piazza dell’Orologio.
Vidal crivella di sospetti la versione ufficiale dell’attacco alle Torri Gemelle, segnando con la matita rossa punti oscuri e incongruenze: dall’inerzia dei servizi segreti Usa di fronte alle informazioni di un imminente attentato terroristico alla colpevole immobilità delle forze di sicurezza aeree, fino alla “connection” affaristica che legava la famiglia dei petrolieri Bush a quella di Salem bin Laden, fratello di Osama.
La conclusione per Vidal è una sola: l’attuale capo della Casa Bianca si è comportato come un suo più celebre predecessore. «Anche il presidente Roosevelt», dice, «era a conoscenza dell’ora dell’attacco giapponese a Pearl Harbor. Ma di proposito fece scattare in ritardo la comunicazione di allarme, sacrificando così 3 mila uomini per far entrare in guerra il paese. Ma su Pearl Harbor si è indagato per 60 anni mentre sull’attacco alle Torri Gemelle l’amministrazione Bush ha bloccato le indagini del Congresso».
Come bisognava rispondere allora alle stragi di New York e Washington? La morte di quei tremila americani sepolti dalle macerie delle Torri Gemelle doveva restare impunita? «La guerra al terrorismo», risponde, «è un’invenzione di Bush. La guerra si fa contro una nazione, non nei confronti di un’entità astratta come il terrorismo. Se abbiamo bombardato l’Afghanistan non è certo per vendicare le vittime delle Torri Gemelle. O per catturare Osama bin Laden. La verità è che i talebani mettevano ormai a rischio la costruzione dell’oleodotto che avrebbe trasportato il petrolio dal mar Caspio all’Oceano Indiano. E così a Washington hanno deciso di sbarazzarsi di loro. I piani dell’attacco erano già pronti molto prima dell’11 settembre».
Progressista radicale e fustigatore dell’establishment, aristocratico e trasgressivo, a 77 anni buoni Gore Vidal resta la coscienza critica dell’“impero americano”. Un’America che – a suo avviso – ha depredato il mondo, lo ha invaso con la sua politica espansionista «e che alla fine si è messa da sola nel guaio dell’11 settembre». Giudizi sempre controcorrente e controversi, i suoi. Ma che meritano di essere ascoltati. «Dal ’47 ad oggi – dice – gli Stati Uniti hanno messo a segno oltre 250 interventi militari contro altri Paesi, una vera e propria strategia di “terrore preventivo”: una guerra perpetua per una pace perpetua. Finalmente adesso anche l’Afghanistan è stato reso un luogo sicuro, non solo per la democrazia, ma anche per la società petrolifera californiana Union Oil. Non a caso a fare il presidente a Kabul è stato piazzato un ex impiegato della Unocal, Karzai».
Mai come oggi, aggiunge Vidal, gli Stati Uniti sono governati da una dittatura, quella del denaro, che ispira ogni decisione della “junta petroliera” insediata alla Casa Bianca. «Basta scorrere qualche nome per capire che gli esponenti dell’attuale amministrazione hanno il cuore altrove, impegnato a far quattrini: Bush junior con l’Harken, Cheney con l’Halliburton, Condoleezza Rice con la Chevron, Rumsfeld con l’Occidental».
Messo nel sacco l’Afghanistan, il prossimo obiettivo è Bagdad. «La guerra contro l’Iraq si farà – conclude Vidal – con l’Onu o senza l’Onu. Grazie a un sapiente gioco di prestigio la “junta” ha rimpiazzato in un baleno Osama, la personificazione del Male, con Saddam Hussein. Non ci sono prove dei legami tra Baghdad e l’11 settembre? Poco importa. Ciò che davvero conta è aver trasformato l’Iraq nel luogo dove magicamente dovrebbero tornare insieme i cocci dell’armonia planetaria: il controllo del petrolio, lo sradicamento del terrorismo, la riscrittura del conflitto israelo-palestinese».

 

Roberto Andreotti e Federico De Melis, ALIAS – IL MANIFESTO
– 26/10/2002

 

LA NOTTE AMERICANA (2° parte)

 

Andreotti Nei suoi romanzi storici ci sono figure realmente esistite e personaggi d’invenzione: su questa dialogicità si sono soffermati i critici. È interessante, mettendosi nell’officina dello scrittore, il senso dell’ironia che ne deriva, un sense of humour molto poco italiano, che però poi diventa una cifra storiografica.
De Melis E dunque, sul piano del metodo, come si lega il momento dell’immaginazione con quello della realtà storica?
Vidal Be’, serve più ricerca che immaginazione. I tedeschi – Herder, mi sembra – parlando della capacità di evocare, di ricreare il passato e di calarvisi dentro, hanno creato un neologismo: Einfühlung. Ma non si tratta solo di calarsi nel passato, si tratta di capire che esso è assolutamente diverso dal presente. Non si ricerca il passato con l’idea che somigli all’oggi. Uno sa che è esistito e che è diverso. Herder riteneva che questa capacità fosse una gran dote e per questo inventò la definizione.
Andreotti È questo il segreto del Giuliano?
Vidal Non m’intendo di queste cose. Secondo alcuni ho dimostrato di avere questa capacità. Non leggo romanzi storici, perché prima debbo leggere la storia; i romanzi non mi sono utili, la storia sì.
De Melis Come romanziere storico a quale genealogia americana sente di appartenere?
Vidal Tutti i romanzi, a mio parere, sono storici: calati in una certa epoca e in un certo luogo. Se uno scrive del presente, al momento della pubblicazione quel presente sarà già storico, coniugato al passato. Chi scrive di storia finisce sempre in questa impasse. Ma fra di noi riesce meglio chi meglio comprende la distanza che distingue il passato da ciò che ci aspettiamo dal quotidiano.
Andreotti In un certo senso è un’idea formalista. Sono gli effetti di realtà che fanno di un romanzo un romanzo storico…
Vidal Ma posso anche dargli una veste surrealista, alla realtà. E l’ho fatto: con Myra Breckinridge, e anche con Duluth, che è un romanzo prettamente surrealista sulla politica americana.
De Melis Ma al tempo stesso questi valgono anche come romanzi storici.
Vidal Sì, sono molto calati nella storia.
De Melis La grandezza di Gore Vidal, almeno come ricezione italiana, è questa capacità di dare profondità alla storia: tratto piuttosto raro nella tradizione anglosassone. Insisto: qual è la sua genealogia?
Vidal Io sono come le alici della costiera divina, marinate in aceto. Con aglio [in italiano].
Andreotti Risposta gastronomica a una domanda troppo impegnativa.
Vidal Sì, era ora. Oggi siamo italiani.
De Melis Comunque lei con questo intende dire che è pungente?
Vidal Intendo dire che ho un gusto forte.
Andreotti Da questo punto di vista, quali scrittori italiani hanno iniettato un po’ di coca nelle sue vene letterarie americane? [Sul tavolino c’è la fresca riedizione Adelphi di Nelle vene dell’America di William Carlos Williams].
Vidal Non droga, ma qualcosa di molto più anodino. L’unico scrittore italiano del ventesimo secolo che ho ammirato sul serio, anzi, più di qualunque altro scrittore contemporaneo, è stato Calvino.
Andreotti Il primo o l’ultimo?
Vidal Tutto, Calvino è sempre Calvino dall’inizio alla fine. Si cimenta con varie cose, vede il sole a Castiglione da vari punti di vista… ed era meraviglioso, perché ogni volta faceva qualcosa di nuovo, di diverso da tutti, come del resto provo a fare anch’io: per quanto, parlando di storia americana, sia molto più formalista. Ma sono costretto a essere formalista, perché scrivendo di storia la insegno. A Calvino era piaciuto moltissimo Duluth; dei miei libri, era quello che preferiva.
De Melis Calvino e Vidal non hanno molti punti in comune: perché allora Calvino?
Vidal Be’, non ci dimentichiamo che era figlio di due scienziati, due agronomi, e guardava ogni cosa con occhio scientifico. Quasi ne restituiva la struttura molecolare… Sarà stato il ’73 o il ’74, scrissi su di lui un lungo articolo per la “New York Review of Books”. Nel giro di un anno tutti i suoi libri, che prima erano usciti in piccole edizioni mai lette da nessuno, vennero pubblicati in America. Fu il lancio di Calvino. Questo era il potere che avevamo all’epoca alla “New York Review of Books”.
De Melis Come mai Calvino non ha fatto tradurre Gore Vidal da Einaudi? Perché non l’ha spinto?
Vidal Forse perché non ne avevo bisogno. Sono io che ho spinto Calvino.
Andreotti È incredibile che non sia mai stato tradotto in italiano Williwaw, il suo primo romanzo…
Vidal …proprio adesso sta uscendo di nuovo per la University of Chicago, in una collana dedicata ai classici della seconda guerra mondiale. Ho appena scritto la prefazione.
Andreotti Del resto da noi manca un’idea compatta, un “catalogo”, di Gore Vidal: i suoi libri più famosi sono usciti senza un’autorevole cornice editoriale.
De Melis E forse dipende anche da questo il prevalere di un’immagine contenutistica della sua opera, schiacciata sulla brillantezza mondana, sul gossip sessuale, sull’affabulatorio, e tutto questo a discapito della comprensione formale: caso ultimo, le recensioni italiane della sua autobiografia, Palinsesto.
Vidal Chi vuole leggermi deve conoscere l’inglese molto bene, e capirà la mia forma; non la capirà certo in traduzione.
De Melis Quindi lei si ritiene intraducibile.
Vidal È quello che si dice della poesia: impossibile tradurla. E se uno scrittore adopera vari stili, se ha varie voci, com’è nel mio caso, il povero traduttore non saprà quale di queste voci sia stata usata, perché di rado sa l’inglese talmente bene che l’occhio e l’orecchio riescano a farglielo capire.
Andreotti È un problema di tastiera, dunque…
De Melis Uno scrittore ventriloquo.
Vidal Sì, direi di sì. Ma dovete anche pensare che uno scrittore, e in particolare un romanziere, è come se avesse a disposizione un teatro con un certo numero di attori. Shakespeare, che è stato il nostro autore più grande, aveva un centinaio di voci diverse; Beckett una sola. Io una ventina, che sono più di quante se ne abbiano in genere; Tennessee Williams nove, che per un drammaturgo sono tante: Stanley, Blanche Dubois, la madre, il nonno, il pappagallo… Ora, cosa fa lo scrittore? Mette i suoi attori nelle storie che scrive. “D’accordo – dice – secondo me a quella lì starebbe bene questa parte. Visto che le piace morire in scena, la faccio morire in scena”. Insomma, ci mette l’attrice che ha in mente. Non si spinge molto al di là del suo cast. Col suo cast uno scrittore ci nasce.
De Melis E così questa potenza orchestrale è impossibile tradurla?
Vidal Be’, da un lato c’è la vicenda, il dramma che si vuole narrare; dall’altro il melodramma, la musica. Se la musica non gli è familiare, chi legge un tuo libro in traduzione capirà la trama, capirà chi uccide Blanche Dubois, ma il modo in cui Blanche Dubois viene uccisa dipende dalla musica. Questo genere di romanzi mi sembra si avvicini di più a quella vostra grande forma artistica che è l’opera: si tratta di sposare la musica al dramma. In qualche caso il dramma è molto più robusto della musica, in altri accade il contrario.
De Melis Un amico critico letterario ci diceva ieri che in definitiva Gore Vidal come romanziere è nel solco della tradizione…
Vidal Significa che non mi ha letto. Per andare dritti al punto, se capisco bene: diciamo che cerco di essere educato, e parlo delle cose che interessano sia gli altri che me. Ciò vuol dire che non parlo mai di letteratura, perché poca gente si interessa di letteratura. E sicuramente non parlo dei miei lavori, a meno che non mi si metta alle corde come in questo momento. Perciò parlo di politica. Sono stato e sono molto attivo politicamente e la politica è un argomento che interessa più o meno tutti, specie di questi tempi. Per questo mi si percepisce come orientato verso la politica. Si dice: Ah, ecco di che si occupa. È un polemista, un esperto di ideologie… Cosa che naturalmente non sono. Ma non mi metterò a disquisire delle mie opere letterarie, perché o uno le legge e le scopre, o non le legge – come in genere accade – e se ne fa un’opinione che non ha nessun rapporto con la loro realtà effettiva. Aspetto ancora di leggere qualcosa di interessante in Italia, per esempio su Duluth. In America non c’è molto. A volte si casca meglio con gli inglesi.
Andreotti Ma noi intendevamo “scrittore tradizionale” in opposizione, intanto, negli anni sessanta, al nouveau roman; poi al postmodernismo.
Vidal Sì, mi piace pensare di essere stato io a impedire che il nouveau roman francese fosse importato negli Stati Uniti, eventualità che sarebbe stata fatale per la nostra letteratura. Sono stato io a bloccarlo, perdio. Se date un’occhiata alle mie raccolte di saggi troverete un pezzo molto lungo intitolato French Letters [doppio senso: l’espressione significa sia “le Lettere francesi”, sia preservativi], in cui partivo da Robbe-Grillet, Nathalie Sarraute, Pinget… Li ho letti tutti. E ho detto: no.
De Melis Nemico degli sperimentalisti dichiarati, Gore Vidal ha però inventato – come vide Calvino riferendosi a Myra Breckinridge – un modo davvero nuovo di fare letteratura, giocato, come la pop-art, su un gioioso e feroce pastiche di documenti del costume di massa.
Vidal Calvino scrisse di me che avevo portato il romanzo a nuove vette: iper-romanzo, o romanzo elevato al cubo.
Andreotti Infatti lei ha scritto su Palinsesto – la sua autobiografia – che fin dagli anni sessanta la sua opera di romanziere veniva recepita come un definitivo voltare le spalle al modernismo. Un problema focale, per queste nostre conversazioni, che intendono discutere ex post le forme del moderno.
Vidal Bisogna cominciare da una definizione. Io non so cosa sia il modernismo. Voi?
Andreotti In letteratura si tratterebbe di trovare un corrispettivo ai grandi architetti razionalisti di inizio Novecento. Un movimento formale che ha sottratto peso…
De Melis … alla decorazione.
Vidal Io capisco il modernismo nell’art déco, in architettura. Ma dobbiamo dire che Hemingway era un modernista perché lui stesso si definiva tale? Hemingway era uno scrittore realista, banale e convenzionale, che scriveva libri per ragazzi sulla pesca. Ma siccome conosceva Gertrude Stein, e Gertrude Stein diceva di essere modernista, Hemingway si definì così anche lui, insieme all’amico di lei, Picasso. Francis Scott Fitzgerald era un romanziere squisito, ma tanto moderno quanto… che so, Pierre Louªs.
Andreotti Allora ci dica chi, per lei, è lo scrittore modernista.
Vidal Be’, in genere è una questione di megalomania. Vedi James Joyce. Finnegans Wake è un romanzo modernista; non sappiamo ancora cosa significhi la parola “modernista”, ma sappiamo che Joyce riteneva di aver scritto un romanzo che avrebbe segnato la morte di tutta la letteratura precedente, perché nessuno sarebbe mai riuscito a seguirlo. Aveva inventato una lingua nuova, “una lingua per la notte, una lingua per il sonno”… Forse avrebbe avuto esiti migliori se avesse padroneggiato la lingua per il giorno, quella con cui ci esprimiamo quotidianamente. Joyce ci ha dato una lingua speciale, reinventata, che sostanzialmente viene molto ammirata da chi non fa parte del mondo letterario. Piace agli accademici. Non credo si possa aggiungere granché altro. Sessanta, settant’anni fa un grande attore francese, Louis Jouvet, dichiarò: “Sulla Terra tutto cambia, tranne il teatro d’avanguardia”.
De Melis Abbiamo parlato di modernismo perché il binomio su cui impostiamo queste conversazioni è “democrazia e letteratura”.
Vidal Be’, qui sorge una contraddizione, specie per uno scrittore americano, perché il nostro paese si fonda sull’Illuminismo, sulla dichiarazione dei diritti, sulla dichiarazione d’indipendenza. “Tutti gli uomini nascono uguali”. In teoria, pertanto, la grande arte dovrebbe esser fruita dal maggior numero di persone possibile, dovrebbe essere accessibile a tutti. Ma siccome la nostra scuola pubblica è carente da sempre, e negli ultimi cinquant’anni, da quando siamo diventati un impero globale e tutti i soldi vengono spesi per la guerra, è addirittura peggiorata, gli americani non leggono e non hanno un’istruzione. Cosa è successo? Da noi esiste una piccola classe di mandarini, i docenti universitari, i quali ottengono splendidi incarichi e, un po’ come accade nel Gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse, vorrebbero che la letteratura fosse un gioco monacale: meno sono i giocatori, più diventa alta. Gli altri vengono tutti esclusi. Da un lato abbiamo dunque l’oggetto elitario della classe docente, dall’altro una popolazione di non lettori.
Andreotti C’è un altro aspetto del binomio democrazia/letteratura: l’allargamento della fornitura letteraria dà luogo a una superproduzione internazionale di lingua inglese, proveniente per la gran parte dai paesi delle ex-colonie.
De Melis Ed è un fenomeno che pesa molto sui valori espressivi: i quali hanno lasciato il campo a una lingua media internazionale, una scrittura-Sheraton.
Vidal La letteratura popolare esiste fin da prima che tirassero sù gli aeroporti in cui viene venduta. A mio parere, si è creato un entusiasmo eccessivo verso brutti libri che rendono omaggio a minoranze infelici. Il senso civico va bene, ma non è utile all’arte. Io sono un fautore tanto dell’uno quanto dell’altra; ma vedo che non sempre coincidono. Ed è risaputo che da una politica di peso nasce di solito un’arte assai poco di peso.
Andreotti La letteratura sembra entrare in collisione con la democrazia dei consumi.
Vidal Non ho detto questo. L’abuso della democrazia con cui certi demagoghi in alcune parti del mondo, per esempio gli Stati Uniti, giustificano un’arte brutta è altrettanto terribile di quanto fu la celebrazione del kitsch ai tempi di Hitler. Il kitsch è kitsch e una letteratura del senso civico è una letteratura del senso civico, cioè valida in senso civico: ma non per la letteratura. Sempre che alla letteratura si attribuisca un valore. Molto spesso non è questo il caso, però.
De Melis Ma quando lei scriveva Myra Breckinridge, nel 1968, un romanzo di valore espressivo poteva diventare un best-seller: oggi un best-seller è solo un libro che utilizza una scrittura di tipo medio.
Vidal Succede ancora che una persona come me scriva un libro che viene letto da tanta gente, così come in tanti leggono Stephen King. E allora? Sono contento per King, e i miei lettori sono contenti di me. E se non lo sono, si allontanano. In materia d’arte resto un darwiniano.
Andreotti Prendiamo questo Jonathan Franzen…
Vidal …ogni stagione editoriale deve avere il suo caso letterario.
De Melis Sì, ma lui rivendica di aver scritto il libro dopo una ricerca di mercato.
Vidal Buon per lui. San Paolo ebbe una visione di Gesù, mentre Franzen ha avuto una visione di marketing.
De Melis Tornando a Gore Vidal “scrittore democratico”, c’è questa capacità, sempre ammirata, di “mettere in pigiama” i personaggi storici, cioè di rendere domestica la Storia avvicinandola al lettore.
Andreotti È un ingrediente della tradizione inglese della biografia, alla Robert Graves.
Vidal Ma io non sono molto inglese, e poi nutro pochissimo interesse per la vita domestica della gente. Per questo non leggo i romanzi contemporanei, che sono ritratti dell’autore e dei problemi che ha con la moglie e con la sua creatura artistica. Il problema sta tutto nel modo. Io non voglio avvicinare nessuno al lettore. Mi dilungo parecchio sui problemi di costipazione di cui soffriva Lincoln e sulle medicine che prendeva, anche tossiche. In questo senso sì, l’ho messo in pigiama. Ma il mio fine è un altro. A me interessa capire se era possibile che Lincoln diventasse pazzo.
Andreotti Appunto, il fine è interpretativo.
De Melis …mentre Truman Capote si ferma al pigiama, per quanto mi riguarda.
Vidal Forse. Meglio quello, che non le sue fantasie.
De Melis Ho capito, torniamo a Bush. Nessuno qui da noi può dire pane al pane come lei in quest’ultimo libro; prima di cominciare a parlare di politica, bisogna sempre mettere le mani avanti: non sono anti-americano. Un intellettuale italiano radical è inconcepibile.
Vidal La stessa cosa dobbiamo farla anche noi: “è un fatto terribile che Osama bin Laden ci abbia attaccato”, “quanto ci dispiace per tutte le vittime”. Ogni paese ha il suo stile in fatto di educazione. E ogni paese, alla stregua degli altri, non vuol far sapere perché succedono certe cose. Durante la seconda guerra mondiale ho passato tre anni nel Pacifico, e nessuno ci ha mai detto, né noi abbiamo mai capito, perché i giapponesi ci avevano attaccato a Pearl Harbor. Non è stata mai data una spiegazione ufficiale, tranne che i giapponesi erano cattivi. Chiederlo equivaleva a tradire. Siamo stati quattordici anni nel Vietnam e il governo non è mai stato in grado di chiarire perché. Adesso, dopo la conquista dell’Afghanistan per il petrolio del mar Caspio, facciamo finta che Saddam stia dando rifugio al suo nemico Osama bin Laden. Ma Osama ha definito Saddam un apostata. I due si odiano. Però noi dobbiamo far finta che siano la stessa persona.
De Melis Nelle Menzogne dell’impero c’è quel primo saggio, davvero impressionante, dove lei sostiene che la junta Bush-Cheney ha come “chiamato” in casa il nemico per poter procedere all’invasione dell’Afghanistan, “pianificata” ben prima dell’11 settembre.
Vidal Per questo vorrei che si mettesse sotto processo il presidente: per sapere cos’è successo. Una volta l’impeachment era un evento terribile; ora, dopo quello che hanno fatto a Clinton, non più. Clinton è stato messo sotto processo, e poi è stato rieletto. La sua popolarità nel frattempo era cresciuta. Quindi, se Bush è innocente come Clinton, non ha nulla da temere. Ma noi dobbiamo sapere. Il vecchio Congresso se ne sarebbe incaricato, avrebbe indagato; così la Corte Suprema. Il Congresso può istituire un processo. Ma non al momento. Magari lo farà in futuro.
Andreotti Cosa intende per vecchio Congresso?
Vidal Il Congresso prima dell’impero, quello esistente fino a cinquant’anni fa.
De Melis Sempre in questo suo saggio colpisce l’episodio di Bush in visita scolastica che, mentre accade l’inferno, prosegue a scherzare con la bambina sul suo cucciolo di capra: un montaggio dialettico alla Ejzen_tein.
Andreotti Signor Vidal, lei ha tracciato nei suoi romanzi storici una vera e propria antropologia del potere, con risvolti alla Svetonio, lo storico dei Cesari che impugnava contro di loro gli archivi, anche segreti. In questo suo teatro della storia americana – penso alla trilogia di Washington D.C., Burr, 1976, oppure all’Età dell’oro – che posto occuperebbe Bush junior?
Vidal INVISIBILE [in italiano].
Andreotti Cambiamo tasto: il Gore Vidal sceneggiatore a Hollywood.
Vidal Be’, in realtà il teatro mi ha dato più soddisfazioni del cinema. A Broadway sono stati messi in scena cinque miei lavori; l’inverno scorso ne è stato ripreso uno e adesso sono in programma altre due riedizioni. Nel teatro americano e inglese l’autore esercita un controllo totale, nel cinema no, a meno che non sia anche produttore o regista. E io non ho mai avuto il tempo di fare né l’uno né l’altro. In un paio di casi ho avuto più voce in capitolo: uno era The Best Man, un film politico primo nel suo genere, e il genere era una commistione di realismo e satira: riscosse grande successo. Quanto al titolo italiano, L’amaro sapore del potere, non poteva essere peggiore, non rispecchia affatto il tema del film.
De Melis Torniamo a Myra, il romanzo: soprattutto se letto oggi, configura un’apocalissi culturale, e del resto da noi già nel ’69 un giovane Franco Cordelli aveva parlato di meta-romanzo escatologico. Come si trova nei panni di scrittore apocalittico, attirato dalla rovina del contemporaneo?
Vidal Chi è il professor Omar Calabrese?
Andreotti È un allievo di Eco.
Vidal Mi hanno mandato un suo libro in cui c’è un capitolo sul neobarocco, che parla di Calvino, di Eco e di me. A quanto sembra, l’autore ritiene che io sia stato influenzato da Eco. Ma io Eco non l’ho mai letto. Mi piacciono i suoi saggi brevi. La cronologia che dà Calabrese però è errata; io ho cominciato molto prima di Eco e anche prima di Calvino.
Andreotti In èra Borges salta la cronologia…
Vidal Borges non figura nella mia genealogia.
Andreotti Non le piace Borges?
Vidal Borges piace a tutti.
De Melis Comunque, al di là di Eco e di Borges, Vidal si sente o no scrittore della decomposizione?
Vidal Può darsi. Ma diciamo anche della composizione. Nulla va perduto; tutto viene riciclato.
Andreotti In Palinsesto è teorizzata un’ideologia sessuale, già attiva in Myra come dispositivo romanzesco, che si appoggia all’ermafroditismo di Platone…
Vidal Il Simposio… Be’, è una teoria.
Andreotti Ma non c’è dubbio che il suo interesse sia soprattutto in chiave neo-pagana?
Vidal Non sono un fanatico del monoteismo, perciò ovviamente preferirei la “gente di campagna”, cioè i “pagani”. I loro culti mi sembrano più interessanti.
De Melis La sua attrazione per Giuliano l’Apostata è appunto la rivendicazione del politeismo nel suo crepuscolo.
Vidal In questo caso, il grande vantaggio è stato che Giuliano scrisse moltissimo. Quando nel romanzo lo faccio parlare, Giuliano dice effettivamente le cose che scrisse. Proprio per questo è stato un protagonista.
Andreotti Invece la Yourcenar ha dovuto sputare sangue, con Adriano.
Vidal Non c’è rimasto granché di scritto di Adriano. La Yourcenar ha fatto un errore. Ha trasformato Adriano in una professoressa di filosofia della Francia del Novecento. Cosa che Adriano certo non era.
Andreotti Eppure la Yourcenar sostiene di aver lavorato anni a immaginare come parlasse Adriano nella sua corte del II secolo: “lo stile togato”…
Vidal È naturale che l’abbia detto. È tanto divertente, quel libro. Sentite qui: Adriano è appena andato in Inghilterra [cita a memoria]: “Guardando il tempestoso canale della Manica, capii che quella piccola isola nell’estremo nord dell’Europa poteva diventare un giorno il centro di un grande impero planetario”. Ecco un esempio di higher cretinism. Si sa poi che Adriano, in collera con il segretario, prese un libro – una tavola –, gliela tirò cavandogli un occhio. La Yourcenar scrive pagine su pagine per spiegare che “ebbene, il libro mi cadde di mano e là in terra giaceva il suo occhio. Tentai di rimetterglielo a posto, ma non ci riuscii”…
Andreotti Lei, invece, è uno scrittore “kennediano”, che per nascita upper class avrebbe potuto benissimo diventare un grande statista… Eppure la vocazione letteraria non ha ostacolato l’istinto a occuparsi della Polis: lei è stato anche candidato.
Vidal Mi sono presentato due volte. Nel ’64 avrei avuto i voti per essere eletto al Congresso, ma arrivai alla conclusione che non volevo andarci. E quella fu la fine della mia carriera politica attiva. Nel ’60 mi ero presentato nel nord dello stato di New York e avevo ottenuto il 47% dei voti; l’ultimo candidato democratico prima di me aveva preso il 27%, sicché quasi raddoppiai. Quattro anni dopo volevano farmi eleggere al Congresso, ma a quel punto Kennedy era già morto e io avevo ripreso a scrivere romanzi. Perciò non ci andai. Fu l’anno di Giuliano.
Andreotti Dalla rinuncia al Congresso vien fuori Giuliano: non dev’essere una contropartita così frequente, in un ambiente altoborghese americano intriso di politica…
Vidal Be’, da una famiglia possono nascere parecchi frutti. In America la più grande famiglia di politici fu quella degli Adams, che erano però anche dei grandi intellettuali. Molto interessanti. Altrettanto lo è qualche membro della famiglia Gore: anche se non sarà un politico di grande talento, Albert è molto intelligente.
De Melis Lei era accusato di filosovietismo?
Vidal Chiunque pensasse che i neri non dovevano ridiventare schiavi era un comunista. L’America non si interessava di questa gente.
De Melis E sostenere queste posizioni quando c’era il comunismo, era più difficile di oggi?
Vidal Allora era più semplice: il campo era o bianco o nero. Adesso il campo è solo grigio, con una goccia di sangue.

[Collaborazione e traduzione
di Claudia Valeria Letizia]
® Alias-il manifesto

 

 

Roberto Andreotti e Federico De Melis, ALIAS – IL MANIFESTO
– 26/10/2002

 

LA NOTTE AMERICANA (1° parte)

 

Gore Vidal, Sex-pop vs Bush

Gore Vidal, scrittore “kennediano” radical, spiega le manovre della “junta” petrolifera
Bush-Cheney e le ragioni di una sfida letteraria – multipla, apocalittica e militante – che dura da cinquant’anni.

Ravello, ottobre

C’è un’enclave statunitense, civile e non militare, sulla costiera amalfitana tra limoni e castagni. Ancora oggi dopo trent’anni non si riesce a saldare – aveva ragione Italo Calvino – la residenza di Gore Vidal in questa villa-eremo bianca degli anni venti a strapiombo sul golfo di Salerno, con la sua presenza costante e quasi ossessiva nell’agorà d’America. Non solo dunque per l’opera letteraria, ma anche per la persona, si deve parlare di ubiquità.
E se prima di entrare in casa vince il registro goethiano del paesaggio italiano, condiviso da tanta letteratura del Grand Tour, una volta immessi nel campo magnetico di Vidal ci si ritrova trasferiti al di là dell’Oceano, in un interior washingtoniano: non è tanto l’arredamento, ma più esattamente l’aura fredda e cordiale di questo mastodonte d’uomo in capelli bianchi, la cui auctoritas non risulta scalfita dalla “perversione polimorfa” che ha plasmato la sua biografia e gran parte della sua opera.
Il salone in cui si svolge la prima parte della nostra “chaise-longue” non è precisamente un set per le performance pop di Myra Breckinridge – il trans protagonista, negli anni della contestazione, del libro che resta forse il vertice della sua narrativa e un punto di snodo per l’officina mondiale dell’”antiromanzo”; domina, semmai, la cifra del palinsesto familiare delle foto sulla console: la sorellastra Jacqueline Bouvier in Kennedy (con dedica seduttiva), Gore bambino accanto all’adorato nonno senatore, poi insieme a Jack Kennedy e Tennessee Williams a Palm Beach nel ’55… Nello studio-biblioteca tappezzato di libri in pelle (dove ci sposteremo al tramonto) sono le copertine dedicategli dal “Times”, incorniciate d’oro alle pareti, a dichiarare di nuovo questa consuetudine “istituzionale”: in una di esse c’è scritto, quasi una dichiarazione di poetica, “When I hear the word love, I reach for my revolver”.
Questa conversazione della nostra serie “Arte e Democrazia” incrocia l’uscita da Fazi de Le menzogne dell’impero e altre tristi verità, dove Vidal torna all’attacco dell’Amministrazione americana nei giorni dell’affaire Iraq.

Andreotti Signor Vidal, come è recepita in America questa sua fase molto dura, molto impegnata sui fatti internazionali?
Vidal Sono l’ultimo a cui dovreste chiedere. So che in America ogni volta che parlo in pubblico vengono a sentirmi due o tremila persone dovunque mi trovi, nonostante gli sforzi della stampa per far passare tutto sotto silenzio. L’annuncio non viene dato, ma la gente lo sa lo stesso e continua a venire.
De Melis C’è la sordina.
Vidal C’è un pianissimo. Chomsky sortisce lo stesso effetto. Più o meno un anno fa all’università di Harvard avevano affisso varie centinaia di volantini con l’annuncio che quella sera avrei parlato. Una ventina di minuti, ed erano già stati tutti strappati. Amano farsi chiamare “neo-conservatori”. Ma il pubblico è accorso numeroso. Il giorno dopo ho telefonato a Chomsky e siamo andati a pranzo insieme. “Ti è successo anche a te?” gli ho domandato. “Dappertutto” ha risposto. Strappano i manifesti, e la gente viene sempre in massa. Ma come fanno a sapere che ci andiamo? mi sono chiesto. La stampa non lo dice, televisione e radio idem, i volantini spariscono, e la gente viene lo stesso. “C’è un movimento clandestino che noi non conosciamo” ha detto Chomsky. E questa è la risposta alla sua domanda su cosa si pensi di me in generale. Bisogna scavare sotto l’ufficialità per capire come la vedono.
Andreotti È lo stesso per Susan Sontag?
Vidal La Sontag non è altrettanto attiva. I giovani non la considerano una voce interessante. In genere parla di teatro, di arte. Di politica non tanto.
De Melis Dunque qual è lo stato del consenso a Bush?
Vidal Migliaia di persone hanno manifestato nelle ultime settimane e penso che qualcosa succederà. Sono in partenza per gli Stati Uniti: quando ritorno vi saprò dire.
De Melis Nelle Menzogne dell’impero, lei parla di una comunità internazionale ormai esautorata da quella che chiama la junta Bush-Cheney…
Vidal La junta del petrolio e del gas.
De Melis …che avrebbe tolto statuto a quelle regole di governance delle relazioni internazionali, che prima bene o male passavano attraverso le Nazioni Unite.
Vidal A questo mondo il potere è tutto. È triste, ma è così. In questo momento c’è la forza immane della junta. Non ci è consentito di usare la parola “complotto”, perché chi parla di complotto viene considerato un pazzo, uno che crede ai dischi volanti. Quando in televisione qualcuno comincia a dire la verità su un argomento qualunque, per esempio sul fatto che Al Gore è stato eletto presidente ma la Corte Suprema non gli ha permesso di entrare in carica, c’è sempre qualcun altro pronto a intervenire: “Ma non starà mica dicendo che è stato un complotto?”. Io perciò uso un’altra parola: “coincidenza”. È una coincidenza, non un complotto. L’ex presidente, Bush senior, rappresenta il Carlyle Group: petrolio. L’attuale presidente, George W. Bush, rappresenta la Harken Oil, che ha legami con l’Arabia Saudita. La bellissima Condoleezza Rice è stata per dieci anni una dirigente della Chevron: petrolio. Il ministro della Difesa Rumsfeld, Occidental Oil: petrolio. Questi sono i grandi rappresentanti del governo. È un complotto? No. È una coincidenza. In italiano, quando parlo di queste faccende il mio stile diventa grave, di piombo. In inglese, al contrario, sono considerato molto divertente, spiritoso, e ogni battuta colpisce nel segno perché non è pesante, perché è scritta con leggerezza. Perciò, quando nella resa dell’italiano devo scegliere tra varie alternative, mi chiedo sempre: che effetto farà? Avrà un tono da complotto? da fine del mondo? Perché questo non è il mio stile. In realtà, il mio stile non si lascia tradurre. Dunque, se mi si chiede: “Ma lei crede davvero che le cose stiano così e cosà?”, io rispondo: sì e no. Mi destreggio – bene – con l’ambiguità, che è l’unica maniera per dire la verità ed essere creduti. La traduzione dei miei libri non ha grandi pecche, ma è troppo letterale, troppo piatta.
De Melis Cioè brutte traduzioni.
Vidal No, le traduzioni credo siano buone, ma non restituiscono le sfumature.
Andreotti L’ambiguità, insomma, è una strategia di comunicazione?
Vidal È la strategia del mio sangue: ce l’ho nel Dna, nel codice genetico.
Andreotti A proposito dei codice: c’è differenza tra il suo lavoro sulle fonti giornalistiche – per i libri d’opinione militante – e quello sulle fonti storiche, quando mette in romanzo Lincoln e Roosevelt?
Vidal Non c’è differenza.
Andreotti Neanche negli effetti di stile?
Vidal Un critico, credo fosse Mario Praz… [Vidal si tappa la bocca. Risate]
De Melis Praz è venuto qui?
Vidal No, qui no, ma io negli anni sessanta ho vissuto a Roma, a Largo Argentina, a Palazzo Rigo, e andavo a via Giulia, alla Casa della vita… Per tornare al discorso del metodo e delle fonti, a differenza di tanti giornalisti io sono molto accurato, o almeno ci provo. Non presento mai un’opinione come un fatto. Ho riletto da poco una cosa che Praz scrisse di me una ventina d’anni fa: “Vidal scrive dei morti come se fossero vivi e dei vivi come se fossero morti”. Mi sembra un commento molto bello.
Andreotti Era amico di Praz?
Vidal Sì, per tanti anni.

Continua

 

IL GIORNALE DI VICENZA
– 23/10/2002

 

Gore Vidal contro gli Usa

 

Dieci episodi oscuri della storia americana del ’900

A un anno dall’11 settembre e dall’ uscita del volume “La fine della libertà”, arriva in libreria venerdì una nuova raccolta di saggi di Gore Vidal, intitolata “Le menzogne dell’impero”, che si apre con l’inedito intervento “Perch é la j unta Cheney-Bush vuole la guerra con l’Iraq” in cui attacca l’odierna amministrazione Usa. Pubblicato d a Fazi il volume di saggi attraversa 50 anni di storia politica americana, raccontando “la storia di un impero che mette insieme i propri pezzi trasformando prima i suoi alleati e poi i suoi ex nemici in Stati clienti”. Il libro contiene il saggio “Perch é ? la j unta petrolifera Cheney-Bush vuole la guerra all’Iraq”, che da il titolo all’opera, in esclusiva mondiale per la Fazi Editore.
Prendendo spunto dal libro “Guerra alla libertà” di Nafeez M. Ahmed, Vidal sostiene che l’amministrazione Usa conoscesse in anticipo ciò che stava per accadere l’11 settembre e che abbia intenzionalmente deciso di non intervenire, per favorire una successiva guerra al terrorismo che avrebbe consolidato le sue posizioni di dominio politico ed economico.
Gli altri dieci saggi, selezionati da “The Last Empire: Essays 1992-2000”, toccano altrettanti episodi oscuri della storia americana del Novecento: dalla decisione di sganciare l’atomica su Hiroshima, all’affermarsi della dottrina Truman, che gettò le basi per l’avvio della guerra fredda; dalle ambigue risoluzioni di Yalta e di Potsdam che decisero il futuro di una Germania devastata dalla guerra, al sanguinario intervento americano in Guatemala; dall’espandersi delle basi militari Usa in tutta l’Eurasia, all’eccessiva autonomia delle agenzie di intelligence.
Ma Vidal va oltre la semplice analisi della storia, avanzando anche proposte concrete, come un maggiore controllo dei rapporti tra elite economiche e politiche fino all’idea radicale di devolution, da applicare all’attuale struttura statuale americana: fare degli obsoleti Stati Uniti una comunit à federale, sul modello dell’Unione europea.
Gore Vidal è uno dei grandi narratori e saggisti americani “così grande che non possiamo fare a meno di lui. È un patrimonio dello Stato”, come ha scritto il “New York Times Book Review”, cui ha fatto eco il “Washington Post Book World” affermando: “Gore Vidal è il principale saggista della nostra epoca, e noi dovremmo ringraziare gli dei di averlo qui tra noi a stimolare le nostre coscienze”.
Con Fazi Editore Vidal ha già pubblicato il libro di saggi “La fine della libertà” (2001), e i romanzi “La statua di sale” (1998), “Palinsesto” (2000), “L’et à dell’oro” (2001) e “Impero” (2002).

 

 

L’ARENA DI VERONA
– 23/10/2002

 

Gore Vidal contro gli Usa

 

 

Dieci episodi oscuri della storia americana del ’900

A un anno dall’11 settembre e dall’ uscita del volume “La fine della libertà”, arriva in libreria venerdì una nuova raccolta di saggi di Gore Vidal, intitolata “Le menzogne dell’impero”, che si apre con l’inedito intervento “Perch é la j unta Cheney-Bush vuole la guerra con l’Iraq” in cui attacca l’odierna amministrazione Usa. Pubblicato d a Fazi il volume di saggi attraversa 50 anni di storia politica americana, raccontando “la storia di un impero che mette insieme i propri pezzi trasformando prima i suoi alleati e poi i suoi ex nemici in Stati clienti”. Il libro contiene il saggio “Perch é ? la j unta petrolifera Cheney-Bush vuole la guerra all’Iraq”, che da il titolo all’opera, in esclusiva mondiale per la Fazi Editore.
Prendendo spunto dal libro “Guerra alla libertà” di Nafeez M. Ahmed, Vidal sostiene che l’amministrazione Usa conoscesse in anticipo ciò che stava per accadere l’11 settembre e che abbia intenzionalmente deciso di non intervenire, per favorire una successiva guerra al terrorismo che avrebbe consolidato le sue posizioni di dominio politico ed economico.
Gli altri dieci saggi, selezionati da “The Last Empire: Essays 1992-2000”, toccano altrettanti episodi oscuri della storia americana del Novecento: dalla decisione di sganciare l’atomica su Hiroshima, all’affermarsi della dottrina Truman, che gettò le basi per l’avvio della guerra fredda; dalle ambigue risoluzioni di Yalta e di Potsdam che decisero il futuro di una Germania devastata dalla guerra, al sanguinario intervento americano in Guatemala; dall’espandersi delle basi militari Usa in tutta l’Eurasia, all’eccessiva autonomia delle agenzie di intelligence.
Ma Vidal va oltre la semplice analisi della storia, avanzando anche proposte concrete, come un maggiore controllo dei rapporti tra elite economiche e politiche fino all’idea radicale di devolution, da applicare all’attuale struttura statuale americana: fare degli obsoleti Stati Uniti una comunit à federale, sul modello dell’Unione europea.
Gore Vidal è uno dei grandi narratori e saggisti americani “così grande che non possiamo fare a meno di lui. È un patrimonio dello Stato”, come ha scritto il “New York Times Book Review”, cui ha fatto eco il “Washington Post Book World” affermando: “Gore Vidal è il principale saggista della nostra epoca, e noi dovremmo ringraziare gli dei di averlo qui tra noi a stimolare le nostre coscienze”.
Con Fazi Editore Vidal ha già pubblicato il libro di saggi “La fine della libertà” (2001), e i romanzi “La statua di sale” (1998), “Palinsesto” (2000), “L’et à dell’oro” (2001) e “Impero” (2002).

 

Le menzogne dell’impero e altre tristi verità - RASSEGNA STAMPA

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