Saggista, critica letteraria e giornalista, oltre che autrice di molte opere di narrativa, la londinese di origini scozzesi e irlandesi Rebecca West fu impegnata quanto lungimirante osservatrice delle grandi questioni politico-sociali del suo tempo e femminista sui generis, così consapevole dei vincoli che condannano spesso le donne alla negazione di sé da scegliere come pseudonimo il nome di una delle più passionali, libere e sventurate eroine di sempre, l’omonimo personaggio del dramma ibseniano Rosmersholm. Adorata da Alessandro Baricco come da George Bernard Shaw, amante di H.G. Wells, col quale ebbe un figlio, e amica di Virginia Woolf, la West fu una delle più importanti intellettuali del ‘900 e per la sua attività ottenne vari riconoscimenti, tra cui quello di Dame of the British Empire.
La famiglia Aubrey, pubblicato da Fazi e tradotto da Francesca Frigerio, è il primo volume di una trilogia/saga famigliare ispirata alla biografia dell’autrice e considerata uno dei capolavori della letteratura novecentesca, un affresco di rara empatia e intensità che s’inserisce nel solco dei grandi classici ottocenteschi, pur essendo stato scritto nella seconda metà del ‘900. Il romanzo narra la quotidianità, tra sonate, arpeggi e pamphlets, ma anche dolorose perdite e lotte coi creditori alternate a straordinari gesti di altruismo, di una famiglia britannica di artisti/intellettuali sul finire del diciannovesimo secolo. La famiglia è composta dai genitori, l’indomita Clare, eccellente pianista, e l’irrequieto Piers, giornalista coraggioso e brillante polemista, nonché dai loro quattro figli, le talentuose Mary e Rose, la teatrale Cordelia e l’adorato ultimogenito Richard Quin. Il romanzo segue le vicende degli Aubrey, la cui famiglia si arricchisce lungo il percorso di due nuove componenti; la placida cugina Constance e sua figlia Rosamund, fermandosi alle soglie dell’età adulta di Rose, Mary e Cordelia, la quale ultima, essendo la più illusa in merito alle proprie doti, è la figlia costretta a pagare il prezzo più alto per raggiungere la maturità.
Tra romanzo di formazione e memoir, La famiglia Aubrey ha come io narrante/alter ego dell’autrice una delle tre figlie, Rose, che filtra le vicissitudini famigliari attraverso il suo sguardo, affettuosamente partecipe e insieme lucidissimo, di bambina che pagina dopo pagina si trasforma in adolescente e quindi in giovane donna.
La grande musica onnipresente nel romanzo si fa metafora della musicalità segreta del quotidiano famigliare, intriso di un senso profondamente gioioso della vita perché, al di là delle contingenze, intimamente giocoso. Così anche un padre capace di sparire all’improvviso come un mago e di perdere tutto, compresi i mobili di casa e se stesso, si rivela un grande genitore, in grado di mantenere viva la sua presenza nonostante l’assenza nonché di stimolare creatività e spirito critico dei figli attraverso meravigliosi racconti di vita vissuta, lucidissime analisi del reale e regali “unici” capaci di rendere memorabili le festività.
Piers Aubrey appare come un emblema delle umane contraddizioni: debole, schiavo del gioco e incapace di mantenere la famiglia, ma anche dotato di straordinaria generosità e geniale inventiva, un uomo “coraggioso e crudele”, “disonesto e gentile”, “screditato ed enormemente influente”, padre/marito estremamente disattento, ma capace di sviluppare nelle figlie poco più che bambine una fierezza e un amore per la giustizia impareggiabili, facendosi ai loro occhi modello di coscienza civica e umanità.
Non avevo mai provato un’estasi pari a quella. Mio padre era esattamente quello che pensavamo fosse. La mia mente splendeva della luce di migliaia di candele, il sangue mi scorreva nelle vene bollente e gelato insieme, e avevo gli occhi pieni di lacrime. Ma quando la vista mi si schiarì di nuovo, vidi che il signor Pennington non stava guardando mio padre in soggezione davanti al suo coraggio come avevo creduto dovesse essere, ma stava guardando me: e sul suo viso si leggeva la compassione. (…) dovetti fare uno sforzo per tenere la testa alta e dire: «La mamma, le mie sorelle e io saremmo molto orgogliose se papà andasse in prigione».
Clare è a sua volta una madre “anomala”, ossessionata dalla musica al punto da rifugiarsi spesso con la mente in qualche paradiso musicale e mostrarsi intollerante quando le figlie suonano senza “una goccia di musicalità in corpo”, eccentrica, trasandata e incapace di provvedere in modo “ritenuto socialmente adeguato” ai bisogni materiali dei famigliari, ma anche straordinariamente intuitiva, saggia e capace di un’attenzione/dedizione senza riserve. Ama il marito che la “tradisce” coi libri e gli azzardi finanziari e lo difende in tutte le circostanze (“dovete essere molto orgogliosi di lui. È un peccato che viviamo in un paese dove gli uomini intelligenti non vengono onorati come si deve.”) Ma a rendere speciale Clare è soprattutto la passione con cui si dedica a trasmettere ai figli l’amore per la musica e per la meraviglia nascosta dietro l’apparente banalità della vita, che per lei sono solo due facce della stessa medaglia:
Devi sempre essere convinta che la vita sia straordinaria esattamente come ti viene detto dalla musica.
I genitori de La famiglia Aubrey sono in definitiva “alternativi”, socialmente disprezzati ed emarginati ma capaci, oltre che di sacrificarsi senza esitazioni per aiutare conoscenti e parenti in difficoltà, di insegnare ai figli a guardare oltre le apparenze. Non a caso Rose riesce a percepire l’essenza di “zia Lily”, accolta in casa dopo il presunto omicidio del cognato per mano della sorella, la tirannica Queenie Phillips, al di là della sua “autoconsapevolezza untuosa e artefatta”, comprendendo come in lei vi sia una “semplice sovrapposizione del falso al vero”.
Nutrite sin dalla tenera età di tragicità shakespeariana, del fiabesco incanto di Le Mille e una notte e delle sublimi note di Beethoven, Bach e Brahms, Rose e Mary sono più adulte rispetto all’età anagrafica, “furbe come volpi” per arginare gli effetti devastanti delle sventure famigliari e insofferenti verso i vincoli imposti dall’infanzia. Sono così legate tra loro e al fratellino Richard Quin che le loro vite, come il loro modo di rapportarsi agli altri e di interpretare la realtà, sembrano procedere in totale simbiosi. A distaccarsi dal resto della famiglia è solo Cordelia, unica a mostrare insofferenza verso la “diversità” degli Aubrey e ad essere in perenne conflitto con la madre che, secondo lei, sottostima le sue pretese doti di virtuosa del violino.
Raffinatissima anche l’analisi psicologica dei personaggi di contorno, dal povero signor Morpugo ai signori Phillips sino all’ineffabile “zia Lily”, tratteggiata con penna tanto ironica quanto tenera; una donna infantile e invadente ma ricca di rigore morale, di coraggio che le fa nascondere le sue paure per il futuro sotto il velo di una chiassosa allegria, e di capacità di amare incondizionatamente la sorella Queenie che rischia di essere impiccata, per aiutare la quale è disposta a mentire a tutti, ma non agli Aubrey che la ospitano perché:
vuole che al mondo ci sia un posto nel quale poter ammettere che Queenie è colpevole e tuttavia dire che le vuole bene.
Il romanzo si chiude sulla fine dell’adolescenza delle tre figlie, con Rose e Mary vincitrici ciascuna di una borsa di studio, lasciapassare per due diverse ma parimenti prestigiose scuole musicali, e con il drammatico ridimensionamento delle velleità artistiche sia di Cordelia che di Rose. A segnare il termine del percorso formativo di quest’ultima – processo che vede varie tappe, tra cui la presa di coscienza della trappola dell’essere adulti e delle differenze di genere, a cominciare dall’inclinazione maschile a temere il confronto con donne troppo belle o intelligenti – è la dolorosa assunzione di consapevolezza dei propri limiti anche nei confronti degli eccezionali genitori.
Erano mio padre e mia madre ad esistere. Li immaginavo come due sorgenti che scaturivano da una rupe rocciosa e si buttavano a capofitto giù dalle pendici della montagna in un torrente, e si riunivano per scorrere nel mondo come un unico grande fiume. Io ero così inferiore a loro che non avrebbe avuto importanza se anche mi fossi comportata con prudenza e fossi sfuggita alla rovina alla quale mio padre aveva dedicato tutto se stesso. La sua rovina, ora lo capivo, era più vicina alla salvezza di quanto la mia misera salvezza potesse mai aspirare.
Gli Aubrey sono una famiglia alle cui vicende è impossibile non appassionarsi, costretta dall’instabilità paterna a una vita di continui trasferimenti e povertà ma ricca, oltre che di idealismo, creatività e talento, di qualcosa d’impareggiabile: reciproco istinto protettivo che non viene meno neppure di fronte allo strazio dell’abbandono e che spinge i suoi membri a donarsi l’un l’altro quanta più felicità possibile. Qualcosa che potrebbe definirsi senso di appartenenza a una rete affettiva in cui ognuno è strettamente legato all’altro ma, anziché per “doveri” scaturiti dalla consanguineità, per libera scelta conseguente all’affetto, e la vicendevole dipendenza non implica mai prevaricazione dell’uno sull’altro, ma mutuo aiuto capace di rinforzare in ciascuno la fierezza della propria unicità. Una famiglia sopra la quale, grazie soprattutto a Clare, alita una sorta di intima grazia che incanta. L’anima del romanzo è infatti proprio la contagiosa magia che emana dalle più piccole cose, dalla ricetta del pasticcio di maiale come dal reciproco lavaggio dei capelli, gesti insignificanti trasformati come per miracolo in meravigliosi riti collettivi, capaci d’infondere gioia anche nei momenti più difficili e rafforzare il senso di affinità/condivisione.
La famiglia Aubrey: la magica forza del dolce-amaro sentimento famigliare secondo la grande Rebecca West.
Giorgia Rovere