Pubblichiamo la traduzione uscita sul Corriere della Sera dell’articolo di Julian Barnes pubblicato il 13 dicembre 2013 sul Guardian.
Perché il bestseller di Williams è il libro del 2013.
Il 13 giugno 1963, il romanziere americano John Williams, dall’Università di Denver dove era docente di inglese, scrisse alla sua agente Marie Rodell, la quale aveva appena letto il suo terzo romanzo, Stoner, e pur apprezzandolo molto, lo ammoniva a non farsi troppe illusioni. William le rispose: «Ho il sospetto che tu abbia ragione riguardo le potenzialità commerciali del libro, ma ho anche il sospetto che a questo proposito il mio romanzo possa riservarci delle sorprese. Certo, non mi illudo che diventi un bestseller o qualcosa di simile, ma se verrà presentato bene (c’è sempre questo alibi) – cioè, se l’editore non lo proporrà solo come l’ennesimo “romanzo accademico”, così come Butcher’s Crossing (il suo secondo romanzo) fu presentato come un “western”, potrebbe vendere bene. L’unica cosa di cui sono certo è che sia un bel romanzo; col tempo, potrebbe persino essere considerato un romanzo molto bello».
I toni e il succo del messaggio risulteranno senza dubbio familiari alla quasi totalità degli scrittori esordienti. La certezza della qualità del proprio lavoro, senza la quale non ci si sarebbe mai messi all’opera; la diffidenza nei confronti della perfida dea del Successo; l’attenzione a non crearsi aspettative e ancor più, a non crearsele troppo alte; e infine, l’eterno alibi dello scrittore: se andrà male, la colpa sarà probabilmente di qualcun altro.
Stoner venne pubblicato nel 1965 e – come spesso accade – si posizionò a metà tra le paure e le speranze del romanziere. Ricevette delle recensioni dignitose e vendette un discreto numero di copie; non divenne un bestseller e non fu più ristampato. Nel 1972, Augustus, il romanzo «romano» di Williams, vinse il National Book Award per la narrativa a pari merito con Chimera di John Barth. Fu il momento di maggior successo per Williams, che tuttavia non presenziò neppure alla cerimonia di premiazione; forse aveva motivo di essere sospettoso, perché l’encomio pronunciato in sua assenza risulto stranamente denigratorio. Quando Williams morì, vent’anni più tardi, senza aver pubblicato altri romanzi, il necrologio del «New York Times» «lo ricordò sia come poeta ed educatore» sia come romanziere. Doveva però ancora palesarsi l’elemento – citato da Williams nella lettera – di cui spesso scrivono i romanzieri, che lo temono ma nel quale al contempo ripongono fiducia: il tempo. E il tempo ha reso giustizia a Williams ben oltre le sue modeste aspettative. Cinquant’anni dopo la lettera che scrisse alla sua agente, Stoner è diventato un bestseller. Un bestseller alquanto inatteso. Un bestseller in tutta l’Europa. Un bestseller che gli editori per primi non riuscivano a capire. Un bestseller del genere più puro – scaturito cioè quasi del tutto dal passaparola tra lettori.
Rammento quando, il marzo scorso, scartai il pacchetto con la mia copia del libro. Come molti scrittori, ricevo molti più libri di quanti ne possa leggere, e il processo di cernita può essere brutale. Il volume (inviato dal mio stesso editore, Vintage) aveva attorno alla copertina una grossa fascia con la dicitura: VINTAGE WILLIAMS . Niente nome di battesimo. Raymond Williams? William Carlos Williams? Rowan Williams? Controllo la costa: John Williams. Il chitarrista classico? Il compositore di musica da film? Nessuno dei due. Invece, un romanzo pubblicato negli anni Sessanta, di un autore americano ormai morto e di cui non avevo mai sentito parlare. Il titolo poi: Stoner (In italiano: drogato ). Mmm… che si trattasse di una noiosa e rapita dissertazione sulle qualità dell’hashish marocchino rispetto a quelle dell’erba colombiana? C’era però un’introduzione (e anche una raccomandazione) di John McGahem, così superò il test della prima pagina. Stoner, poi, si rivelò essere il nome del protagonista, cosa che mi sollevò. La prosa era pulita e pacata, il tono un po’ beffardo. Così dalla prima pagina passai alla seconda, dopodiché si verificò quel gioioso passaparola interiore che conduce il lettore ad affrettarsi da una pagina alla seguente, e che si trasforma poi in un vero e proprio, concreto passaparola: consigliare il libro agli amici, ordinare copie e regalarle.
William Stoner, apprendiamo nel primo paragrafo del libro, ha avuto una lunga carriera accademica. Entrato nell’Università del Missouri da studente nel 1910, vi ha poi insegnato fino alla morte, nel 1956. Il valore e il senso della vita accademica costituiscono un elemento chiave del romanzo, e una delle scene centrali descrive una lunga e spietata contesa tra Facoltà. Williams dunque peccò forse di ingenuità, o quantomeno fu troppo ottimista, nel ritenere che il suo romanzo non fosse – o non dovesse – essere etichettabile come «accademico». Allo stesso modo, Butcher’s Crossing è a tutti gli effetti un «western», essendo ambientato in una cittadina di frontiera del Kansas nel 1870, e avendo come tema centrale la caccia al bisonte in una sperduta valle di montagna all’approssimarsi dell’inverno. È così preciso dal punto di vista storico e anatomico da non farmi dubitare che, se mi dessero un coltello affilato, un cavallo e una corda, ora saprei come scuoiare un bisonte ( qualcun altro pero dovrebbe prima ucciderlo ). Butcher’s Crossing è un ottimo «western», così come Stoner è un ottimo «romanzo accademico» – e in entrambi i casi «Ottimo» significa che i libri trascendono l’etichetta di genere.
Stoner è un ragazzo di campagna che comincia studiando agraria, ma deve seguire un corso di letteratura inglese perché il piano di studi lo prevede. Agli studenti vengono proposte due commedie di Shakespeare e alcuni sonetti, compreso il 73esimo. Quando un professore impaziente e sarcastico gli chiede di spiegare il sonetto, Stoner si ritrova ammutolito e imbarazzato, incapace di profferire altro che: «Vuol dire che… vuol dire che… ». E tuttavia, dentro di lui succede qualcosa: una folgorazione generata più da un momento di non comprensione che di comprensione. Si rende conto che là fuori c’è qualcosa che se lui riuscirà ad afferrare, gli schiuderà non soltanto la letteratura ma la vita stessa; e, prima ancora della comprensione a venire, già sente risvegliarsi la propria umanità, e con essa un nuovo senso di fratellanza con chi lo circonda. Da quel momento la sua vita cambierà in modo radicale: scoprirà un «senso di meraviglia» per la grammatica, e si renderà conto di come la letteratura cambi il mondo nel momento stesso in cui lo descrive. Diventerà un insegnante, «cioè semplicemente un uomo per il quale il libro è verità, e al quale viene conferita quella dignità dell’arte che ben poco ha a che vedere con le sue stupidaggini, debolezze o inadeguatezze di uomo». Verso la fine dei suoi anni, dopo aver patito molteplici delusioni, considera l’accademia come «l’unica vita che non l’ha mai tradito». E capisce anche che c’e una continua lotta tra l’accademia e il mondo: la prima deve tener fuori il secondo, e i suoi valori, il più a lungo possibile.
Stoner è un figlio della terra – paziente, serio, tenace – che si muove impreparato verso città e mondo. Williams è portentoso con la goffaggine umana, la timidezza del corpo e delle emozioni, l’incapacità di esprimere pensieri e sentimenti, o perché non si riesce ad articolarli o solo perché non si riesce a seguire gli eventi, o entrambe le cose:
E così, come succede a molti, la loro luna di miele fu un disastro; e tuttavia non volevano ammetterlo a se stessi, e non si resero conto della portata di quel disastro se non molto tempo dopo.
Accadono anche delle belle cose nella vita di Stoner, ma finiscono tutte male. Insegnare ai ragazzi gli piace molto, ma la sua carriera viene ostacolata dal malevolo direttore di Facoltà; s’innamora e si sposa, ma entro un mese si rende conto che l’unione è un fallimento; adora sua figlia, ma c’è chi gliela mette contro; sembra rinascere all’improvviso per via di una relazione extraconiugale, ma scopre che l’amore è vulnerabile nei confronti delle influenze esterne, così come l’accademia è vulnerabile nei confronti del mondo. A 42 anni, conclude che: «dinanzi a sé non riusciva a vedere niente da desiderare, e dietro di sé aveva ben poco che gli importasse ricordare».
Anche se verso la fine del romanzo gli vengono concesse alcune piccole vittorie, sono solo vittorie di Pirro. Le pene per l’amore perduto e contrastato hanno dato fondo alle sue riserve di stoicismo; si potrebbe così concludere che la sua stessa vita debba essere considerata un fiasco. Williams pero non sarebbe d’accordo. In una delle sue rare interviste, disse del suo protagonista: «Credo che sia un vero eroe. Molti di coloro che hanno letto il libro pensano che Stoner abbia avuto una vita brutta e triste. Io invece credo che sia stata bellissima. Una vita senz’altro migliore di quella di molti. Faceva ciò che desiderava fare, ci teneva, era in qualche modo convinto dell’importanza del lavoro che svolgeva… Per me, la cosa importante del romanzo è il significato che Stoner attribuiva al lavoro… il lavoro nel senso buono e onorevole del termine. Il lavoro gli dava un’identità particolare e lo rendeva ciò che era».
Gli scrittori sono spesso in disaccordo con i lettori sul senso fondamentale delle proprie opere. Anche così, stupisce che Williams si stupisse del fatto che gli altri trovassero «triste» la vita di Stoner. Era tuttavia ben consapevole degli effetti che poteva provocare la storia. In quella lettera a Rodell, scrive: «Un pomeriggio di qualche settimana fa, sono entrato in studio mentre la mia dattilografa (una studentessa specialista in storia, e anche non troppo brillante, temo) stava finendo di battere il capitolo 15, e l’ho sorpresa con il volto rigato di lacrimoni. Le vorrò bene in eterno».
La tristezza di Stoner è di un genere particolare. Non si tratta, per esempio, della tristezza melodrammatica di The Good Soldier, o dell’opprimente tristezza sociologica di New Grub Street. Sembra più pura, meno letteraria, più vicina alla vera tristezza della vita. Da lettore, si può vederla arrivare nel modo in cui spesso la si vede arrivare nella vita, sapendo che ci si può fare ben poco. Come lettore però, la si può almeno rimandare. Mentre leggevo Stoner per la prima volta, scoprii che mi limitavo a 30 o 40 pagine al giorno, preferendo rimandare all’indomani le ulteriori prove che Stoner avrebbe potuto patire.
Il titolo – suggerito dai suoi editori americani – resta poco attraente (sebbene sia migliore, probabilmente, delle prime idee di Williams: Un Difetto di Luce e La Materia dell’Amore). In ogni caso, è il libro che fa il titolo, non il contrario. E ciò in cui il libro si è trasformato è qualcosa di più dell’ennesima opera dimenticata e felicemente riesumata. Quando viene riscoperto un romanzo di, diciamo, Henry Greeno Patrick Hamilton, il grafico delle vendite fa registrare una breve ma ragguardevole salita prima di riportarsi in orizzontale. Stoner passò a Vintage nel 2003, dopo che McGahem l’ebbe raccomandato a Robin Robertson. Nei dieci anni successivi vendette 4.836 copie, e alla fine dell’anno scorso arrancava a colpi di stampa su richiesta. Quest’anno, fino alla fine di novembre, ha venduto 164.000 copie, di cui la stragrande maggioranza – 144.000 – da giugno in poi.
Fu l’improvviso successo del romanzo in Francia, nel 2011, ad allertare gli altri editori sulle sue possibilità; da allora ha venduto 200.000 copie in Olanda e 80.000 in Italia. È stato in testa alle classifiche in Israele e sta cominciando a decollare in Germania. Williams morì nel1994, ma la sua vedova è fortunatamente in vita, e potrà giovarsi dei proventi dei diritti d’autore. Diritti che sono stati venduti in 21 paesi, mentre Stoner sta per essere lanciato in Cina.
C’è un’ulteriore stranezza nel revival di Stoner: finora sembra essere un fenomeno prettamente europeo ( e israeliano). Bret Easton Ellis l’ha elogiato via Twitter e Tom Hanks l’ha molto lodato, ma le loro sono tra le rare voci che si sono levate in suo favore. Quando ho chiesto ai miei amici letterati americani cosa ne pensassero, alcuni mi hanno risposto che non avevano mai sentito parlare né del romanzo né di Williams, altri hanno avuto reazioni tiepide. Il giudizio positivo di Lorrie Moore è stato calibrato con attenzione: «Stoner è un fenomeno molto interessante. È un libricino notevole e notevolmente triste, ma il modo in cui è salito in cima alle classifiche nel Regno Unito resta un dilemma per la maggior parte degli scrittori americani, che lo trovano carino, imperfetto, scritto in maniera coinvolgente ma un’opera minore, non maggiore».
Questa disparità di giudizi necessita di qualche spiegazione, e io non sono sicuro di essere in grado di fornirla. Forse gli europei sono più predisposti degli americani alla pacatezza del romanzo. Forse gli americani hanno già letto più romanzi simili a Stoner di noi europei (anche se non so quali potrebbero essere). Forse ai lettori americani non piace la mancanza di «ottimismo» del libro (nella letteratura americana il pessimismo non scarseggia, ma lo Spirito nazionale e quello di battersi e lottare per cambiare le circostanze, invece di accettarle). O forse sono solo in ritardo rispetto a noi, e presto ci raggiungeranno. Quando ho sottoposto questi spunti alla scrittrice Sylvia Brownrigg, ha replicato: «La reticenza non mi sembra una dote molto americana. Anche se Stoner è ambientato in America, il personaggio stesso si sente più inglese o europeo – opaco, fondamentalmente per bene e passivo… Se il romanzo non ha preso piede negli Usa, che sia perché Stoner non sembra Uno dei Nostri? Siamo un paese di massimalisti chiassosi, e pur essendoci come al solito delle eccezioni, neanche i nostri minimalisti sono frugali e tristi in quel modo così particolare… Mi è venuta anche un’altra idea: che in Stoner si beve poco. Mi chiedo se personaggi americani altrettanto stoici e chiusi (penso a Carver, a Richard Yates) non debbano più spesso essere degli alcolisti per sostenersi e accettare le delusioni».
Di qualunque genere siano le ragioni per cui Stoner negli Stati Uniti è stato accolto con maggiore freddezza, dissento sul fatto che sia un’opera «minore», anche se non credo che sia «grande» allo stesso modo di Gatsby o del quartetto del Coniglio di Updike. Credo che Williams abbia vista giusto: è un romanzo molto bello. È valido, ha notevole sostanza, gravità, e rimane nella mente. È anche un vero «romanzo per lettori», nel senso che la sua narrativa rinforza il valore della lettura e dello studio. Molti ripenseranno alle proprie folgorazioni letterarie, a quei momenti in cui la magia della letteratura cominciò ad avere un qualche vago senso, alla prima volta in cui si propose loro come il modo migliore di capire la vita. I lettori sanno anche che questo sacro spazio interiore, in cui ci sono la lettura, le riflessioni e l’essere se stessi, è minacciato in modo crescente da quello che Stoner chiama «il mondo», un mondo oggigiorno sempre più denso di frenetiche interferenze e costante sorveglianza dell’individuo. Forse c’è un po’ di quest’ansia dietro la rinascita del romanzo.
Ma dovreste – anzi, dovete – scoprirlo di persona.
(traduzione di Laura Lunardi)
IN COLLABORAZIONE PER FAZI EDITORE – JULIAN BARNES/GUARDIAN NEWS &MEDIA LTD