Nota di Hilary Mantel all’edizione italiana

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Pubblichiamo la nota di Hilary Mantel, vincitrice di due Man Booker Prize e annoverata dal «Time» tra le 100 persone più influenti del 2013, che introduce il lettore al romanzo Un posto più sicuro, il più grande e graffiante affresco mai scritto sull’evento fondante della società occidentale moderna: la Rivoluzione francese .

 

Ho cominciato a scrivere romanzi nel 1974. Avevo ventidue anni e ho scelto la Rivoluzione francese perché pensavo che fosse la cosa più sorprendente e interessante accaduta nella storia universale. Quarant’anni dopo sono ancora alla ricerca di un avvenimento che mi susciti maggior sorpresa. Quando oggi andiamo a visitare Versailles, la sua agghiacciante grandiosità è rimasta intatta. Le mura, le pareti trasudano ancora l’alterigia dell’ancien régime. È noto che la Francia del 1789 era quasi alla bancarotta, che il terreno per la Rivoluzione era pronto: eppure viene da chiedersi, come hanno osato? Uomini, donne normali contro quel potere, quella certezza, quella presunzione di diritti acquisiti da così lungo tempo? L’impressione resta sempre la stessa.

La Rivoluzione è stata opera di migliaia di uomini e donne senza nome, ma molti dei capi, i cui nomi sono stati affidati alla storia, erano giovani e senza esperienza. Antoine Saint-Juste aveva ventisei anni e non aveva mai lavorato, se non come rivoluzionario. Danton e Robespierre ne avevano poco più di trenta quando sono stati divorati dalle forze che loro stessi avevano scatenato. Nel 1789 erano abbastanza giovani da conservare intatte le loro ambizioni e i loro ideali, ma non così giovani da non conoscere il gusto dell’insuccesso e della frustrazione. Le persone di cui seguo la storia sono rimaste coinvolte in una rivolta politica ma anche personale: contro la famiglia, le loro origini, le regole entro cui erano costretti e la loro stessa natura. Ho scelto di scrivere di tre giovani nati nella classe borghese colta. Forse oggi non prenderei la stessa decisione; o piuttosto, mi sarebbe più difficile giustificarla. Il nostro modo di ricostruire la storia di quell’epoca adesso è cambiato. Abbiamo più attenzione per i lavoratori che hanno preso parte alla rivoluzione, per le donne. Ma una romanziera non è davvero in grado di scrivere sui movimenti di massa. Deve scegliere un viso tra la folla. E individuare a chi appartiene e seguirlo fino a casa.
La storia è cambiata anche sotto altri aspetti. I piccoli fatti che avevo riportato alla luce con gran fatica, e che con fatica ancora maggiore avevo controllato, ora possono essere scoperti e verificati battendo qualche tasto di computer. Può essere ordinata un’intera biblioteca restando seduti al proprio tavolino. Allora sono preoccupata di aver commesso degli errori o, non avendo avuto a disposizione tutte le fonti, di non aver neanche trovato il materiale giusto. Gli errori di poco conto si possono correggere. È la storia nel suo complesso a cui devo restare fedele. L’ho scritta per i miei conterranei britannici che preferiscono farsi un’idea della Rivoluzione leggendo un genere di narrativa più fastosa e benevola, regressiva nelle idee e compiaciuta di sfruttare il senno di poi. Si versano lacrime per gli splendidi aristocratici, ma non se ne ha neppure una per i piccoli lottatori sudici che tanto fascino esercitano su di me. Volevo riequilibrare un po’ le cose.
È difficile sapere come verrà letto il libro negli altri paesi. C’è voluto tempo prima che quest’impresa si facesse strada. Ho steso le prime due versioni che non avevo ancora ventisette anni, all’incirca l’età delle persone di cui scrivevo. Ne avevo quaranta alla pubblicazione; un’età che loro non avevano raggiunto. Nel frattempo sono trascorsi altri vent’anni. Oggi questo libro non riuscirei più a scriverlo. Non riuscirei a ritrovare, a sentire dentro di me quello che avevano provato quei giovani: l’entusiasmo di fronte alla prospettiva di un nuovo ordine, di un mondo più pulito e più giusto. Oggi mi sentirei obbligata a essere più ironica e selettiva: a concentrare la mia attenzione su un campo più ristretto. Nel contempo però sarei preoccupata per ciò che resta fuori. La mia Rivoluzione ha come centro Parigi. È talmente tanto quel che c’è da dire sulla capitale, sulle poche strade percorse dai miei rivoluzionari, che m’avventuro appena fino alle frontiere del paese, e ancor meno fino alle colonie.
Quando ho cominciato a scrivere il romanzo uscivo da tre anni di giurisprudenza, ma come molti dei miei personaggi non ero riuscita a diventare avvocato e non avevo grandi prospettive davanti. Simpatizzavo con le cause abbracciate dalla sinistra ma come potenziale rivoluzionaria ero un po’ in ritardo. Sono approdata all’università due anni dopo il tumultuoso attivismo del 1968, in un periodo in cui l’idealismo era stato rimpiazzato dalla stanchezza e dall’apatia. Forse mi sono sentita in obbligo di rielaborare il passato in forme sperimentali, di fondere l’allora e l’oggi, il personale e il politico, di esplorare quello che sarebbe potuto essere e quello che poteva ancora essere. La Rivoluzione francese non smette mai di esistere. Questo è il pensiero che mi ha sostenuto mentre da scrittrice attraversavo il mio deserto. Mi ci sono voluti più di dieci anni per arrivare alla prima pubblicazione e anche quando è accaduto è stato con un libro assai diverso da questo.
Oggi, se cominciassi a scrivere un romanzo, non avrei lo stesso folle coraggio. Forse esigerei meno dal mio lettore. Adatterei il tema alle mie capacità. Ma quando ho iniziato non sapevo quali fossero. Di fronte alle sfide poste alla mia perizia di narratrice tenterei, come i più recenti rivoluzionari, qualsiasi strada sembri funzionare. Scrivendo questa storia ho imparato quello che devono imparare i rivoluzionari: il bisogno di fare compromessi, le pressioni che esercita l’opportunismo. Spero che i compromessi non abbiano oscurato l’impresa e che continuino a brillare i riflessi dell’ambita gloria.

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