Prologo di «Il Blues del ragazzo bianco» di Paul Beatty

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Certo che questa faccenda del messia è un bel casino. Però è stato così che ho riempito il perenne vuoto nella leadership afro-americana. Non c’è più bisogno che cittadini scazzati di seconda classe usino gli annunci economici del «Sunday» per messaggi tipo:

Cercasi demagogo negro
Requisiti richiesti: capacità di guidare fino alla terra promessa un popolo diviso, oppresso ed emarginato. Indispensabili buone doti comunicative. Stipendio in proporzione alle capacità. Esperienza non necessaria.

Dato che sono un poeta e pertanto esperto in sistemi di coercizione sentimentale, le mie referenze sono eccellenti. Il mio libro, Eumelanina, ha venduto 126 milioni di copie. Ho conquistato l’orecchio degli accademici, dei barboni e dei politici cabalisti. Leader della Comunità Nera? È il lavoro che fa per me.
Non mi hanno fatto fare un colloquio. Sono stato arruolato da 22 milioni di anime disperse come Svengali a tempo pieno e papà adottivo di un popolo di diseredati. Li ho imboccati con una pappa di scemenze, ho svelato l’oblio in cui versa l’esistenza dell’America nera e l’inutilità delle nostre battaglie. Mi hanno ricambiato con un’obbedienza fanatica da gregge. Dovunque io vada, una lunga fila di paperelle nere si accoda a questo bardo plasticoso a molla che sgambetta rapido verso la propria autodistruzione, sulla superstrada dell’informazione e rifiutandosi di controllare se ci sono macchine in arrivo. Se un magnate del cinema comprerà i diritti della mia autobiografia, nella sinossi «TV Guide» farà scrivere:

Nella lotta per la libertà, un giovane poeta ribelle convince i neri americani a rinunciare alla speranza e a uccidersi in un crescendo di furia autodistruttiva. Grandi risate e comicità scatenata. Per le scene di violenza e per il linguaggio usato, il film è adatto a un pubblico adulto.

Perseguendo l’uguaglianza, noi neri abbiamo tentato di tutto. Abbiamo implorato, ci siamo ribellati, ci siamo divertiti, abbiamo praticato i matrimoni interrazziali, eppure ancora ci trattano di merda. Non c’è niente che funzioni, e allora perché mai dovremmo sopportare la morte lenta della tossicodipendenza e dell’etica americana del lavoro, quando abbiamo a disposizione la gratificazione immediata del suicidio? Sfidando gloriosamente l’istinto di sopravvivenza, i Negri sfilano a Hillside, California, come lombrichi. Ogni giorno sollevano verso il cielo sguardi colmi di desiderio, sbirciando lo smog della California alla ricerca del puntino atomico grigio metallo che gradualmente si espanderà fino a esplodere sulle nostre teste, al naturale o trattate. Sarà la Disintegrazione dell’Emancipazione. Pranzi in piedi, posti riservati sull’autobus e toilette per dirigenti possono andare a farsi fottere; il nostro suicidio di massa sarà l’ultimo sit-in.
È tutta qui, l’iconografia completa del Nero Americano, impegnato a fare gli ultimi preparativi per il paradiso all’incirca cinquecento anni dopo essere arrivato in questo purgatorio. Il tizio ben vestito che lavorava nell’ufficio spedizioni dell’azienda, e che, sparando parole a sproposito, cercava di compiacere i vostri paternalistici tentativi di coinvolgerlo in quattro chiacchiere amichevoli, si chiede se per caso ha lasciato aperto il gas e poi gli viene da ridere perché si rende conto dell’assurdità della situazione. L’innocuo ex sindaco democratico della nostra città scrive mediocri versi elegiaci senza accennare minimamente all’assurdità della sua situazione. Quella bella fighetta nera che vi faceva sbavare alle medie durante l’ora di ginnastica va su e giù per l’isolato in cerca di un’altra botta di coca. La donna che vi sedeva accanto tenendosi stretta la borsa mentre aspettavate l’autobus del mattino, e che poi vi ha dato una gomitata dritto nel mezzo del torace per guadagnarsi un posto a sedere, medita di chiamare il suo capo e di coprirlo d’insulti senza farlo neanche fiatare e poi di sbattergli il telefono in faccia proprio mentre quello esplode, dopo aver detto: «Non vengo a lavorare domani. Non sarò altro che una nuvoletta di vapori di carbonio. Schiavista del cazzo».
Il numero del «Time» della settimana scorsa mi ha definito «Il pifferaio nero pezzato». Per quelli dello «US News & World Report» ero «Il capobranco con campanaccio lanciato verso l’harakiri etnico». La storia riporterà il mio nome nella lista dei messia squilibrati seduti nell’atrio dell’inferno a rispondere all’appello del diavolo: Jim Jones, David Koresh, quello che ha guidato la carica della Light Brigade, chiunque sia, Charles Manson, il generale Westmoreland e io. Queste pagine sono le mie memorie, le spoglie di un disertore spaventato abbandonate sul campo di battaglia nell’eterna guerra per la civiltà.

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