Cassandra al matrimonio –
Prima parte

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Pubblichiamo la prima parte della postfazione di Deborah Eisenberg  apparsa sulla prima edizione di Cassandra al matrimonio nel 1962.

 

Gli Edwards sono raffinati, affascinanti, bohémien e divertenti. Amano trascorrere il tempo insieme. E, dato che non molti estranei sono invitati al loro ranch, è un privilegio esaltante anche per il lettore passare del tempo con loro, nel corso del weekend in cui la ventiquattrenne Cassandra torna da San Francisco per partecipare al matrimonio della sua identica – e diversissima – gemella Judith, o possibilmente impedirlo.
Incontriamo, oltre alle gemelle, la loro nonna, il padre, e infine il fidanzato di Judith, il perfetto Jack Finch. Anche l’eccezionale psicoterapista di Cassandra, Vera Mercer, fa una breve, tardiva apparizione. La madre delle gemelle, Jane, è un ricordo intenso, ma è morta ancor prima che la storia cominci, così come il più istruttivo animale domestico delle gemelle, il gatto Melassa. Vengono citate poche altre figure, seppur di sfuggita, che sembrano del tutto trascurabili, sbiadite e lontane. Cassandra al matrimonio non è lungo, ma questo è lo stesso un numero esiguo di personaggi, e la loro compagnia, nell’ermetica e rarefatta atmosfera del ranch, è intensa.

Il romanzo è stato pubblicato nel 1962, in un periodo in cui la cultura del consumismo dominante stava suscitando critiche, implicite o meno, nell’arte e nella riflessione sociale americane. E molta della narrativa americana del periodo che ritrae personaggi dell’alta borghesia privilegiata (come quelli di Cheever, ad esempio, o di Yates e Salinger) sottolinea il degrado di un vuoto materialismo. Il materialismo degli Edwards, invece, non è affatto vuoto – traggono un notevole piacere dal loro fresco succo d’arancia, dal panorama dalla loro casa, dalla loro piscina, dal loro armadio e dai loro vestiti, dai loro pianoforti. È un aristocratico idillio americano. Queste persone non sono raffigurate come avidi automi, ma come disinvolti intenditori arcadici. La nonna delle ragazze, Rowena Abbott, può essere l’oggetto dell’affettuosa ironia della sua famiglia, per via del suo imperturbabile decoro e della sua chiara mentalità borghese, ma dall’altro lato, in gran parte si deve a lei il ben accetto comfort materiale del loro mondo. E in ogni caso, il relativo lusso dell’ambiente degli Edwards è semplicemente di contorno; quello che amano di più è il piacere sinuoso di un intelletto curioso.
La vita quotidiana della famiglia è una vita intellettuale. Il padre delle gemelle, bello, brillante, saturo di Hennessy, è un ex professore di filosofia pensionatosi prima del tempo perché «non sopportava di dover rispettare degli orari», come ci dice Cassandra:

Ad Atene non facevano così. Nell’età dell’oro, un insegnante poteva starsene a fare il bagno tutto il tempo che voleva, e quando usciva, c’era sempre un giovinetto pronto ad avvolgerlo in un asciugamano, e una volta che si era asciugato e aveva indossato la sua tunica trovava sempre ad attenderlo un folto gruppo di studenti, desiderosi di interrogarlo e farsi interrogare, per poi concludere che una vita senza domande non è degna di essere vissuta. Anche noi eravamo cresciute in quel modo; papà era Socrate e noi gli studenti seduti ai suoi piedi.

Cassandra narra la prima e l’ultima delle tre sezioni del libro, e lo fa in grande stile. È conscia del suo potere di affascinare e impressionare, ed è sempre consapevole del suo pubblico. Il libro risplende di allusioni alla filosofia e alla mitologia classiche, come alla poesia e alla musica, alcune esplicite, altre solo accennate. Ma sotto una superficie spontanea e chiaramente associativa, è scritto nel modo più efficace possibile: privo di dettagli trascurabili e informazioni casuali. E quando arriviamo alla presentazione da parte di Cassandra del professor Edwards ne sappiano già abbastanza delle sue angosce riguardo la sorella e se stessa da pensare immediatamente al Simposio di Platone e al suo Fedro, in cui Socrate discute – con i giovani ai suoi piedi – delle natura dell’amore.
In entrambi i dialoghi Socrate impiega l’eterno concetto d’amore come riconoscimento dell’altra metà dell’anima perduta e dell’insopportabile brama di ricongiungervisi. Di certo, non abbiamo affatto bisogno di aver letto (e tantomeno compreso) questi scritti affascinanti e astrusi per apprezzare in pieno il romanzo della Baker, ma forse anche la più vaga e fallace nozione di essi ci renderà più attenti ai complessi livelli di Cassandra al matrimonio. E tutte le intricate battute della Baker brillano ancor più nella luce dei dialoghi: «Ciò che Dio ha separato», dice Judith al fidanzato, «nulla può rimettere insieme».

Il calore dell’ambientazione familiare rende l’isolamento di Cassandra decisamente evidente, anche se già dall’inizio del libro è ovvio che vi sia qualcosa di terribilmente sbagliato. Veniamo subito immersi in una fretta anticipatoria, quasi incosciente mentre Cassandra si prepara per andare al ranch, e alla seconda pagina del romanzo si legge:

Il ponte era tornato bello. Era illuminato dal sole, e attraente quasi quanto un’insegna al neon che indica l’uscita in un auditorium senz’aria e pieno di gente, dove stai seguendo una lezione che – come mi capita spesso – non ha niente di interessante. Ma non tutte le lezioni possono essere interessanti, ovviamente; puoi startene lì seduta ad ascoltarle per quello che valgono e ignorare l’insegna che indica l’uscita anche se è lì che brilla.

 
Poco più di una pagina dopo veniamo a sapere che Cassandra sta scrivendo la tesi sulle romanziere francesi della sua età, anche se ciò che vorrebbe fare in realtà è scrivere lei stessa i romanzi. Ma non può, ci dice, semplicemente, non può, perché la madre era una scrittrice, e anche abile, come emerge. E chi, come sottolinea Cassandra, vuole mettersi in competizione con un genitore morto, a prescindere dal risultato finale?
Cassandra è sorprendentemente brava nell’argomentare a seconda delle sue necessità e a far passare la sua fredda logica – almeno con se stessa – come osservazione disinteressata e accessoria. Così il suo assoggettamento all’inibizione qui risulta particolarmente toccante. Considerando la scrittura come una competizione con la madre, Cassandra è finita in un vicolo cieco. Lei e la madre hanno ciascuna un vantaggio scomodo l’una sull’altra – una semplicemente perché è viva, una semplicemente perché è morta. Finché Cassandra sente, come sembra, che diventare una scrittrice di successo rappresenterebbe un tradimento verso la madre, permette alla paura nei confronti della scrittura stessa di bloccarla. Capiamo che si trova in un momento critico. Il matrimonio o, come Cassandra lo vede, il ritirarsi della sorella nella vita matrimoniale, la sua fuga da ciò che è con ogni probabilità il lavoro più appropriato e gratificante per lei, lo spaventoso conforto di pensieri suicidi… ovviamente tutto è legato. Come fa ad andare avanti senza poter scrivere o vivere con la sorella?
In realtà, secondo Cassandra, Judith ha già sbagliato in passato, lasciando l’appartamento di Berkeley per vivere a New York. Nell’appartamento è rimasto il loro splendido pianoforte, un Boesendorfer, e anche se lo strumento è stato comprato assieme e ne condividono la proprietà, è solo Judith a saper suonare. Ma il piano, che Judith avrebbe dovuto suonare, viene dimenticato, come fosse un muto rimpiazzo. E questo è caratteristico dei paradossi che la Baker fa riverberare nel libro e nella parte centrale narrata da Judith.
La voce di Judith è la più chiara, oltre che la più tenue; il suo fascino ricorda quello della sorella, ma Judith è molto più diretta e meno aggressiva. La teatralità di Cassandra ci tiene costantemente e sempre più col fiato sospeso: quale inganno potremmo esserci persi? Cosa si cela dietro le quinte? Cassandra si presenta come un personaggio vero e proprio, a noi e a se stessa, ma il fatto è che Judith, la gemella che, a quanto pare, ha un pensiero e una personalità più completi, può essere ascoltata solo la notte del suo matrimonio, mentre Cassandra è priva di sensi in seguito al tentato suicidio.

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