Vi proponiamo la prefazione di Nadia Terranova al romanzo di Fabrizia Ramondino Guerra di infanzia e di Spagna.
Il primo libro di Fabrizia Ramondino che ho letto è stato L’isola riflessa.
Volevo andare a Ventotene e cercavo una storia che vi fosse ambientata; lo faccio spesso prima di partire, annuso l’aria mentre preparo la valigia, non m’interessano le foto o i commenti degli altri viaggiatori, m’importa poco anche delle guide – certo, alcune sono utili –, annoto qualche consiglio che viene da persone di cui mi fido, ma, soprattutto, leggo almeno un romanzo che mi trasporti nella mia meta prima ancora del treno o dell’aereo. Di solito, in questo modo scopro anche una scrittrice o uno scrittore.
Sono nata su un’isola, colleziono libri sulle isole. Ogni anno cerco di visitarne almeno una, anche per tornaconto personale: sulle isole, le scrittrici vedono i fantasmi. Ramondino, nell’Isola riflessa, ne parla esplicitamente, inventa un’atmosfera onirica e realistica nella quale tutto è vero e tutto è sognato: i sussurri della gente del posto, gli spettri del vecchio carcere, l’ombra politica del Manifesto di Ventotene, i venti e l’accalmia, il mare che inghiotte e risputa, circonda, cinge, si fa dolcezza e minaccia. Da quell’incontro è nato il mio amore per lei, per la sua voce riflessa nell’acqua, per quella voce narrante che nell’isola si dissolveva e nasceva, per una scrittrice unica nel panorama italiano. A Ventotene, poi, non ci sono andata subito, ma diversi anni dopo, e quel libro in valigia era ormai all’ennesima rilettura. Dall’incontro con le sue pagine era nato un grande amore.
L’ultimo libro di Fabrizia Ramondino che ho letto è Guerra di infanzia e di Spagna, e di nuovo, con lei e con la sua letteratura piena di libertà, coraggio e meraviglia, sono tornata su un’isola. Stavolta non avevo pianificato nessun viaggio a Maiorca, ma quando ho terminato il viaggio tra le pagine ho compreso di doverci andare davvero, portandomi dietro quelle pagine come un oroscopo per il futuro e il reperto di un tempo passato.
Era dai tempi delle Botteghe color cannella di Bruno Schulz che non leggevo un romanzo così incantato sull’infanzia, fondativo di un immaginario e, insieme, della lingua perfetta per scoprirlo. Guerra di infanzia e di Spagna è una mito-biografia che, dando spazio a una voce bambina, riesce a riscrivere una vita e un pezzo di storia, è un mosaico di narrazioni scintillanti e fantastiche, un turbine di personaggi vividi e incandescenti. Come Schulz, Fabrizia Ramondino trova il centro del suo canto in un altrove letterario che riconosciamo come mitico, colto e fiabesco, non sfrutta i cliché dell’innocenza e non si avvia nella direzione un po’ tetra della colpa, insomma: non valuta l’essere bambini, di per sé, qualcosa di forzatamente allegro né triste. Il suo è un romanzo libero: di solito, se a un minorenne è toccato di attraversare grandi eventi storici, si tende a giudicarlo schiacciato o marginalizzato. Al contrario, qui Ramondino sembra volerci dire che la Storia non esisterebbe neppure senza gli occhi dell’infanzia, perché solo uno sguardo bambino può raccontarla in pienezza, solo gli occhi piccoli sono capaci di leggere l’universale. Non dobbiamo proteggere gli occhi dei bambini, anzi: occorre liberarli e, con rispetto, usarli anche noi. Gli occhi di Guerra di infanzia e di Spagna sono quelli di Titita, figlia del console italiano sull’isola.
Titita ricorda la voce narrante di un altro grande romanzo che parla di infanzia su un’isola durante un colpo di Stato, La tigre in vetrina della scrittrice greca Alki Zei, ormai divenuto un classico: come la piccola Melissa di Zei, anche la Titita di Ramondino mantiene uno sguardo lucido e sognante sugli eventi che scorrono in tempo reale, uno sguardo alieno che più che deformare trasfigura, reinventa. La bambina cerca nelle pieghe del linguaggio ciò che la realtà le nasconde, impara a parlare due lingue, ma per ogni cosa non vede due nomi, bensì due cose distinte: così Fabrizia Ramondino crea un manifesto linguistico-letterario, ci dice esplicitamente che è la lingua a creare il mondo e non viceversa, e che gli occhi dei bambini bilingui possono crearne addirittura due. Mondo fantastico e mondo reale dialogano fra loro, si mescolano e si confondono: non esistono lingue concrete, solo parole che si sovrappongono creando incidenti lessicali forieri di possibilità. Così, le sue pagine che raccontano un mondo di morte sono invece piene di vita.
Anche se Guerra di infanzia e di Spagna è un romanzo per adulti, o meglio per tutti, i fratelli e le sorelle di Titita vanno rintracciati nello spazio anticonformista della migliore letteratura per l’infanzia: Mowgli, Alice, Pel di Carota. Il posto di Titita è tra le bambine selvagge di Rumer Godden e i bambini visionari di David Almond, tra gli irriverenti discoli dickensiani e le folli storie di Maurice Sendak; il suo posto è tra chi vede crescere foreste nella propria stanza, chi non vuole mai andare a letto perché i giorni chiamano a voce troppo alta, chi sa scorgere dietro ogni angolo una creatura piumata, un messaggio in codice, un gioco nascosto. Titita è una principessa insieme decaduta e ascendente, una figlia che flirta con il proprio padre, una preziosa anomalia familiare che punta il dito su ciò che gli adulti sanno solo ignorare.
Con una grazia portatrice di stupore e una ricchezza lessicale meravigliosa, Fabrizia Ramondino è tornata a raccontare di un’isola e dei suoi fantasmi sotto forma di ombra e luci, stavolta per voce di una bambina. Come in un altro suo libro splendido e importante, Althénopis, in cui lo sguardo dell’infanzia taglia in due una Napoli antica e misteriosa, anche stavolta la comprensione del paesaggio è possibile solo se quel paesaggio viene squarciato, divelto, e a compiere il rituale di disvelamento non possono essere gli adulti, perché non ne sono capaci – a meno di non essere narrati in relazione ai piccoli. La strada dell’infanzia non è indolore. L’infanzia è una guerra, lo preannuncia il titolo, sopravvivervi un’impresa: essere bambini significa resistere come rampicanti su un’isola familiare e straniera insieme, destreggiarsi tra il suo richiamo di appartenenza e le sue sirene di allarme. Essere la bambina Titita significa: aspettare le lettere della nonna giunte da un altrove, scoprire come si vive senza specchi e dentro un corpo fatto per trasformarsi, odiare mamita perché ha cacciato la tata ladra, fare la conta dei regali di papito e aspettare la magia dei suoi teatrini, scegliere il maiorchino come lingua segreta e poi decidere di parlare in castigliano come forma di rivolta contro una casa ostile che parla maiorchino, sapere di essere troppo magra per essere mangiata d’amore, imparare a cambiarsi senza spogliarsi del tutto, ad ascoltare senza ascoltare davvero, a parlare senza dare l’impressione di star parlando. Abitare l’infanzia è un’acrobazia, una sfida impossibile. Veniamo tutti da là, ma solo alcune voci baciate dal talento e da una memoria non edulcorante sanno raccontarlo.
Sette anni dopo essere stata deposta in una culla di Maiorca, Titita fa ritorno in Italia. L’abbandono dell’isola mitica dell’infanzia, l’imbarco alla volta di una terraferma su cui si diventerà grandi non possono non ricordare il finale dell’Isola di Arturo. Mentre Elsa Morante sceglie di lasciarci in mezzo al cambiamento, con il suo adolescente a vedere scomparire l’unico luogo in cui abbia mai vissuto e insieme l’unico universo che conosca, Fabrizia Ramondino ci tiene ancora con sé lungo la traversata, fino all’approdo e oltre. Lasciamo Titita sul porto di Taranto, storica città di sbarchi, sulla soglia di una nuova vita, con davanti nuove solitudini, nuove scoperte e nuovi sapori, a partire da quello, tanto agognato da mamita, della mozzarella. La lasciamo sulla terraferma, dove una magia si è conclusa e una distanza si è creata, consapevoli che nulla di ciò che ha narrato andrà perduto. Ci sono romanzi troppo intensi per non essere riletti e Guerra di infanzia e di Spagna è uno di quelli. Voltata l’ultima pagina vorrete ricominciare il viaggio oppure tenerlo vicino per aprire pagine a caso, riscoprire vecchi capitoli come nuovi racconti: va dritto nell’olimpo della letteratura più alta e struggente, quella che vogliamo sempre con noi durante il cammino.
Nadia Terranova