Tim Winton

Quell’occhio, il cielo

COD: da4fb5c6e93e Categoria: Tag:

Collana:
Numero collana:
4
Pagine:
192
Codice ISBN:
9788881120413
Prezzo cartaceo:
€ 12,00
Data pubblicazione:
01-04-1997

Traduzione di Stefano Tummolini

Quell’occhio, il cielo è il capolavoro del maggiore scrittore australiano contemporaneo. L’opera di Tim Winton è la descrizione lirica di un mondo incantato e dolente, un ranch australiano nel quale il piccolo protagonista Ort è cresciuto tra le sacre visioni di una natura rigogliosa che tutto assorbe nel suo amorevole abbraccio e una tragedia che sconvolge il destino della sua famiglia. Figlio di una generazione hippy, Ort deve fronteggiare assieme alla madre le conseguenze di un incidente che ha ridotto il padre a una vita semivegetale spezzando l’incanto magico dell’infanzia e della natura. Ma una religiosità primitiva legata a quel senso magico del mondo naturale dove tutto è meraviglia e stupore, tutto ugualmente possibile e reversibile, fa nascere un’attesa crescente per un miracoloso esito dei loro destini legato al desiderio più che alla fede.

«Esperienza struggente e delicatissima […], questo libro resta la sua narrazione più coinvolgente».
Renzo S. Crivelli, «Il Sole 24 ore»

«Una storia densa di realismo […] una forte carica emotiva e spirituale».
Carlo Carlino, «Il Diario»

QUELL’OCCHIO, IL CIELO – RECENSIONI

 

Carmen Concilio, L’INDICE DEI LIBRI DEL MESE
– 11/01/1997

 

DALL’AUSTRALIA

 

Accade a volte, quando meno ce lo si aspetta, quando tutto sembra andare bene, che la vita deragli: un incidente d’auto e niente è più come prima. Il piccolo Ort guarda con i suoi occhi di bambino di dieci anni il padre che si allontana come sempre con il furgone e lo vede tornare su una sedia a rotelle, incosciente, con un buco nella gola per respirare. Al bambino non resta che osservare il mondo, questa vita deragliata, gli adulti. E l’isotopia dello sguardo, testimoniata dal titolo, permea tutto il romanzo fin dall’inizio, perché agli occhi di Ort “il cielo è dello stesso colore degli occhi di Mamma e di Papà”. Quando lo guardi per un po’, come sto facendo io adesso, infilandoci il naso dentro, sembra proprio identico a un occhio. Un grande occhio blu. Che guarda in basso”. Del padre immobilizzato il figlio nota immediatamente che gli occhi non guardano in nessuna direzione in particolare, sono come persi nel vuoto, mentre l’angelo – farabutto che viene in aiuto alla famiglia ha gli occhi che non guardano mai nella medesima direzione. Quest’uomo, venuto dalla boscaglia ad accudire l’invalido, ha infatti un occhio di vetro e blatera di cose incomprensibili in preda a un attacco di epilessia. Lo sguardo non sempre è accompagnato dalla visione, vale a dire dalla comprensione. Ort spia gli adulti nelle altre camere della casa e a sua volta si sente guardato dal cielo che più oltre, nel corso del romanzo, si confonde con un Dio che tutto vede; salvo poi sentire di avere gli occhi di tutto il mondo puntati addosso, quando un’onda gli porta via i calzoncini e lui emerge, nudo, sulla spiaggia. Ort guarda il mondo senza capire fino in fondo, però Ort vede cose che gli altri non vedono, miraggi che i suoi occhi bambini non vogliono abbandonare per una realtà in cui crescere è difficile. Senza voler a tutti i costi complicare ciò che complicato non è, basti dire che il romanzo di Tim Winton è ironico e scanzonato e rende la tragedia sopportabile proprio perché vista dagli occhi di un bambino che sbaglia i congiuntivi e descrive la realtà a modo suo. Ma se si pensa alle teorie sullo sguardo e sulla visione elaborate per esempio da Lacan, o da Derrida, in particolare nel saggio “Il dono della morte”, in cui l’autore elabora il concetto dello sguardo divino e della responsabilità individuale, indagando il rapporto padre – figlio nelle figure di Abramo e Isacco, il romanzo di Tim Winton assume aspetti inquietanti. Ort era stato in coma da piccolo e poi si era svegliato, era rinato; invece il padre dal coma non è completamente uscito, i suoi occhi vedono ma non comprendono, il suo sguardo è vuoto; mentre l’uomo con un occhio solo non è dissimile dall’ “Uomo della sabbia” di E. T. A. Hoffmann, l’uomo che viene a chiudere gli occhi ai bambini con manciate di sabbia, personificazione del freudiano concetto dell’ “Unheimlich”, il perturbante. Tim Winton ha scritto tre libri per bambini e in questo romanzo esplora con ironico divertimento il mondo delle angosce infantili. Nato nel 1960, a Perth, Winton ha riscosso negli ultimi anni l’interesse della critica internazionale proponendosi con i suoi romanzi e una raccolta di racconti quale voce di spicco tra i giovani scrittori australiani. Da questo libro era anche stato tratto un film nel 1995.

 

Fulvio Panzeri, AVVENIRE
– 09/03/1997

Carte di viaggio. Diventano un caso letterario i nuovi racconti come Tim Winton, Brenda Walker e John Birmingham

L’Australia non è più periferia

 

Si è parlato sempre poco della letteratura australiana, creando così in Italia l’immagine di un continente isolato, un po’ sfuocato non solo come localizzazione, ma anche come prospettiva sociale. Eppure qualcosa sta cambiando e anche grazie al cinema la letteratura australiana arriva in traduzione italiana. Sull0onda del successo di “Once were Warriors”, il film di Lee Tamahori, di alcuni anni fa, Frassinelli aveva tradotto il romanzo di Alan Duff, che ne sta alla base, “Erano guerrieri”, ritratto del contrasto tra l’antica fierezza maori e la violenza di nuovi ghetti suburbani. Lanciata dal film di Jane Campion, “Un angelo alla mia tavola”, è anche Janet Frame, ora la più famosa scrittrice neozelandese vivente, di cui in italiano sono stati tradotti i tre volumi dell’ “Autobiografia” che stanno alla base del film. Guanda manderà in libreria alla fine di settembre anche l’ultimo libro della Frame, “Giardini profumati per i ciechi”, in cui si ritrovano i temi ricorrenti nell’opera della scrittrice: l’ossessione e la fuga dalla realtà, una solitudine estrema e la presenza della malattia come senso di colpa. C’è però un interesse che va al di là del rapporto con la pellicola, tanto che, anche se non in maniera sistematica, vengono riscoperte anche alcune figure cardine di questa letteratura. Ricordiamo essenzialmente due nomi, che si affiancano a una scrittrice già diventata un “piccolo classico”, Katherine Mansfield. Da una parte c’è Christina Stead, considerata la maggior scrittrice australiana di questo secolo, anche se appartiene alla schiera dei grandi espatriati e gira tra l’Europa e l’America per 41 anni, prima di ritornare in patria. Saul Bellow è un suo grande estimatore e in Italia è stata tradotta da Garzanti (da riscoprire il suo capolavoro “Sabba familiare) negli anni Ottanta e da Teoria con “La casa vicino al ruscello”. Dall’altra parte c’è il mondo selvaggio e rude di Frank Sargeson, di cui Tranchida manderà in libreria in autunno una nuova edizione dei racconti, intitolata “Uomini”, un viaggio ancestrale nell’aspro paesaggio neozelandese, tra fattorie, spiagge e foreste, ma anche un viaggio più interiore e simbolico che attraversa e svela le età dell’uomo e le sue contraddizioni. L’apertura più recente è però quella che avviene per le nuove generazioni di scrittori. E abbiamo tre libri che ci raccontano l’Australia di oggi, non molto distante dall’Europa e dalla cognizione di una barbarie suburbana, con una maggior consapevolezza di un passato (e di una serie di valori connessi) con cui fare i conti. Un caso letterario è senz’altro quello di Tom Winton, trentasettenne, autore di sei romanzi iscritti dopo una lunga serie di racconti e volumi per bambini. Con un background che lo porta a un percorso insolito: da un’educazione da “figlio dei fiori” alla conversione al cristianesimo. Attraverso la contemplazione dei grandi spazi solitari, supera quella cultura antireligiosa che caratterizza in larga parte gli australiani. Del resto per lui la spiritualità “è tutto quello che resta quando la ragione non ha più niente da dire. E’ il rispetto del mistero che ci circonda”. E’ anche la cifra del romanzo che lo ha fatto conoscere in Italia, “Quell’occhio, il cielo” (pagine 184, lire 24.000), pubblicato da Fazi e accompagnato dal film che ne ha tratto John Ruane (sugli schermi italiani a settembre). Il romanzo racconta il tempo della conversione, la scoperta di qualcosa che è in grado di dare un senso a “questo maledetto mondo”, proprio attraverso lo sguardo di un bambino, che conquista il cielo, con la dimensione simbolica dell’ “occhio”. Che ha una funzione duplice: quella della possibilità di essere guardati, di entrare nella cifra di quel miracolo che è la vita. Ort e la sua famiglia ( madre e padre sono due ex hippy) vivono ai confini della foresta e questo dodicenne ascolta e guarda la natura delle cose, quasi per coglierne la vera essenza: il respiro della terra, la presenza e i movimenti del cielo. Irrompe il dramma e la scoperta del dolore e della morte: un incidente stradale si porta via il padre. Così il puro piacere contemplativo del ragazzo si trasforma nella scoperta di un senso più profondo: la visione restituisce un valore allo stupore e alla meraviglia, quello del sacro, grazie a un personaggio, forse un po’ troppo contraddittorio, quello di Henry, vagabondo e predicatore in cerca di salvezza. Scrittore, certamente da seguire, Winton uscirà, con altri due romanzi, sempre tradotto da Fazi. Spiega anche questo boom dell’Australia come un superamento del “complesso dell’essere provinciali”. Gli scrittori australiani quindi iniziano a essere tradotti, a farsi conoscere nel mondo: “Prima sono stati molto incerti: cercavano la loro identità e l’hanno trovata di recente, affiancandosi alle voci che vengono dalla “periferia” del mondo”. Nel frattempo arrivano in Italia altri due romanzi sull’Australia di oggi: lo sguardo femminile della quarantenne Brenda Walzer, di cui Tranchida traduce “Crush” (pagine 158, lire 25.000), una “detective-story”, ambientata nella desolazione dell’Australia occidentale e in particolare a Perth, la città-capitale australiana, col suo presente di contraddizioni e di degrado, in contrapposizione con un passato di certezze fondanti, tanto che Anna, la protagonista femminile dice, quasi per trovare una ragione al suo disorientamento: “Vengo da un tempo e da un luogo in cui la cura universale era considerata essere l’intimità dell’amicizia”. E’ un romanzo composito, raccontato a due voci, quella della donna che ricerca il padre e una storia da scrivere e quella di Tom, un avvocato che rifiuta ogni velleità professionale per essere più vicino all’odore delle strade, i quali si incontrano nel segno delle stesse lacerazioni affettive. Più effervescente, ironico, sbandato, già oggetto di culto tra i giovani, è invece “E morì con un felafel in mano” (Teoria, pagine 202, lire 24.000) di John Birmingham, trentatreenne, che racconta il “postmoderno quotidiano” dell’Australia degli anni Novanta, quasi per spiegare che il “sogno australiano” non esiste e qualsiasi cambiamento in realtà è vano: “arrivare o andarsene non faceva nessuna differenza, ti scivolava tutto addosso come un vento malsano, lasciandoti nudo, disidratato e scottato”. E’ un’Australia in stile “giunge” con tanto uso del parlato, con i soliti ingredienti (freaks, droga, sesso e musica a volontà) molto simile a certa nuova narrativa di oggi, consigliato vivamente da Silvia Balestra perché “rischia di diventare un piccolo ma prezioso tassello da anni Novanta, un divertente grido di dolore di trentenni spaesati”.

 

Masolino D’Amico, TUTTOLIBRI
– 07/03/1997

 

Pionieri d’Australia

Keneally e Winton

Due romanzi dall’Australia. “La città in riva al fiume” di Thomas Keneally (n.1935, famoso come autore della “Lista di Schindler) rievoca il clima di una cittadina provinciale inizio secolo, quando i notabili sono divisi fra timidi fermenti di indipendenza e i richiami dei padroni inglesi, che dal remoto Sud Africa chiedono onerosi contributi di denaro e di uomini per la guerra contro i Boeri. Seguiamo la vita del piccolo centro attraverso le peripezie di un onesto e sentimentale bottegaio irlandese e cattolico come sua moglie, attualmente in attesa del terzo figlio nonché dell’arrivo di una sorella dalla verde isola. Per generosità questo bottegaio si mette nei pasticci, prima quando capita sul luogo di una disgrazia e si accolla i figlioletti della vittima, la maggiore dei quali affida a un istituto di suore impegnandosi a pagarne la retta; poi quando non riesce a far mistero delle sue idee liberali, e diventa oggetto di persecuzione da parte dei potenti del luogo; infine quando per visitare la consorte reduce da un viaggio, sfida la quarantena imposta in seguito allo scoppio di un’epidemia, e rischia seriamente di contrarre la peste. I vari episodi di socialità campagnola, di cui fanno parte una epica partita di cricket, gite sul fiume, riunioni politiche, ecc., gli incontri con personaggi di contorno anche interessanti – la bella e malinconica signora Malcolm, l’intraprendente piccolo erborista pakistano con la passione dei cavalli da corsa – hanno come sottofondo una nota continua di disagio data dalla sottile inquietudine che accompagna il nostro Tim fin da quando, all’inizio, un poliziotto mostra a lui, come ad altri, la testa conservata sotto spirito di una bella ragazza morta in seguito a pratiche per abortire. Nessun altro sembra appassionarsi al caso, ma come assumendosi segretamente il peso della coscienza di tutti, Tim tenta caparbiamente di scoprire l’identità della sconosciuta, il ricordo del cui viso lo perseguita e per la pace della cui anima fa anche celebrare delle messe: ci riuscirà, ma alla fine di un percorso disseminato di episodi talvolta persino tragici, per quanto sempre metabolizzati grazie alla fondamentale energia che pur nella ignoranza e nella ristrettezza di idee generale alimenta sia tutta la giovane collettività, sia lui che ne incarna i fermenti migliori. Anche in “Quell’occhio, il cielo” di Tim Winton (n.1960) ci troviamo lontano dalle metropoli, ma non stavolta in un paesino teso al proprio sviluppo, bensì ai margini di una foresta incolta, in un luogo scelto proprio perché arretrato e quasi selvaggio dai protagonisti, che sono degli ex hippy e figli dei fiori desiderosi di tornare alla natura: è come se un paio di generazioni siano bastate per far fallire l’ottimistica proposta di civilizzazione del romanzo precedente. Qui però l’accento è sul privato e non sul sociale, e la storia riguarda le conseguenze dell’incidente che proprio all’inizio rende inabile e anzi riduce quasi allo stato di vegetale il capo di una piccola famiglia, ex studente che aveva imparato a fare il meccanico. Dopo averlo assistito in ospedale, la moglie se lo prende in casa e tira avanti alla meglio, aiutata dalla figlia adolescente e dal figlio piccolo, che racconta gli avvenimenti nella propria ottica e al tempo presente. Un giorno al terzetto si unisce uno strano tipo di spostato, che si offre per aiutare nella gestione dell’inferno: anche lui, viene fuori, ha un passato di cittadino riciclatosi attraverso varie esperienze randagie, culminate in una crisi mistica che gli impone, ora, la missione di evangelizzare la famigliola; ma l’ostentata sicurezza del nuovo arrivato nasconde laceranti conflitti e torbidità… L’insolita situazione coinvolge il lettore grazie alla plausibilità con cui è reso l’universo del piccolo narratore, anch’egli malgrado tutto stirpe di pionieri, come risulta dalla sua capacità di assorbire la serie di colpi che gli piovono addosso dall’esterno e quindi in definitiva di sopravvivere alla dura e inopinata iniziazione.

 

Carlo Carlino, IL DIARIO DELLA SETTIMANA
– 05/04/1997

 

Bambini e ragazzi / 3. Il candore di Ort e i misteri del mondo dal buco della serratura.

 

“Basta una cosa soltanto per renderti infelice”. È questo il convincimento del dodicenne Ort Flack, protagonista o voce narrante del romanzo di Tim Winton, trentasettenne di Perth, autore prolifico, considerato uno dei massimi talenti della narrativa australiana contemporanea. Pubblicato nel 1987, “Quell’occhio, il cielo” è il quarto romanzo di Winton – il primo ad essere tradotto in italiano – e narra una storia densa di realismo, un universo ricco di quotidianità restituito con un’abile scrittura che lo fa rivivere con una forte carica emotiva e spirituale. La famiglia di Morton Flack, “Ort perché è più corto”, vive avvolta in un isolamento fisico e mentale in una casa di legno ai margini della foresta, vicino a Perth. Insieme a Ort, suo padre Sam, la madre Alice, una nonna che una volta suonava il pianoforte e adesso, paralizzata, trascorrere le sue giornate con una mela in mano, e la sorella Tegwyn, una sedicenne ribelle perché si vede prigioniera in quella foresta costretta “a badare ai bambini ai matti ai paralitici”. L’adolescente Ort cerca di avventurarsi nei misteri della vita sbirciando dalle fessure e dalle serrature di casa sua ed evadere da quel microcosmo sul quale aleggia una pace inquietante. Ma una tragedia si abbatte sulla famiglia sconvolgendo ogni equilibrio: il padre rimane vittima di un incidente stradale ed entra in coma. Quando Sam torna a casa dall’ospedale, ridotto a “vegetale”, e la sua famiglia comincia a “non poterne più”, a non poter contare sull’aiuto di nessuno, l’universo di Ort viene stravolto. Inizia ad avere delle visioni. Sente strani suoni, vede una luce misteriosa che irradia dal corpo del padre e una “nuvoletta, piccola e grassottella come una pecora tutta lanosa, che brilla di luce” avvolge la casa. In più, c’è l’arrivo inatteso di Henry Warburton, un evangelista vagabondo, figlio di un vescovo, con molti problemi, anche se di natura sessuale, che incarica di fare i bagno al padre di Ort, di curare il giardino, di provvedere a ogni faccenda pratica, di animare la vita della casa durante le monotone serate dopo la cena. Un personaggio misterioso e irritante, pieno di saggezza ma anche ripugnante, che seduce Tegwyn e si dice inviato da Dio e converte quella “stirpe di pagani”, battezzando Alice e Ort, il quale ritiene di aver trovato nelle parole del nuovo venuto una risposta ai suoi interrogativi, una lettura delle sue visioni e di essere riuscito a dare un senso “a questo maledetto mondo”. Tutto sembra avviato a soluzione e la scoperta della fede e del sacrificio da parte dei Flack fanno intravedere un futuro d’amore e un miracolo. Un romanzo che esalta i buoni sentimenti, i valori della fede e della speranza contrapposti alle effimere gioie terrene, che trova la propria forza soprattutto nella figura di Ort, nel suo “dono della sintesi e della concisione”, nelle sue battute devastanti, nel suo candore che spesso rende un po’ forzati gli altri personaggi. “Quando Mamma ride, gli si muove tutto il sedere. Papà dice sempre che sembra una manifestazione di piazza, che per me non vuole dir niente, ma per lui invece moltissimo, immagino”. L’immagine del mondo posseduta da Ort è il riflesso della sua innocenza, che disegna poeticamente un universo fatto di cose comuni, i confini delle sue scoperte. “Un giorno tutto il mondo morirà e moriremo anche noi”, afferma. E l’avventura di Ort inizia proprio alla ricerca dei misteri del mondo e dei suoi perché.

 

Sonia Minen, MESSAGGERO VENETO
– 05/04/1997

 

L’Australia di Winton tra fede e innocenza

 

“Il giorno è bianco e caldo e scorre lentissimo come se il sole nuotasse a rana lungo il cielo blu invece che a stile libero. Ce ne stiamo tutti all’ombra della casa ad ascoltare gli alberi che si muovono col vento da est. La terra dondola per il caldo. La casa scricchiola. I semi esplodono, l’erba si secca e sviene. I serpenti hanno tutti il fiatone”. Dopo l’Irlanda di Dermot Bolger, l’editore Fazi ci fa conoscere l’Australia di Tim Winton, con un romanzo, “Quell’occhio, il cielo (traduzione di Stefano Tummolini), che risale al 1986. Winton, nato nel ’60, ha già pubblicato molto, qualcosa come sei romanzi, più libri e racconti per bambini. Proprio un bambino che sta crescendo, Morton Flack, Ort per gli amici, è il piccolo eroe del romanzo: su di lui, costantemente spalancato come un grande occhio, il blu del cielo australiano. I suoi occhi di bambino ingenuo e perspicace, invece, vigilano sulla famiglia; la sua voce racconta in presa diretta tutto ciò che gli accade di vedere, sentire sulla famiglia; la sua voce racconta in presa diretta tutto ciò che gli accade di vedere, sentire, capire o fraintendere, cosicché il lettore può riguardare il mondo attraverso organi di percezione perduti, indossare guanti e occhiali per un virtuale ritorno a meraviglie e smarrimenti infantili di fronte ai piccoli e grandi misteri della vita: i rumori della foresta, la morte di un’iguana, la sofferenza e l’inquietudine degli esseri umani. Ort vive lontano dalla città, in una casa accanto a una foresta di alberi ammalati e morenti, con mamma, papà, sorella e nonna. Un brutto incidente d’auto che riduce il padre a un vegetale sconvolge la vita della famiglia e apre la porta all’intrusione di un vagabondo, angelo custode o folle ciarlatano, che, arrivato, come dice, per occuparsi del malato (è effettivamente quello che fa, sollevando non poco Ort e la mamma), se ne va con qualcos’altro. Nessuno sembra preoccuparsene, però, perché nella bianca, lattiginosa, abbagliante luce di rivelazione in cui Ort si risveglia alla fine del libro qualcosa, il miracolo tanto atteso, sembra finalmente essere accaduto. È stato Henry Warburton, il vagabondo evangelista, a battezzare i Flack e a insegnare a Ort a riconoscere l’occhio di Dio nel grande occhio blu che lo osserva dall’alto, ma il miracolo della guarigione sembra tutto opera di Ort: soltanto lui vede, poggiata sul tetto di casa, la nuvola luminosa da cui si sprigiona la nebbia taumaturgica che entra a rendere finalmente vivi gli occhi del padre. Al lettore decidere se la fede di Henry sia o non sia autentica, se sia debole o soltanto troppo combattuta, o se egli non creda veramente alle cose che dice, come pensa Ort; e se lo scioglimento finale non sciolga un po’ troppe cose, anche per un intervento divino. L’innocenza e la fede di un bambino rendono possibile anche l’improbabile, a patto che non si vedano troppo, dietro di lui, la volontà e il disegno di un autore.

 

Paolo Perazzolo, LETTURE
– 01/01/1998

 

Il bambino che spia in casa di notte

 

Ort Flack è un bambino di 12 anni che vive in una casa di legno ai margini della foresta. Insieme a lui ci sono il papà, la mamma, la sorella Tegwin e una nonna che una volta suonava il pianoforte e che ora, paralizzata, trascorre le sue giornate a letto. A causa di un’insonnia insolita per la sua età, Ort ogni notte si sveglia e si mette a origliare e a spiare gli altri dalle fessure delle porte. È così che scopre, ad esempio, che quel luogo isolato è stato scelto dai genitori, ex ‘hippy’ e figli dei fiori, proprio perché arretrato e immerso nella natura. La famiglia è felice, unita dalle piccole gioie quotidiane. Ma, come un fulmine a ciel sereno, su di essa si abbatte la tragedia: il padre, unica fonte di guadagno, rimane vittima di un incidente. Sopravvive, ma ridotto allo stato vegetativo per sempre. La situazione sta per precipitare, quando all’improvviso arriva uno strano personaggio, che, facendosi accettare un po’ alla volta, aiuta la famiglia a sbarcare il lunario e la evangelizza. I momenti bui sembrano superati e la vita potrebbe ricominciare come prima.ma l’ambiguo predicatore, un giorno, abbandona i Flack, portando con sé la sedicenne Tegwin. ’Quell’occhio, il cielo’ è il quarto romanzo del trentasettenne Winton, considerato uno dei massimi talenti della narrativa australiana contemporanea. Pubblicato nell’87, è il primo a essere tradotto in italiano e ha ispirato un film diretto da John Ruane. L’intera vicenda si dipana attraverso le descrizioni del piccolo Ort, cosicché il lettore vede il mondo e interpreta i fatti con gli occhi e la sensibilità di un bambino. Sul piano formale, l’operazione si realizza attraverso una scrittura diretta, paratattica, fatta di frasi brevi e priva di qualsiasi uso del congiuntivo. Il risultato è una narrazione viva, colorata, dotata di una forte carica emotiva. Il romanzo, inoltre, è tutto pervaso da un’intensa spiritualità, simboleggiata nelle visioni del piccolo Ort, capace di vedere cose che gli altri non vedono e di dare un senso anche alle esperienze più drammatiche.

 

LIBERTÀ
– 05/04/1997

 

Dio e il dolore “visti” da un bambino

 

Nato a Perth, in Australia, nel 1960, Tim Winton si è imposto a poco più di vent’anni nel panorama della letteratura mondiale vincendo tre premi con i suoi primi tre romanzi:il Vogel Award nel 1981 con “An open swimmer”; il Miles Franklin nel 1984 con “Shallows” e il West Australian Council Week Award nel 1985 con “Scission”. La sua quarta fatica, “That eye, the sky” (“Quell’occhio, il cielo”), esaurita prima ancora di uscire in libreria, nel 1986, e subito ristampata, viene proposta in Italia da Fazi nella traduzione di Stefano Tummolini. Lirico e insieme ironico, il romanzo è narrato da Ort Flack, un bambino di dodici anni, che vive con la sua famiglia di ex hippy in una casa di legno nella campagna australiana. Come tutti i ragazzi, Ort è curioso, ama osservare ed ascoltare il mondo circostante attraverso le crepe, le fessure delle pareti, i buchi delle serrature, anche se non sa spiegarsi tutto pienamente. A prendere coscienza della realtà lo costringe un grave incidente d’auto accaduto a suo padre che, dopo un lungo coma, continua a vivere ridotto a un “vegetale”. Attraverso i dolore, infatti, Ort impara a cogliere il miracolo che si nasconde dietro le cose anche grazie ad un enigmatico barbone, ex poeta, Henry Warburton, che lo aiuta a dare un senso a “tutto questo maledetto mondo”. Dialogando con Henry, Ort elabora una sua versione della storia di Cristo: “Lui sa fare cose assurde tipo camminare sull’acqua e poi farla diventare vino, far guarire la gente che sta male e far resuscitare i morti. La gente non gli voleva bene perché lui era troppo buono con tutti. Poi l’hanno ammazzato attaccandolo a un albero. L’hanno messo in un buco ma dopo lui si è alzato ed è andato su in cielo con Dio”. Il sentimento religioso pervade tutto il racconto: dalla “nuvola di luce” che Ort vede sulla casa di notte al cielo che sembra fargli l’occhiolino. “E’ strano quando parli con Dio – spiega Henry al bambino – Lui è come il cielo… In realtà lui è il cielo, mi sa…”. Del resto, affermava Winton presentando il libro, “il cristianesimo” è la parte fondamentale e predominante della mia vita, è ciò che sono… La fede è solo una questione di tornare indietro all’istinto e alle emozioni. La gente può farlo quando riscopre parte di sé che ha dimenticato”. Per ritrovare la fede, talvolta è necessaria un’esperienza dolorosa, come accade ad Ort e come accadde allo stesso scrittore: il padre poliziotto di pattuglia in motocicletta, rimase gravemente ferito in uno scontro con un’auto e si riprese quasi per miracolo. Quel miracolo che nel romanzo diventa visione, attesa, speranza che “qualcosa qui in questo mondo sta per cambiare”.

 

Giuseppe Saltini, IL MESSAGGERO
– 05/04/1997

 

Tim Winton, il candore può vincere le avversità

 

L’idea di vedere il mondo con gli occhi vispi e attoniti, mai smarriti di un ragazzo fiducioso nel romanzo europeo non è nuova: basti pensare a Stevenson, a ‘L’isola del tesorò. Con mirabile profitto di nuovo la sfrutta Tim Winton, australiano sotto i quarant’anni raccontandoci la storia di una famiglia installatasi ai margini di una macchia in una zona spopo9lata dove i villaggi più prossimi sono raggiungibili in auto. Ort è un bambino sognante che narra gli avvenimenti in prima persona. Il suo sguardo sereno spesso incantato non s’incrina neppure quando la sventura precipita sulla sua casa. Reso inabile da un pauroso incidente il padre vi è ricondotto in ambulanza quasi allo “stato di vegetale”. La famiglia quindi assiste un corpo inerte senza memoria né reazioni coscienti, ma non sprofonda nell’angoscia. Allorché accoglie uno strano tipo, una specie di vagabondo dai propositi evangelizzanti la situazione diviene più tollerabile. E a poco a poco il tenace candore di Ort nella cui ottica ogni avversità è transitoria, finisce col trasfigurare una realtà crudele comunque illuminata da un raggio trascendente.

 

Monica Capuani, L’ESPRESSO
– 05/04/1997

 

Noi, yankee anni Venti

 

Una storia così può succedere sol in quel “mondo alla rovescia” che é ancora, agli occhi degli europei, l’Australia. Solo lì può accadere che un ragazzino, invece di crescere sotto i dettami della religione cattolica e trovare la libertà in una filosofia hippy della vita, proceda esattamente all’incontrario: nato da “figli dei fiori” che lo allevano strimpellando sulla chitarra le note di “Blowing in the wind”, finisce per farsi convertire da un predicatore vagabondo a un approssimativo Bignami della dottrina cristiana. A raccontare questa storia é Tim Winton, scrittore di Perth famosissimo in patria, dove ha collezionato prestigiosi premi letterari che ora cominciano a fioccare anche dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti. “Quell’occhio, il cielo” (Fazi Editore), uscito in patria nell’86, é il quarto dei suoi sei romanzi, scritti dopo una fortunata carriera di narratore per bambini. E il primo pubblicato da noi, mentre sono in traduzione, sempre da Fazi, “The riders” e “In the winter dark”, due libri destinati a diventare presto pellicole cinematografiche. Trentasette anni, sempre abbronzato, i capelli lunghi sulle spalle e corti sulla fronte, Winton ha un’espressine timida, un’aria da adolescente un po’ spaesato. Adora il mare, trascorre intere giornate con i suoi tre figli sulla tavola da surf ma parla con passione anche dei silenzi e degli spazi confinati della sua terra. Nelle sue pagine c’è una spiritualità di sapore ancestrale, un senso del magico percepito con allegro stupore. “Noi, australiani veniamo da una cultura antireligiosa”, dice. “Eravamo la feccia dell’Inghilterra vittoriana, i galeotti spediti a colonizzare in Nuovo Mondo, e siamo cresciuti con l’odio per le uniformi, la restenza all’autorità, il disprezzo per ogni forma di grarchia e di potere, anche spirituale. Poi, però, la lotta contro la natura selvaggia per il dominio di questa terra, la contemplazione dei suoi spazi solitari a perdita d’occhio, l’incontro con la saggezza secolare degli aborigeni, che non riconoscono la proprietà e insegnano che l’uomo appartiene alla terra, ci hanno rivelato un universo di forze sconvolgenti e di fenomeni inspiegabili”. Nel romanzo di Winton il cielo, testimone sempre vigile, simile a un enorme occhio azzurro spalancato sulle azioni del mondo, e la foresta, serbatoio di vita e di mistero, hanno piena dignità di personaggi. Proprio da quella foresta emerge Henry Warburton, religioso autodidatta che ricorda i predicatori del sud degli Stati Uniti tratteggiati cinquant’anni fa da Flannery O’Connor. Non é un caso, per Winton, che le sue storie ricordino l’America tra le due guerre: “L’Australia sta vivendo un periodo di fiducia elettrizzante, come l’America degli anni Venti”, spiega. “C’é vitalità e freschezza, senso di possibilità, di apertura. Finalmente ci siamo liberati dal complesso del cugino povero e lo specchio di questo grande cambiamento é l’interesse dell’ Europa, che oggi ci guarda con curiosità pura e non più con spirito imperialistico: come se una sana forma di claustrofobia la costringesse a cercare un orizzonte più vasto”.

 

Maurizio Bartocci, IL MANIFESTO
– 05/04/1997

 

Un operaio della scrittura

 

Corporatura robusta, capelli a metà schiena che raccoglie in una treccia, viso giovanile, sorriso schietto e l’abbronzatura di chi l’inverno vero non lo conosce. Australiano di Perth, 37 anni, moglie e tre figli, ha già scritto tredici libri, pubblicati con successo in Australia, Inghilterra e negli Usa, Tim Winton é in questi giorni a Roma, per il suo atteso esordio italiano con il romanzo “Quell’occhio, il cielo” edito da Fazi e tradotto da Stefano Tummolini. “E’ un romanzo sull’amore e sulla famiglia. Ma non nel senso tradizionale dei termini, che io non condivido affato. Per quanto mi riguarda, la famiglia é il luogo in cui c’é l’amore, e non importa in che modo le persone decidono di vivere insieme; sono comunque una famiglia”. Definito una “rarità” dai critici di mezzo mondo, Winton é una persona cordiale e affabile che é rimasto con i piedi per terra, e guarda il proprio successo con il dovuto distacco. “La mia é una famiglia che appartiene alla classe operaia, anche se ormai io non posso più dire di farne parte. Uno scrittore non ha sindacato, non fa scioperi. Sarebbe ridicolo dire che io appartengo ancora a quella classe. Ma le persone che frequento, i miei amici, loro sì. Non sono intellettuali; sono infermiere, assistenti sociali, pescatori. E’ la gente che conosco e che non mi fa dimenticare da dove vengo”. Laureato in creative writing al Western Australia Institute of Technology, Winton ha già le idee chiare sin da bambino, e decide di diventare scrittore all’età di dieci anni, un giorno in cui il padre, poliziotto, decide di portarlo con sé al lavoro. “Quel giorno ho avuto una doppia epifania. Per prima cosa mi sono reso conto che non volevo fare il lavoro di mio padre – tutte quelle persone in uniforme mi sembravano infelici e intrappolate in una realtà che non apparteneva a loro – e poi che non volevo alcun lavoro. Ed é proprio per paura dell’idea di un impegno che ho deciso di cominciare a scrivere. Non é che non consideri la scrittura un lavoro. Certo, organizzo la mia giornata, scrivo con regolarità per un certo numero di ore e così via, ma di fronte a chi scava buche nell’asfalto o scarica camion per dieci ore al giorno, non me la snto proprio di affermare che il mio é un lavoro vero”. Tim Winton é cresciuto sulla costa e ha trascorso metà della sua vita sulla spiaggia. Gli spazi illimitati di terra, gli oceani, la gente autentica e un pizzico di cultura aborigena creano quell’inequivocabile australianità che distingue tutta la sua opera. “E’ difficile stabilire quali siano i tratti distintivi che caratterizzano la letteratura australiana. In primo luogo credo che sia il venire a patti con un continente strano. Di fatto, siamo isolani, ma la nostra é un’isola talmente grande che ce lo dimentichiamo. C’è una sorta di qualità inattesa e insospettabile che deriva da tutto questo. La nostra é una letteratura segnata più dalla cultura del paesaggio che dall’architettura e dai monumenti”. L’opera di Winton si fonda sui rapporti tra uomini e tra uomo, Dio e natura, e sulla lingua delle persone comuni; un vernacolo originale, spesso crudo e volutamente volgare, carico di energia che ha la potenza di sovvertire un ordine delle cose, basato sui canoni culturali e linguistici della severa governante Inghilterra. “Probabilmente esiste ancora una sorta di imperialismo culturale britannico. Anche se il vero impero editoriale oggi é New York, gli inglesi ancora sentono uno straripante senso di superiorità che oppone resistenza a tutto ciò che viene prodotto in Australia, letteratura in particolare. Gli scrittori australiani che arrivano al resto del mondo, di fatto, sono quelli che passano il filtro dagli inglesi, perché di più si avvicinano a loro per stile, lingua e sensibilità. Gli altri, quelli che nelle loro opere tirano fuori tutta l’essenza australiana, non emergono mai fuori casa”. “Io ho dovuto cercare una maniera australiana in cui scrivere. Certo, scrivo in inglese, ma non é quello britannico. Per questa ragione sono stati importanti per me gli americani. Quando ho letto per la prima volta Faulkner, Twain , Flannery O’Connor, e poi Robert Penn Warren, ho capito che loro hanno preso sul serio la propria lingua. In Australia per molti anni gli scrittori hanno avuto la propria voce e poi quella della literary fiction. Questo in parte succede ancora oggi. Non c’é niente di male se qualcuno lo fa, ma se lo fa un’intera cultura, allora diventa schizofrenia. Faulkner in particolare prese la sua lingua così sul serio da riuscire a farne poesia; per fare questo ci vuole molto coraggio, soprattutto quando la tua é una lingua così particolare a sé. E qulsiasi cosa abbia dato coraggio a me per cominciare a scrivere nella mia propria lingua, metà della lezione l’ho appresa proprio da Faulkner e Flannery O’Connor”. L’emergere di una lingua e di una cultura specificatamente australiane fa parte di un progetto più ampio di affermazione di identità culturale legato anche all’isituzione di una Repubblica e al tagliare i legami con l’ex impero britanico che ha sempre considerato l’Australia come una parentela di quarto grado composta da criminali e scarti della società inglese. Winton é un repubblicano convinto. “E’ una progressione naturale e meravigliosa. non riesco proprio a capire perché dobbiamo continuare ad avere rapporti con l’Inghilterra. Naturalmente capisco che abbiamo origini inglesi, che noi eravamo la pattumiera dell’Inghilterra vittoriana. Eravamo i rifiuti. Tradizionalmente abbiamo combattuto le guerre inglesi, ma loro non hanno mai fatto nulla per difenderci o salvaguardare i nostri interessi. Non so davvero spiegare ai miei figli perché la regina appare sui nostri soldi. La Repubblica é un punto di arrivo di un processo naturale che non ha bisogno di rivoluzioni”.

 

Renzo S. Crivelli, IL SOLE-24 ORE
– 08/03/1997

 

Se la natura è un gigante che dorme

 

Nella Letteratura australiana è il paesaggio a giocare un ruolo essenziale, proprio laddove il difficile rapporto tra lo scrittore e la natura violenta ed aggresiva che lo circonda è mitigato dalla sua stupenda invadenza che stordisce i sensi e che fa pensare all’intrico inarrestabile d’una foresta pluviale. In taluni casi è l’outback, il territorio desertico interno che giunge quasi a ridosso dei grandi e moderni insediamenti urbani, a testimoniare la fatidica alternanza di presente (freneticamente legato allo sviluppo metropolitano concentrato nei grattacieli di Sidney, Brisbane o Perth) e di passato (il mito che alberga nelle aborigene “vie dei canti”, rievocate così soavemente da Bruce Chatwin). E lì incuneati come avamposti del tempo, stanno i villaggi periferici, luoghi dove sono sufficienti qualche casa ai margini della foresta o del deserto e una sperduta stazione di servizio con l’annessa officina a dare l’impressione d’un antico insediamento. Perché l’Australia, appena pochi chilometri fuori dalle periferie cittadine, la natura si tende come un gigante addormentato e il suo improvviso risveglio trascina con sé terremoti e innondazioni, calamità e sofferenze. Questo scenario, che include un villaggio sperduto ad est di Perth nell’Australia occidentale, è al centro dell’esperienza struggente e delicatissima d’un adolescente di nome Morton Flack. A narrarla, con un linguaggio crudo che talvolta sa stemperarsi nella dolcezza poetica degli aromi dell’infanzia, è Tim Winton in “Quell’occhio, il cielo”, un romanzo del 1986 da poco tradotto da Stefano Tummolini per Fazi Editore. Nato a Perth nel 1960, Winton è autore di altre cinque pregevoli opere (basti citare “Shallows”, del 1984, o “The Riders”, del 1994), ma “Quell’occhio, il cielo” resta la sua narrazione più coinvolgente. Il protagonista del romanzo, il giovane Morton detto “Ort”, acquista coscienza di sé dopo una grave disgrazia famigliare, un incidente automobilistico che inchioda il padre su una sedia a rotelle in uno stato di confusione mentale irreversibile. E scopre, in un contesto in cui soltanto gli affetti sembrano opporsi all’aridità del futuro, un proprio osservatorio del mondo – fatto di buchi della serraturaviolati, di fessure scrutate in silenzio, di appostamenti dinnanzi ai misteri della natura – da cui è possibile dare un significato alle cose (“Fat pensa che è sbagliato. Controllare la gente, dico. Ma io penso soprattutto che è il modo migliore per essere sicuro di come sta la tua famiglia. E poi non siamo sempre controllati, giorno e notte? E’ l’occhio del cielo che ci guarda”. Da quell’apertura metaforica, uno squarcio sul Nulla esaltato dall’intensità percettiva di un ragazzo nella fase più delicata dello sviluppo psichico e sessuale, è forse possibile scorgere anche l’occhio di Dio. Un Dio un pò assente, sicuramente ignorato, che sembra indifferente alla durezza della vita quotidiana della famiglia Flack, composta, oltre che da “Ort”, dal padre ormai celebroleso, dalla madre Alice finita nella desolazione di quella casa sperduta dopo il fallimento del grande sogno rivoluzionario degli anni 60, dalla vecchia nonna pazza, dalla sorella Tegwyn, smaliziata e delusa, ben consapevole che per lei non ci sarà mai un futuro lavorativo normale nella grande città raggiungibile solo dopo ore di guida sulla loro vecchia auto. Una durezza acuita da una terra ingrata, dove si nasce e si muore nei luoghi più impensati (“Mamma è nata in un camion che attraversava la piana del Nullarbor… Papà è nato sulla scrivania di una stazione di polizia. Mi hanno detto che gli hanno tagliato la corda e poi l’hanno buttata nel cestino delle cartacce”); dove “l’aria è bollente come una cena appena uscita dal forno e devi masticarla un bel pò prima di riuscire a mandarla giù”. L’educazione sentimentale di “Ort” abbraccia, pertanto, tutti i “luoghi” mentali e fisici dell’emarginazione e della distanza (distanza dall’invogliante Perth, da una cultura anglosassone che giunge confusa ed estranea, dal sogno rivoluzionario della madre morto con gli hippies, da una scuola “multiclassi” troppo lontana, da una concezione religiosa settaria e selettiva). E per il ragazzo, alla fine, sarà la scoperta dell’Amore universale – una sorta di “luce” che dalla sua famiglia si proietta nel Cielo e dal Cielo scende come messaggio di salvezza e di riscatto – a dare un senso alla vita. Tim Winton, “Quell’occhio, il cielo”, Fazi Editore, Roma 1997, pagg. 184, L. 24.000

 

Valeria Parboni, L’UNITÀ
– 06/04/1997

Lo scrittore di “Quell’occhio, il cielo”

“Noi australiani finalmente liberi di essere provinciali” Parla Tim Winton

 

Solo a ricordargli che é giovane, si arrabbia: “E’ da dieci anni, da quando é uscito il mio primo libro che ci si meravoglia per questo…Ma il tempo non sarà passato invano, no?”. Però é un fatto: Tim Winton ha “solo” 37 anni e per uno scrittore l’età, a volte, é un elemento importante. Oltretutto Winton, autore precoce, ha già dato tanto: raccolte di racconti per bambini, più un congruo numero di romanzi. Sia come sia, questo aitante australiano, approdato a Roma per la prima volta per presentare la sua nuova opera sembra proprio un fenomeno. Una rivelazione. Con ben sei “titoli” sfornati uno dopo l’altro e un successo strepitoso raccolto in patria, è una di quelle persone a cui tutto é successo molto in frettta: tre premi per i primi tre libri pubblicati, un’ottima accoglienza per i successivi, un film diretto da John Ruanne (sui nostri schermi apparirà in settembre) tratto dall’ultimo romanzo, “Quell’occhio, il cielo” scritto due anni fa e in uscita nelle nostre librerie proprio in questi giorni per l’editore Fazi. La storia è presto detta: i Flack sono una singolare famiglia che vive, nella terra dei canguri, ai margini della foresta, vicino a Perth. Padre, madre, una figlia e un figlio, più una nonna che una volta suonava il pianoforte e che ora ha sempre bisogno di tenere una mela con sé. Su questo piccolo clan che vive unito da un amorevole afflato, s’abbatte una serie di sciagure. Il via lo dà un incidente stradale in cui resta gravemente ferito il padre, Sam. L’avvenimento scompagnia l’armonia del microcosmo. La nonna, che é molto anziana é costretta a vivere a letto; alla sorella adolescente si indurisce l’anima perché si vede confinata in un posto selvaggio costretta a badare a “bambini, matti e paralitici”; come se non bastasse, tutto intorno la malattia uccide gli alberi. Il piccolo Morton, detto Ort, dodici anni e voce narrante, é costretto bruscamente ad aprire gli occhi sula realtà. Il suo é un travaglio doloroso. Quando Sam torna dall’ospedale ridotto ad un vegetale il suo universo viene completamente travolto. Comincia ad avere visioni. Poi in questa atmosfera straluanta compare un vagabondo, un certo Henry Warburton: un epilettico con molti problemi sessuali, figura misteriosa ed irritante, saggia e corrotta allo stesso tempo. Sarà lui lo strumento di conversione attraverso il quale Ort riuscirà a dare un senso a “questo maledetto mondo” e che lo avvicinerà, alla fine della vicenda, a un vero, autentico miracolo. Si può rinascere dopo una tragedia? Sì, ci fa capire Winton, a patto che si accettino i contrasti grotteschi e i confronti che irrimediabilente la vita ci pone davanti. La forza per farlo é l’amore illuminato dalla luce della spiritualità. “Nello scrivere “Quell’occhio, il cielo”, a chi si é ispirato?” “A me da piccolo. Mio padre faceva il poliziotto ed un giorno ebbe un incidente. Rimase in coma per parecchio tempo. So bene cosa prova un bambino messo di fronte all’interrogativo: vivrà o non vivrà?” “Ma lei nel libro ci parla di un uomo molto diverso, Sam non ha nulla a che fare con un agente di polizia.” “E’ vero. Ma vede, mio padre non era un “piedipiatti”, sbruffone e sciovinista. Al contrario. Era una persona mite e gentile. Lo ricordo ancora mentre si lavava e stirava da solo la divisa. In più aveva un profondo senso della giustizia. Un senso innato di ciò che si deve e non si deve fare, che ha trasmesso a me e ai miei fratelli”. “Cosa é per lei la spiritualità?” “Tutto quello che resta quando la ragione non ha più niente da dire. E’ il rispetto del mistero che ci circonda.” “Percxhé é tanto interessato all’infanzia?” “I bambini sono “visionari”, nel senso che hanno la capacità di meravigliarsi ed aprirsi al mondo molto più di noi. Ma nello stesso tempo sono molto, molto realisti. Hanno la straordinaria capacità di vedere le cose esattamente come sono: non a caso nelle favole tocca a loro e non a noi grandi scoprire che il re é nudo”. “Ha nostalgia di quella condizione?” “Non lo so. So solo che ho avuto un’infanzia felice. Non sono mai stato da solo, giocavo molto con uno dei miei fratelli che aveva dodici anni meno di me. Forse per questo ho voluto tre figli. Può darsi che sia un ritorno al passato!” “Questo suo romanzo é pieno di battute divertenti. Lei crede all’ironia?” “Sì, ma con moderazione. Ad essere troppo ironici si corre il rischio di diventare artificiali, di soffocare i rapporti con chi é vicino. Insomma, non vorrei mettermi una maschera sul viso ed andare avanti sempre così. Oltretutto finirebbe per apparire noioso.” “La cultura australiana sta invadendo l’Europa. Musica, film, libri, un boom. Come se lo spiega?” “Non sarà che siete voi che state invecchiando? Battute a parte, da noi sono sempre esistiti autori interessanti, solo che nessuno si é mai preso la briga di ascoltarli. D’altra parte bisogna dire che il disinteresse é dipeso anche da noi. Gli scrittori australiani sono sempre stati molto incerti: cercavano la loro identità e l’hanno trovata di recente, affiancandosi alle voci che vengono dalla “periferia” del mondo. E finalmente si sono liberati dal complesso di eessre provinciali.”

 

Gianni Buosi, IL GIORNO
– 05/11/1997

Splendida figura di fanciullo nel romanzo dell’australiano Tim Winton

Lo sguardo di un bimbo sulla vita

Il candore e l’innocenza di Ort, il dramma familiare, la “svolta”

“Papà dice sempre che mamma ha un sedere che sembra una manifestazione di piazza, che per me non vuol dire niente, ma per lui invece moltissimo, immagino”. “Vedo papà e mamma senza vestiti mentre lo fanno…si fanno male soltanto qualche volta e per poco tempo”. “Se l’occhio del cielo ci guarda, peché uno si dovrebbe preoccupare se suo figlio e suo fratello lo guardano? Non c’é proprio nulla di male”. Così il dodicenne Ort vede la realtà, attraverso i buchi delle serrature e le fessure delle pareti sconnesse della sua casa colonica. E proprio questo suo modo di vedere il mondo col candore e l’innocenza che solo quell’età concede é l’attrattiva di “Quell’occhio, il cielo”, romanzo di Tim Winton, giovane (37 anni) e già prolifico (é la sua sesta opera) autore australiano. Ort é figlio di due ex hippy approdati a una vita di campagna, modesta ma felice. Papà fa il meccanico dall’odioso vicino e gli tiene in piedi la decrepita e poco frequentata officina: la sua allegria, il suo equilibrio, la sua capacità di intrattenere ne fanno il cuore della famiglia. Mamma, donna innamorata che vive della sua luce riflessa, é tanto insicura delle cose della vita quanto decisa e coraggiosa quando si tratta di difendere i suoi cari. Nonna è una pura presenza fisica, la sua testa se n’é andata coi dispiaceri e con l’età, e sembra riattivarsi solo al rumore di una porta che si apre e alla persona, sconosciuta, che potrebbe varcarla: “Sei tu, Lil Pickering?”. Tegwyn, la figlia 16enne, é ribelle come già i ‘figli dei fiori”, ma ha dentro di sé un’aggressività a loro sconosciuta, contesta i loro valori e anela a ciò che loro disprezzavano. Il suo sguardo sul mondo é duro e crudo, lo urla sempre più spesso alla madre nel suo linguaggio sboccato: smettere di studiare, andarsene di lì, trovare un lavoro in città. Ma é Ort il vero protagonista, il ragazzino curioso e vitale, che apprezza la foresta e il fiume, ha per amico un pollo e non teme i serpenti. Ort guarda con fiducia a un mondo di cui sa cogliere e apprezzare le voci e i segnali ai più nascosti e insignificanti: il fruscio delle foglie, il “respiro” della terra, il parlare delle nuvole e del vento. Ma il dramma scuote la famiglia: é l’incidente stradale che spegne il bel volto di papà, gli toglie il sorriso e la parola, lo riconsegna alla fine strappato alla morte ma simile a un vegetale. Irrompe un personaggio nuovo: Henry, vagabondo, predicatore evangelista alla ricerca di occasioni di redenzione dopo una vita sbandata e infelice. E Ort comincia ad avere le visioni: il cielo che fa l’occhiolino, la campana che suona nella foresta, la nuvola di luce che staziona sopra la casa. Henry si prende cura di Sam, ingaggia una dura battaglia con Tegwyn, converte madre e figlio al Cristianesimo. Il suo avvento sembra avviare il dramma familiare a una soluzione dal sapore miracoloso. Henry, le sue contraddittorie intenzioni (sedurrà Tegwyn) gli elementi fanaticamente e confusamente religiosi della sua personalità sono il lato zoppicante del romanzo. Il sacro poteva entrare nella storia direttamente, attraverso la sensibilità di Ort e rendere meno problematico il suo intersecarsi con l’impianto fortemente realista. “Quell’occhio, il cielo” resta comunque un’opera interessante, grazie allo sguuardo di Ort che, attraverso il dramma, approda a una visione della vita più matura, senza perdere il “fanciullino” che aveva in sé.

Quell’occhio, il cielo - RASSEGNA STAMPA

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