Elizabeth Jane Howard: «Non ho mai pensato che Kingsley Amis fosse migliore di me come scrittore»

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Siamo orgogliosi di presentare al pubblico italiano, con la pubblicazione di Il lungo sguardo, Elizabeth Jane Howard, la famosa scrittrice inglese matrigna di Martin Amis e compagna di vita di Kingley Amis. In occasione dell’uscita di uno dei suoi capolavori, pubblichiamo la traduzione dell’articolo di Aida Edemariam apparso il 9 novembre 2013 sul «Guardian», in cui Elizabeth Jane Howard, morta lo scorso 2 gennaio a 90 anni, si racconta.

 

Nel 1953, quando lavorava come redattrice part-time da Chatto & Windus, Elizabeth Jane Howard s’imbatté in una bozza di A rose for winter di Laurie Lee e rimase folgorata. «Era capace di scrivere di qualsiasi cosa – un’alba, una città – in una maniera allo stesso tempo nuova e familiare», scrive nella sua autobiografia del 2002, Slipstream. «La sua lingua scorreva naturale, come un flusso d’acqua i cui abissi non sono mai oscurati dalla torbidità dell’incertezza». Leggendo l’opera di Howard – che comprende quattordici romanzi, due antologie, l’autobiografia e una raccolta di racconti – si può sospettare che in quest’affermazione ci sia innanzitutto una sorta di identificazione: anche la sua scrittura ricerca, e spesso raggiunge, questo difficile equilibrio fra novità e familiarità. Ma questa dichiarazione è anche indice di una necessità – di chiarezza, onestà –, di qualcosa che per lei è sempre stato importante, nella vita e nella scrittura, nonostante ammetta che la chiarezza può essere fuorviante. «Dipende da quanto la cerchi».

Quando scoprì il lavoro di Lee, Howard aveva già pubblicato il suo primo romanzo, The Beautiful Visit, che vinse il premio John Llewellyn Rhys. Aveva anche cominciato Il lungo sguardo, la storia di un matrimonio raccontata a ritroso nel tempo, rispetto al quale la romanziera Angela Lambert una volta affermò: «Non capirò mai perché non sia riconosciuto come uno dei più grandi romanzi del ventesimo secolo». John Bayley lo definì un «trionfo della tecnica, di quelli rari». Lei aveva avuto aspirazioni da attrice: durante la guerra aveva frequentato una scuola di teatro, era stata spedita da una compagnia di repertorio di paese (con la quale apparve insieme a Paul Scofield), aveva lavorato a Stratford e scritto pièces. Crescendo era anche diventata di una bellezza talmente potente che la gente, al ristorante, le faceva arrivare dei biglietti in cui la invitava a posare per Vogue; intraprese il suo secondo matrimonio, con un affascinante poco di buono che conobbe tramite l’Ouspensky Society, perché, disse una volta, era «sfinita da quelli che volevano venire a letto con me dopo mezz’ora». (Il suo terzo matrimonio, il più duraturo e, almeno all’inizio, il migliore, fu quello con Kingsley Amis). Conosceva molta gente e c’erano molte feste e, a una di queste, conobbe Lee. Non molto tempo dopo – e nonostante lui fosse sposato – andò in Spagna con lui e, una volta lì, ci andò a letto. Ha detto di ricordare quel viaggio, in cui finalmente era desiderata da qualcuno che «mi capiva… aveva considerazione per me», come un bel momento nella sua vita. D’altronde, ricorda anche che Lee, della sua scrittura, disse che «nessuno della mia bellezza era tanto bravo a scrivere».

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Howard ha compiuto novant’anni quest’anno [2013, ndt]. Malgrado la sua presenza forte, quasi mascolina, e una vitalità attenta, in realtà è piuttosto fragile; ha bisogno di aiuto per vestirsi e di un ascensore per passare da un piano all’altro della sua grande casa a Suffolk. Quest’immobilità, esacerbata, quando ci siamo incontrate, da una caduta e una costola rotta, è frustrante per una persona che ama cucinare (ha scritto un libro di cucina con Fay Mashler) e star dietro al suo spazioso giardino; attraversare a piedi il suo prato per arrivare al fiume – dove possiede, lo dice con una gioia infantile, un’intera isola. Così abbiamo parlato in camera sua, dove sedeva su una sedia girevole con una vestaglia immacolata e uno scialle, accanto alla finestra dalle tende dorate, circondata da un cesto di gomitoli (stava lavorando a un ricamo complesso per una borsetta da sera), un girello e un romanzo di Arnold Bennett letto a metà, in preparazione per il suo gruppo di lettura – «Sai, è sorprendentemente bravo». Totalmente frustrante, fra l’altro, per una persona la cui mente è ancora estremamente lucida, una persona che ancora si alza tutte le mattine per scrivere.

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All Change è l’atteso quinto episodio in una serie di romanzi che segue le vicende in tempo di guerra della famiglia Cazalet – e, in maniera a volte sconcertante tanto è aderente alla realtà, segue le vicende della sua vita: la madre che ballava con Diaghilev e i Balletti russi ma smise per sposare suo padre, un bell’eroe di guerra che, quando Howard (e il suo personaggio Louise) aveva quindici anni «aggiunse un’altra dimensione» al proprio amore per la figlia dandole un bacio alla francese e afferrandole i seni; una vita di collegi, club riservati ai gentiluomini, tate e servitù; la casa di campagna dove la battaglia della Gran Bretagna veniva combattuta sopra le loro teste, proclamando la fine di un mondo di appartenenza indiscussa e privilegi.
Ma ci sono alcune differenze di vitale importanza tra l’autobiografia e i romanzi, a cominciare dalla saggezza compassionevole che Howard porta nella vita interiore dei suoi personaggi. Lei è convinta che le sue esplorazioni – delle loro vanità, cecità, crudeltà, dei brevi momenti in cui raggiungono la virtù, o intravedono una sorta di amore realistico e altruista – siano di estrema importanza. «Scrivere è il mio principale mezzo di comunicazione con me stessa», ha detto una volta; e «i romanzi servono a mostrare alle persone come sono fatte le altre persone». Avrebbe potuto anche dire che i romanzi servono a mostrare alla gente come essere.
Sua madre, che era avversa a Elizabeth e la criticava, buttava via tutte le sue lettere ma teneva quelle dai figli maschi. Lei emerge come una figura tragica che non sopporta sua figlia: non aveva pianificato di averla e non si riprese mai dall’abbandono della carriera di ballerina – i suoi talenti in tutti gli ambiti furono tutti annientati dal matrimonio. Nell’autunno della sua vita perse anche quello, quando il marito la lasciò per l’amante di vecchia data. Per gente come suo padre, ad ogni modo, che durante la prima guerra mondiale si vide costretto a uscire e sparare agli amici feriti per mettere fine alle loro sofferenze, è esattamente la negazione dell’immaginazione a costituire il problema. «Credo che il problema per [uomini come lui]», dice ora Howard, con una voce rabbuiata da anni di fumo, «fosse che se si azzardavano a usare la loro immaginazione era troppo orribile. E questo intacca il resto delle loro vite».
La sua gioventù fu piena di musica e conversazioni fra adulti – il nonno materno era un compositore, lei studiò pianoforte con un professore al Royal College of Music; uno zio, accenna incidentalmente, era governatore della Bank of England, un cugino era segretario di Stato per gli affari interni. Ma lei ha sempre pensato di essere stata tristemente mal istruita da una governante (altra figura che salta fuori, praticamente intatta, nella serie dei Cazalet) che la lasciava trascorrere tutta la giornata a leggere Austen e Shakespeare. Gli amanti, fra cui Cecil Day-Lewis, Arthur Koestler e Kenneth Tynan, così come Lee, le davano degli elenchi di letture: Middlemarch compariva spesso, in mezzo a consigli meno interessanti come Vita di Orazio Nelson di Southey. Di solito passava a un altro uomo prima di aver finito i compiti. Questo non le impedì, dopo aver messo fine al suo primo matrimonio con Peter Scott (figlio di Scott of the Antarctic) di guadagnarsi da vivere scrivendo recensioni e lavorando come redattrice e, per un po’, lavorando come sceneggiatrice di quattordici serie televisive, incluso un episodio di Upstairs Downstairs, e anche sceneggiatrice di film. Imparò dai luminari dell’epoca: JB Priestley (che accusa di aver preso l’idea per uno spettacolo da uno scritto da lei), Bernard Shaw, Sybille Bedford, EM Forster, Elizabeth Bowen, Rebecca West, Ian Fleming, Cyril Connolly, Charlie Chaplin, Stephen Spender, Muriel Spark, che durante una cena stette a guardare una discussione «inespressiva come un uccello testimone di un incidente stradale». La sua autobiografia, leggermente scoraggiante, fornisce un cast di personaggi famosi di undici pagine.
Slipstream si apre con il pensiero che un memoir sia come «il registro delle spese di una famiglia – cosa è stato acquistato, per quale scopo, se si è speso troppo e se ti ha insegnato qualcosa». Un’idea simile a questa è anche il nocciolo dei libri sui Cazalet: «Ho pensato, la gente scrive libri sulla guerra – dando fuoco alle spiagge con le mitragliatrici – molto eroico, ma non scrivono molto di com’era la vita per la gente normale». E quindi questi romanzi, come i suoi libri precedenti, sono pieni di sapori resi in maniera precisa, odori, tessuti: quanto spesso la gente si fa il bagno, la consistenza da saponetta di una piccola fetta di cheddar razionato, la quantità esatta di pesce che dev’essere comprata, e quali stanze arieggiare, se la famiglia soggiornerà – in questi dettagli risiedono carattere e intuizione. Così l’amante del padre di Louise indossa un abito di «un blu elettrico che una persona distratta potrebbe dire si abbina ai suoi occhi»; una bella ragazza tradisce quella che è dalla «quantità egoistica» di sugo che si versa nel piatto. Il guardaroba di una donna morta contiene regali scelti male da un marito innamorato «indossati con disagio per quella unica notte e mai più». Howard, con Iris Murdoch, scrive il figliastro Martin Amis nella propria autobiografia, Esperienza, «è la scrittrice donna più interessante della sua generazione. Un’istintivista, come Muriel Spark, ha uno sguardo inconsueto e poetico, e un buonsenso penetrante».

Kingsley Amis and Elizabeth Jane Howard

Kingsley Amis e Elizabeth Jane Howard qualche tempo dopo le loro nozze. Fotografia: Hulton Getty

La precisione per lei è la strada per la verità emozionale, e nel corso dei cinque volumi lei soppesa i costi di ogni sorta di bugia: le bugie lampanti di quando si tradisce, le bugie in buonafede ma alla fin fine crudeli, come nascondere a un partner innamorato che si sta morendo. Sua nonna nella vita reale, la Duchy nei romanzi, non ammetteva nemmeno le bugie bianche. «Penso che la visione delle bugie di mia nonna fosse eccellente, e lo riconosco», dice oggi, «il problema è che queste menzogne presuppongono inevitabilmente «che non c’è nulla tra te e la bugia». O il modo in cui, come la mette Clary in Marking Time, «quando uno vuole che tutto vada bene con qualcuno, comincia a non dirgli tutto». E sempre i modi in cui la gente mente a se stessa – sua madre/Villy Cazalet ad esempio, sul suo matrimonio: Howard è spietata nella descrizione di come la rabbia e l’autocommiserazione e l’orgoglio ferito non possano sostituire la mancanza d’amore.
Sua madre, nel racconto di Howard, è anche responsabile di uno fra i più dannosi silenzi in assoluto. «Le sole due cose che mi ha detto [sul sesso] sono state che quando avrei avuto un bambino “Non devi fare rumore”. Non fare rumore per quasi ventiquattr’ore mi ha quasi uccisa. Ha anche detto: “Non rifiutare mai tuo marito”. Attraverso i prismi di Louise Cazalet (bellissima, spigolosa, egoista, drammatica), le cugine Polly (bellissima, gentile) e Clary (non bella, impacciata, scrittrice e idealista) – in realtà, tutti e tre lati di se stessa – Howard tratteggia i danni che questi silenzi possono causare: lo shock quando l’ignoranza risulta in una gravidanza non voluta; la passività generata dal sentirsi sempre in dovere di dire di sì – che è forse una delle ragioni per cui Howard si trova invischiata in così tante storie con uomini sposati. Un’altra sembra essere stata la mancanza cronica di autostima che lei attribuisce all’atteggiamento costantemente critico della madre e alla convinzione che nessuno poteva sentirsi dire quant’era intelligente o bello – e la conseguenza, nella sua visione, era che lei era sprovvista di difese contro l’adulazione. Persino nell’ultima parte della sua vita ciò le causava problemi: nei primi anni Settanta ebbe una storia traumatizzante con un truffatore che si prefisse di corteggiarla dopo averla sentita ammettere a Desert Island Discs di sentirsi sola. Nonostante avesse scritto un romanzo, Falling, e avesse tratto un film dall’esperienza, ciò non era esattamente una consolazione. «Mi sarebbe piaciuto arrivare alla fine della mia vita sposata a qualcuno che conoscevo da molto tempo», ha detto una volta a un intervistatore. «Sarebbe stato fantastico, ma ho incasinato tutto, quindi è questo che non capisco. Si paga sempre per tutto».
Howard non si aspettava nemmeno che il suo terzo matrimonio, con Amis, diventasse tale. Cominciò come storia extraconiugale – «Tuo padre ha un’amante su a Londra», come diceva la tata di Martin Amis. Cominciò anche con la stima reciproca che una volta si spinse fino a farli scrivere piccole sezioni l’uno del libro dell’altra, e a lavorare nella stessa stanza, l’uno di fronte all’altra. Ma poi lei iniziò a prendersi cura dei capricciosi figli di Amis (iscrivendo Martin all’istituto di preparazione che gli permise di entrare a Oxford e quindi di ottenere il suo successo come romanziere); si trasferirono in una casa più grande fuori Londra, a Lemmons, e mentre Kingsley si alzava, scriveva, pranzava, scriveva ancora, beveva, lei si ritrovò a occuparsi di una famiglia di otto-dodici persone, che comprendeva, dopo che suo fratello e sua madre in difficoltà si furono uniti a loro, «cinque uomini e una donna a cui non piacevo molto». La sua attività di scrittura scemò, arrivando quasi a zero. Quando si trasferirono ad Hampstead – su ordine di Kingsley – lui stava seduto alla sua scrivania finché questa non gli veniva sfilata da sotto da Howard e Daniel Day-Lewis.

NPG x131053; Kingsley Amis and Elizabeth Jane Howard by Francis Goodman

«Alla fine mi ero un po’ stufata, perché, curiosamente, non ho mai pensato che fosse meglio di me come scrittore – pensavo fosse uno scrittore diverso. Ma lui veniva acclamato, e guadagnava soldi e riceveva interesse a un livello che a me non arrivava mai. E io credo di essere stata abbastanza sfortunata a questo proposito. Jonathan Cape, che mi ha pubblicata» – e che quando firmò il suo primo romanzo, le offrì un martini carico perché «[vanno molto] bene per donne in fase mestruale», poi la seguì attorno al tavolo – «era molto vecchio, e un uomo incredibilmente cattivo. Non mi lasciava passare alla brossura perché temeva che avrebbe potuto danneggiare le sue vendite di cartonati». Amis «non era in grado di bollire un uovo»; lei venne tirata su per essere in secondo piano. Quando alla fine «ne parlavo con Kingsley, lui diceva: «Le cose devono restare così», e io dicevo: “Perché?”, e lui diceva: “Perché io sono più vecchio, più pesante e guadagno più soldi”». (Questo nonostante lei avesse comprato le case in cui vivevano). In Slipstream ricorda di aver annunciato a cena con Kingsley e Terence Kilmartin, l’editor letterario dell’«Observer», di aver appena finito After Julius. «Terry disse: “Dev’essere una buona cosa”, e subito si girò verso Kingsley per parlargli delle sue recensioni per l’«Observer». Cominciò la serie sui Cazalet, che le portò fama ed entrate a un livello fino a quel momento sconosciuto, dopo che l’ebbe lasciato. Forse opportunamente, chiese consiglio a Martin su se dovesse o meno andare avanti. Lui le rispose che avrebbe dovuto farlo.
Cosa ne pensavano i suoi famigliari dei modi talvolta graffianti che usava nello scrivere di loro? «Per anni e anni e anni, assolutamente nessuno accennò al fatto che io scrivessi. È abbastanza curioso, in realtà – poi, dopo che avevo pubblicato circa quattro romanzi, mia madre disse: “Credo che il tuo romanzo migliore sia il primo”. Che è scoraggiante [quanto dire] eri adorabile quando facevi Giulietta a tredici anni. E in generale l’ho sempre trovato difficile, perché il mio presupposto è che se leggi il libro di qualcuno e non ti piace non ne parli. Dato che non ne parlavano, ho pensato che non gli piacessero». La grande sorpresa per lei fu il grado in cui i libri dei Cazalet diventarono una specie di progetto di vita e il passaggio all’età adulta; dopo aver trascorso «molto tempo da pecora nera, perché era così, senza avere nulla a che fare con nessuno di loro, alla fine ho scoperto che per me erano veramente importanti, e che gli volevo veramente bene, e gliene voglio ancora – ed è stata una grande scoperta. Quando chiuse il suo primo matrimonio, a ventitré anni, lasciò anche che sua figlia Nicola venisse tirata su da una tata. Ci vollero decadi per rimettere in sesto la loro relazione, ed è inconfondibile la gioia che prova da quando Nicola si è trasferita in una casa vicina.
Un grande motivo di orgoglio, per Howard, è non aver preso denaro da nessuno dei suoi mariti; il fatto che si è mantenuta per tutta la vita, che questa casa che ama è interamente sua – che, come per i suoi romanzi, tutto all’interno di essa è stato guadagnato attentamente e indipendentemente. È questo che la fa andare avanti. Ora è ben avviata nel quindicesimo romanzo. «Il titolo in divenire è Human Error. Non può non andare, no?».

Traduzione di Valentina Bortolamedi

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