Leggi un racconto inedito ambientato nel mondo di «Weyward»

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In occasione della pubblicazione di Sirene, il nuovo romanzo di Emilia Hart, pubblichiamo un racconto inedito su Violet, una delle tre protagoniste di Weyward.

Una visita al museo

Estate 1944

Violet strizzò gli occhi mentre usciva dalla stazione della metropolitana di South Kensington. Il sole del pomeriggio dorava l’acciottolato della piazza e, in lontananza, la ragazza riusciva a scorgere i tetti dei grandiosi edifici di pietra. Il cuore le si gonfiò di gioia. Dopo ore di viaggio, era a un passo dalla sua meta: il Museo di Storia Naturale.

Le sue spalle, rigide dopo il lungo viaggio in treno, si rilassarono. Aveva provato un’enorme paura mentre la metropolitana sfrecciava nel ventre della città e aveva cercato di non fissare i volti tesi degli altri passeggeri, il soldato con una gamba dei pantaloni che sventolava, vuota e inutile. Aveva iniziato a pensare che la Londra della sua immaginazione non esistesse più. Che i tedeschi l’avessero cancellata a furia di bombardamenti.

Nella Cumbria, la guerra era in bianco e nero, confinata alle pagine dei giornali. Sembrava fatta di assenze: il lattaio il cui cavallo le aveva sfiorato le tasche con il muso, alla ricerca di mele; il figlio del droghiere, chiamato alle armi il giorno del suo compleanno settimane prima. Per la milionesima volta, Violet chiuse gli occhi ringraziando il cielo che suo fratello, Graham, fosse troppo giovane per essere coscritto. Di lì a due anni, quando lei ne avrebbe compiuti venti, sarebbe stata finalmente chiamata a dare il suo contributo. Le sarebbe piaciuto diventare una Land Girl (così erano chiamate le giovani donne che venivano reclutate per lavorare nelle fattorie lasciate dagli uomini che partivano per il fronte, N.d.T.); strappare ortaggi dalla terra fertile facendosi mordicchiare le dita dai lombrichi.

Aveva già capito che per i londinesi la guerra era un’altra cosa. Ce l’avevano scritta in faccia; se la portavano addosso, sulle spalle ricurve.

In quel momento il sole fu coperto da una nuvola e diventò tutto grigio. Violet vide la piazza per quello che era veramente. I negozi – quelli che ancora c’erano – avevano le vetrine sbarrate, oppure avvisavano la clientela della penuria di merci. Niente carne fino a lunedì, diceva un cartello. Un piccione solitario beccava tra le macerie. Un lampione in ferro battuto, il metallo deformato dal calore, indicava il cielo come una mano.

La paura tornò e i palmi delle mani le si ricoprirono di sudore. Adesso era tutto a posto, si disse. Il Blitz era finito. S’infilò una mano in tasca e sfiorò la piuma setosa del corvo per rassicurarsi. Nell’altra tasca aveva un uovo sodo della sua gallina (Emmeline, in onore della Pankhurst) e i soldi che le servivano per il biglietto di ritorno.

Quei soldi erano il regalo per i suoi diciotto anni da parte di Graham. Così potrai finalmente vedere quei tuoi dannati insetti, le aveva scritto da Harrow.

E quello era esattamente ciò che avrebbe fatto. In fin dei conti, era arrivata fin lì.

***

Quando Violet svoltò su Cromwell Road, aveva ormai i piedi piagati dalle scarpe. Le stringate di pelle si erano logorate nel tempo che era trascorso da quando aveva lasciato Orton Hall. Per ben tre volte aveva dato al calzolaio un cestino pieno delle preziose uova di Emmeline in cambio di suole nuove. Se solo l’artigiano fosse stato in grado di impedire ai suoi piedi di continuare a crescere, pensò con un pizzico di malinconia.

Prima di andare a vivere al Weyward Cottage, Violet non aveva mai dovuto pensare davvero a cose come i soldi o le tessere annonarie. Il giardino le riempiva la pancia ed era piuttosto brava a tenere a bada i parassiti – adesso la soffitta ospitava una colonia sempre più numerosa di tarli dei tappeti e pesciolini d’argento – ma qualche volta, quando di notte il vento ululava infilandosi nel camino, si faceva prendere dalla preoccupazione. Che non sarebbe mai riuscita a permettersi un impianto idraulico come si deve, per non parlare delle rette universitarie.

Ignorando le lacrime che le riempivano gli occhi, s’impose di stare su. Si sfiorò la collana, pensando a sua madre. La cosa importante, ricordò a sé stessa, era che aveva la libertà. E quello valeva più di tutti gli impianti idraulici del mondo.

Un autobus a due piani le passò accanto rombando, sgargiante di réclame. Violet lo osservò mentre si fermava per lasciar scendere una serie di donne ben vestite. Erano civili – aveva visto varie Wren in metropolitana, impeccabili con le divise blu mare – ma comunque sembravano in pendant con i loro tailleur e i victory rolls. Molte di loro portavano borse di pelle. I tacchi delle loro scarpe ticchettavano sul marciapiedi mentre si disperdevano, efficienti come formiche. Si stavano senz’altro affrettando per andare a svolgere lavori cruciali per lo sforzo bellico. Nonostante tutto l’orrore la guerra aveva portato con sé una nuova era. Un’era in cui le donne potevano fare (quasi) tutto quello che potevano fare gli uomini. Violet aveva letto che alcune di loro pilotavano addirittura aerei.

Quel pensiero la rincuorò, tanto che il resto del tragitto fino al museo non le sembrò più così tetro. Dopo un po’ ci si abituava a tutti i crateri. Violet fu sollevata dalla vista di una fronda verde che spuntava arricciandosi da un ammasso di macerie; una farfalla che passava svolazzando.

E poi raggiunse la sua meta. Il Museo di Storia Naturale si ergeva davanti a lei in tutta la sua magnificenza di arenaria, sormontato dalle guglie come una cattedrale. Mentre saliva i gradini che portavano all’ingresso le tremavano le gambe.

Ferma sulla soglia, quasi non osava respirare. Si sentiva come se fosse in procinto di incontrare il Re, o forse Dio. Una folla di scolaretti le passò accanto. «Allora, bambini», stava dicendo l’insegnante esasperata, «il museo potrebbe essere un po’ diverso rispetto a come ve lo ricordate…».

Violet rimase a bocca aperta quando entrò nell’atrio silenzioso. Capì subito che cosa aveva voluto dire l’insegnante. Nel punto in cui si aspettava di vedere il celebre Diplodocus carnegii, in tutta la sua maestà giurassica, non c’era altro che un piedistallo vuoto.

Un addetto del museo incrociò il suo sguardo e le rivolse un sorriso triste. Ma certo. Violet aveva letto sul giornale di papà – anni prima – che il governo di Sua Maestà aveva provveduto all’evacuazione dei reperti di interesse nazionale. A quanto pareva erano stati portati al sicuro in residenze di campagna e tenute sparse in tutto il Paese. (Una volta, a colazione, aveva chiesto a papà se non potessero offrirsi di ospitare uno di quei reperti a Orton Hall. Lui aveva sputato il tè sulle aringhe affumicate.)

Be’, non importava. Purché non avessero portato via gli…

«Posso aiutarla, signorina?».

Era l’addetto anziano, che la guardava al di sopra degli occhiali a mezzaluna.

«Ehm… sì», rispose lei. «Mi chiedevo se potesse indicarmi dove sono gli insetti».

***

Violet salì l’imponente scalinata e girò a destra. Mentre passava accanto ad altri piedistalli vuoti le si strinse il cuore, ma si risollevò ancora una volta quando arrivò davanti alla vetrinetta che ospitava una volpe artica. Si accovacciò per salutarla: aveva uno sguardo estremamente vivace, gli occhi brillanti come gemme. Il pelo bianco scintillava, come se fosse ricoperto dal ghiaccio della tundra gelata. Il vetro era stato rimosso e, dopo aver controllato che non ci fosse nessuno, Violet allungò una mano per sfiorarla. Ululò di sorpresa e dolore quando ritrasse le dita e le trovò imperlate di sangue.

E a quel punto capì. Il vetro non era stato rimosso, ma era andato in frantumi durante i raid. Alcuni frammenti erano ancora in mezzo ai peli della volpe.

Un brutto presagio le gravò sullo stomaco e le fece formicolare la pelle. Quella sensazione le era familiare. Si portò la mano non ferita alla guancia, sfiorandosi la leggera cicatrice lasciata da una puntura d’insetto due anni prima.

Accelerò il passo, tanto che quando arrivò alla collezione di imenotteri stava ormai ansimando. A quel punto si rallegrò: la luce del sole entrava da un lucernario e inondava la sala, scintillando sugli esemplari. In fondo alla sala la pelliccia ambrata di un bombo americano; un po’ più in qua una piccola vespa dalle ali iridescenti. Ce n’erano tantissimi… troppi per poterli osservare tutti con calma. Violet avrebbe voluto restare lì per ore; idealmente, per sempre.

Un calabrone gigante catturò la sua attenzione e così attraversò la sala per ammirarlo. Il suo sguardo si appuntò ansioso sulle ali scintillanti, l’addome a strisce, gli steli delicati delle antenne. E sì, quegli occhi! Erano proprio come gli occhiali di un aviatore.

Violet sorrise tra sé e sé per il paragone, ma poi, ancora una volta, eccolo lì: quello strano peso sullo stomaco.

C’era qualcosa di diverso; di sbagliato. Non c’era nessun suono: anche il silenzio sacrale del museo era scomparso, rimpiazzato da uno strano nulla. Un’assenza.

La vetrina del calabrone gigante tremò e poi s’infranse sul pavimento.

Violet si chinò per raccoglierlo e, mentre lo faceva, calò l’oscurità. Il rumore che era stato momentaneamente risucchiato via tornò; un migliaio di vespe che le ronzavano nelle orecchie. I muscoli della sua gola si mossero, ma Violet non riuscì a sentire il grido che le stava uscendo di bocca.

E a quel punto non ci fu più nulla, nulla a parte il ronzio delle sue orecchie. La polvere le ricoprì le ciglia. Stringendosi al petto il calabrone gigante si rialzò in piedi. Alle sue spalle – nel punto in cui si era fermata a osservare il bombo americano solo qualche istante prima – c’era un mucchio di macerie. Se la sua attenzione non fosse stata catturata dal calabrone, ne sarebbe rimasta schiacciata.

Doveva uscire di lì. A tentoni avanzò lungo il corridoio. La scalinata, quando finalmente la trovò, era intatta. Una sirena ululava in lontananza.

Più tardi avrebbe scoperto che i tedeschi avevano lanciato un missile V1 su South Kensington. Il Museo aveva subito dei danni, ma sarebbe rimasto in piedi, così come per il resto della guerra – e poi, sperava Violet, per sempre dopo di allora – custodendo i suoi tesori per le generazioni future.

In quel momento, però, c’era soltanto la polvere sottile dell’intonaco che le si posava sulla pelle, sbiancando il volto dell’addetto del museo, il capannello di scolari che si ritraevano all’esterno.

Quando fu al sicuro, per strada, tossì, espellendo la polvere che le si era accumulata nei polmoni. Sono viva, pensò. Sono viva.

Si rese conto che stava ancora stringendo al petto il calabrone gigante. La custodia di vetro era incrinata, ma a parte quello era ancora intatta. All’interno le ali del calabrone scintillavano.

«Grazie», sussurrò accarezzando il vetro.

Se la infilò in borsa e andò verso la stazione della metropolitana.

(traduzione di Enrica Budetta)

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