«A Natale siamo quasi in quattro» di Francesco Zani

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Per il nostro calendario dell’Avvento oggi vi proponiamo un racconto di Francesco Zani, un prequel natalizio di Parlami, il suo emozionante romanzo d’esordio che pubblicheremo a febbraio.

 

23 dicembre 1989, la mattina

La mattina dopo la mamma si era svegliata ancora prima del solito e ci aveva aspettato con la colazione pronta in tavola. Quando ero sceso, il babbo stava uscendo dal bagno e lei non aveva atteso neanche che ci sedessimo.

«So di che colore ha gli occhi», ci aveva detto.
«Chi?», avevo risposto io.
«Rimane solo un piccolissimo dubbio».
«Ma chi te le dice ste robe?», era intervenuto il babbo dopo aver bevuto il caffè in due sorsi.

La mamma non aveva avuto il coraggio di rispondere fino in fondo. La sera prima era andata da Duilio, un sensitivo di Bagnacavallo che oltre a parlare con i morti riusciva anche a rivelare le caratteristiche dei bambini che stavano per nascere. Aveva guidato fin lì ma si era fatta accompagnare dalla Ginetta che era rimasta in macchina mentre lei entrava in quella casa travestita da santuario. Per un solitario con le carte romagnole e le manipolazioni sulla pancia e sulla schiena la tariffa era di 300mila lire.

«Le faccio 250 visto che lei arriva da Cesenatico e che mi ha portato la crostata», le aveva detto al momento del pagamento.

Il trattamento era durato un quarto d’ora in tutto compresi i saluti iniziali. All’inizio Duilio aveva sparso le carte sul tavolino coperto da una tovaglia rossa, le aveva toccate tenendo lo sguardo rivolto verso l’alto e poi ne aveva pescata una.

«Re di Spade, occhi marroni, forse verdi» aveva annunciato a voce altissima.
«Sta bene?», gli aveva domandato la mamma.

A quel punto lui si era messo in piedi e senza nemmeno farla alzare le aveva appoggiato le mani sul pancione e sulla schiena.

«È sano, piedi piatti, non avrà bisogno degli occhiali», aveva sentenziato.

La mamma odiava i bambini con gli occhiali, quelli di plastica colorata con il cordino per non farli cadere, ed era così felice che non aveva neanche richiesto notizie sui tuoi capelli, l’altro motivo per cui era andata lì. Durante il viaggio di ritorno  lei e la Ginetta non avevano parlato di te ma in ogni discorso risuonava l’attesa, e tutti gli argomenti venivano fuori in maniera superficiale, solo accennata, perché i loro pensieri erano rivolti alla tua nascita. La Ginetta era felice di poter diventare nonna anche se non lo sarebbe diventata per davvero, la mamma invece pensava alla scelta del nome di cui avremmo discusso tutti insieme.

Il babbo aveva passato tutta la mattina al Bar dei Marinai. Non aveva giocato a Maraffone e si era bevuto stancamente due camparini sfogliando distratto L’Unità mentre commentava in maniera critica le mosse degli altri. Conosceva tutte le persone presenti ma non erano amici, tra loro rimaneva sempre una distanza precisa che impediva al rapporto di diventare una familiarità. Erano gli amici del bar, ed esistevano solo lì dentro.

Elenco dei presenti di cui conosceva il soprannome, e la relativa motivazione:

Prost e l’altro Prost, i fratelli meccanici che provavano le macchine in riparazione andando a 130 di notte sulla via Cesenatico; Caniggia, il macellaio di Via Fiorentini con il parrucchino biondo e il pizzetto nero corvino; Pavarotti, il tappezziere che in una settimana diceva nove o dieci parole in tutto; Carlo Cassetta o solo Cassetta, il falegname che commercializzava di contrabbando i VHS taroccati dei film che erano appena usciti al cinema; Glaucoma, che si chiamava solo Glauco ma ci vedeva poco e non era ben voluto da nessuno dato  che si diceva – sempre a mezza bocca – che prestasse i soldi a strozzo; Coppa Campioni, il figlio della lattaia che aveva le più grandi orecchie a sventola della Romagna.

Elenco dei presenti di cui conosceva il soprannome senza avere idea della motivazione: Coniglio, Zanéta, Dritto e Rovescio, Erbaccia, Tettoia, Cesso, Paolo (che si chiamava Carlo, in realtà).

Il babbo si domandava se anche tu avresti avuto un soprannome, chi lo avrebbe inventato e perché, se fosse stato per sottolineare qualcosa di positivo o di negativo oppure se nessuno ne avrebbe mai conosciuto il motivo come accadeva spesso a Cesenatico.

Io ero rimasto a casa da solo tutto il giorno ad annoiarmi. Avevo guardato la televisione, poi l’avevo spenta, poi accesa di nuovo fino ad addormentarmi un po’ e risvegliarmi ancora. Non avevo voglia di fare nulla, fuori era freddo e i troppi compiti delle vacanze li avrei come sempre iniziati passato il primo dell’anno. In quella serata potevo solo sognare il regalo di Natale che speravo ancora mi arrivasse nonostante il babbo mi avesse detto che costava troppo. L’unico di noi che aveva l’Amiga 500 era Alessandro Benedetti e andare a casa sua ogni volta era come andare alla sala giochi Il Dollaro sul viale Carducci. Giocavamo sempre allo stesso gioco di calcio e non smettevamo per tre o quattro ore di fila con i suoi che erano a lavorare al bar e non potevano controllarci. Volevo anche io quel videogioco che costava più di un milione. Non aspettavo altro e sognavo di giocarci tutta la mattina di Natale prendendo la squadra che doveva assomigliare al Milan di Gullit. La grafica del tempo non era in grado di riprodurre decentemente delle treccine ma io me le immaginavo e mi bastava questo. Pensavo che poi quando saresti cresciuto avremmo giocato insieme. Dov’eri? La pancia della mamma era veramente un luogo? Mi chiedevo spesso dove abitassero le cose prima di succedere, dove si nascondesse la pioggia prima di cadere, se in qualche modo, cercando bene, esistesse un posto in cui trovare il destino prima che ci piombasse addosso. Aspettavamo te anche se non sapevamo bene cosa aspettarci.

Prima di andare tutti a dormire sognando la vigilia di Natale, la mamma mi aveva chiamato nel lettone mentre il babbo era ancora in poltrona a vedere la televisione.

«Stenditi qui che lo senti», mi aveva detto.

Avevo messo l’orecchio sulla sua pancia, mentre lei si picchiettava con due dita. Ti avevo sentito, un piccolo calcetto che mi diceva che esistevi già.

«Eccolo, mi basta sentirlo una volta al giorno e sono a posto», mi aveva sussurrato la mamma accarezzandosi la pancia.

«A Natale siamo quasi in quattro», le avevo risposto io.

 

Francesco Zani

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