Tra sangue, spietatezza e spazzatura: una riflessione sulla periferia di Dario Levantino

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Levantino

Come un film, ma non è un film.

A Palermo, nelle periferie dimenticate da Dio, i cani muoiono, i cani uccidono.

18 luglio 2018, quartiere Villagrazia. All’interno di una abitazione un pitbull strappa letteralmente a morsi il braccio destro ad una ventitreenne. Lei si salva, il braccio no.

25 maggio 2015, quartiere Pagliarelli. I Carabinieri effettuano un blitz all’interno di una rivendita di bombole. Trovano il corpo senza vita di un pitbull sfregiato da ferite profonde. Nella zona vi erano state diverse segnalazioni di combattimenti tra cani.

14 febbraio 2015, quartiere Falsomiele. I Carabinieri fanno irruzione in un cortile scoprendo in flagrante un combattimento tra pitbull. Cinque persone arrestate.

30 gennaio 2015, quartiere Brancaccio. La Polizia scova tre spazi adibiti ai combattimenti clandestini tra cani. Quelli recuperati vivi, tre pitbull e un meticcio, sono incatenati al muro e costretti a vivere tra immondizia e sangue raggrumato; quelli morti, invece, giacciono dentro sacchi neri in un terreno limitrofo.

Prima di scrivere Di niente e di nessuno – in cui racconto la storia di un adolescente cresciuto a Brancaccio – me lo sono chiesto più volte, qual è rapporto fra il degrado sociale e la violenza ferina dei cani. Al riguardo non esiste nessun saggio di sociologia, che io sappia, ma una passeggiata fra le strade di quel quartiere può essere sufficiente per capire due o tre cose.

La prima: quei cani così violenti sono il frutto di un’educazione a suon di bastoni, catena e digiuni. Iniziazione, questa, che certamente si intreccia col carattere indomito dei pitbull.

La seconda: possedere un cane feroce in periferia è un’arma, un’intimidazione vivente al nemico, un messaggio al tuo prossimo perché stia in campana.

La terza, e probabilmente la più allarmante: in un certo sub-proletariato esiste il mito del cane violento, della bestia feroce e devota al padrone, disposta persino a uccidere in nome di quello. Si tratta di un mito che esercita un certo fascino, forse perché è il riflesso di una natura atavica e primitiva dell’uomo, oppure perché è simbolo dell’unica legge vigente in un posto dimenticato dallo Stato: la violenza.

Qui non c’è spazio per l’amicizia fra uomo e cane, né per inutili solidarismi; la fedeltà che viene chiesta a quelle bestie somiglia più ad una schiavitù che ad una sincera corrispondenza. Ne sono dimostrazione i fatti di cronaca, le continue aggressioni, le scommesse e i combattimenti in cui gli stessi cani vengono mandati al macello.

Pasolini quando ha descritto le periferie degradate romane – rispettivamente nei suoi romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta – ha tinteggiato la massa con toni mitici e probabilmente nostalgici, baluardo di una cultura contadina e popolare sempre più minacciata dal perbenismo borghese e dalla globalizzazione. Le sue paure non erano ingiustificate, perché di quel mondo, oggi, si è perduto tanto. Si è perduto il legame con la terra, si è dissolto il dialetto, si è liquefatta la coscienza di classe, i paesaggi sono stati fagocitati dai palazzi di cemento armato ecc. Si è perduto tanto, forse tutto, eccetto il mito della violenza, unica forma di giustizia di un’Italia, quella delle periferie, non integrata e quindi non secolarizzata.

I cani cattivi, i pitbull feroci, rappresentano tutto questo, ne sono un potentissimo simbolo.

Rosario – il protagonista di Di niente e di nessuno – cresce in questo regime di violenza, tra sangue, spietatezza e spazzatura. Un pomeriggio assiste ad un combattimento di cani, e ce lo racconta con l’ingenuità di un ragazzino di periferia: ci racconta di cani lottatori perdenti e lanciati dai palazzi perché ormai inutili; ci descrive il tonfo del loro atterraggio sull’asfalto, i loro occhi liquidi, i loro spasmi, le smorfie della violenza inutile eppure necessaria. L’episodio che narro è ispirato ad una notizia di cronaca del 1999, quando in un quartiere periferico di Palermo i residenti hanno denunciato dei combattimenti di pitbull, organizzati nella terrazza di un palazzo poi sequestrato dal Comune. Non avevo nemmeno quattordici anni all’epoca dei fatti; ero dal barbiere, ricordo l’eccitazione degli avventori nel leggere e commentare tutti i particolari macabri di quella vicenda.

Per fortuna, però, dal letame nascono i fiori. E se è vero che il degrado genera violenza, allora è pure vero che la pietà è nota soltanto agli ultimi, perché ne hanno bisogno. Il protagonista di Di niente e di nessuno è uno di questi, ha bisogno di pietà perché è un ultimo, quindi è capace di provarla, e di prendersi cura di chi è più debole di sé: un cane randagio che diventerà come un fratello.

La nostra società è come una bottiglia di olio d’oliva. In superficie emerge l’olio verde e cristallino, nel fondo si deposita, la posa, simile a fango. Quello è olio sporco, olio cattivo perché non filtrato.

L’uomo nudo è lì.

Capire il fango per capire.

 

Dario Levantino, autore di Di niente e di nessuno.

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