Abbondanza ed equilibrio. La traduzione dei romanzi di E.J. Howard e, in particolar modo, di «Cambio di rotta»

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In occasione dell’uscita di Cambio di rotta, abbiamo chiesto alla traduttrice Manuela Francescon di raccontarci il suo rapporto con la scrittura di Elizabeth Jane Howard.

 

Il primo romanzo della Howard che ho tradotto è stato The long view, Il lungo sguardo. Era il 2013. Ricordo bene la sfida che ha rappresentato per me la sua prosa densissima, carica di sottigliezze e sfumature. Una scrittura che non rinuncia a nulla, pensai già allora, che in un movimento solo – una testa che si volta, il gesto di buttare nel fuoco un pezzo di carta o quello di accendersi una sigaretta – vuol farci stare proprio tutto. Elizabeth Jane Howard ci conduce lungo il filo intricato delle riflessioni di Mrs Fleming lanciandosi nelle convoluzioni più astruse, e senza batter ciglio (ma anche, va detto, senza ombra di pretenziosità) ci aggiunge pure incisi, note di colore, effetti di realismo che, mentre siamo lì a lambiccarci sulla complicata psicologia di questa novella Clarissa, ci ricordano che la suddetta si trova in un salotto elegante, dove si aggirano camerieri deferenti, signore a cui non sfugge nulla e giovanotti che le rivolgono occhiate di fuoco.

Il lungo sguardo fu scritto nel 1956 da una Howard poco più che trentenne ed è senza dubbio il suo romanzo più ambizioso dal punto di vista letterario. Cambio di rotta lo segue di soli tre anni, essendo uscito nel 1959. Con questo libro a me sembra che la Howard abbia compiuto un passo decisivo verso la sua voce più autentica e che sia riuscita a mettere a fuoco quelle che saranno le tematiche e le figure chiave di tutto il suo lavoro futuro. Forse le ambizioni sono più contenute rispetto a Il lungo sguardo, ma è anche vero che qui la scrittrice si libera di certe rigidità che non si addicono alla sua prosa, soprattutto nei dialoghi molto teatrali e un po’ manierati che ci sono nel romanzo precedente. In Cambio di rotta troviamo le esperienze di Jane nel mondo del teatro e in quello dei salotti; troviamo, forse, anche qualche luogo comune in più, un gioco che delle coppie che può sembrare scontato (e in virtù del quale, forse, il “Guardian” ha definito questo romanzo her least satisfactory novel, il meno riuscito fra quelli che ha scritto), ma in cambio troviamo personaggi che interagiscono in modo più dinamico, relazioni che danno luogo a scoperte e novità, a cambi di rotta appunto.

Ma il bisturi della scrittura, lo scandaglio con cui la Howard esplora l’animo dei suoi personaggi, soprattutto femminili, quello è sempre affilatissimo. Così come lo è la precisione delle descrizioni, la sottigliezza dei distinguo, la capacità di indugiare su una sensazione scomponendola con pazienza da entomologo. Eppure la pagina della Howard, in questo come negli altri romanzi, mantiene un equilibrio cristallino, un’eleganza impeccabile. La descrizione che ho fatto nelle righe sopra si presta a una facile sintesi: una prosa ridondante. Eppure non è così. Non si rinuncerebbe a un solo avverbio, a un solo inciso, di quelli che la Howard inanella con una maestria tutta sua. Ecco, appunto, tutta sua.

Come mantenere, nella mia traduzione, questa abbondanza di sollecitazioni e nel contempo l’equilibrio e l’eleganza? Chiunque si sia avvicinato a questo mestiere, sa che il traduttore ha familiarità con il concetto di perdita, una familiarità ben sintetizzata dal titolo di un famoso film del 2003 che poi parlava di tutt’altro. È un fatto che, quando traduciamo, spesso dobbiamo sacrificare qualche aspetto del testo, perché il materiale con cui lavoriamo, ovvero la nostra lingua, non sempre ci consente di far stare tutto insieme a tutto; e non mi riferisco solo a ciò che nel testo è esplicito e referenziale, ma anche ai livelli metatestuali, ai significati nascosti, ai rimandi e alle allusioni che nell’originale costituiscono un’alchimia inseparabile dalla lingua in cui sono scritti. Insomma, sappiamo che qualche rinuncia dovremo farla. La cosa importante, per me, è rinunciare in maniera consapevole e non casuale o superficiale, identificando di capitolo in capitolo, di paragrafo in paragrafo, di frase in frase, gli aspetti del testo che, nell’economia generale del libro e anche in relazione alle scelte di traduzione che ho fatto fino a quel momento, sono da considerare dominanti.

Quando traducevo Il lungo sguardo mi ritrovavo continuamente – e dolorosamente! – a dover constatare che non riuscivo a far stare insieme l’abbondanza e l’equilibrio. E quindi s’imponeva di frequente la necessità di scegliere. Gli aggettivi spesso, nella mia versione in italiano, erano troppi, certe frasi facevano pensare a tavoli lunghi metri e metri con tre sole gambe, gli incisi creavano confusione o rallentavano il ritmo. E allora qualche aggettivo si doveva sacrificare, al tavolo andava aggiunta una gamba riducendo magari la carica evocativa o straniante della sintassi originale, l’inciso di troppo andava trasformato in una frase coordinata o subordinata, rinunciando così alla velocità e all’apparente casualità con cui l’autrice aveva voluto inserirlo… ciò che con la voce della Howard funzionava con perfetta naturalezza ed eleganza e che sortiva un evidente impatto estetico, con la mia voce risultava incerto, traballante, zoppo, bisognoso di continui piccoli aggiustamenti per poter stare in piedi. Ovvero, fuor di metafora, di numerose revisioni, ritorni sui miei passi, un gran lavoro di lima per avvicinarmi il più possibile alle caratteristiche estetiche dell’originale. Fu una cosa frustrante.

Mi sono sempre piaciute le scritture debordanti e cumulative, che non temono le digressioni e sfruttano tutte le potenzialità della sintassi, ma bisogna dire che prima della Howard non avevo mai tradotto questo genere di romanzi. Con le opere successive è diventato sempre più facile, la mia voce è andata sintonizzandosi con quella dell’autrice, non mi scontro più così spesso con la difficoltà di mantenere il giusto equilibrio e conservare la ricchezza semantica del testo, perché a forza di leggerla e tradurla sono entrata nella logica interna della sua scrittura, ho assimilato la sua economia narrativa e, se compio una rinuncia, ho quasi sempre la certezza di poterlo fare senza troppi rimpianti, perché sono ragionevolmente sicura di aver reso i significati più importanti, quelli dominanti, del passo in questione.

Ecco, con Cambio di rotta è andata così: i due personaggi femminili, Lillian e Alberta, è un po’ come se li conoscessi da anni perché corrispondono agli archetipi femminili dell’immaginario della Howard: la donna confusa e infelice che ha fatto un uso autolesionistico della propria bellezza e la ragazza innocente e appassionata come la giovane Clary Cazalet, trasparente, profondamente seria, più interessata ai libri che alla mondanità. Le due donne parlano in prima persona nei capitoli a loro dedicati, e i loro diversi punti di vista determinano anche lo stile, il ritmo, il tono dei rispettivi capitoli: se in quelli narrati dal punto di vista di Lillian prevalgono un tono amaro, un registro alto e di tanto in tanto una certa oscurità e tendenza all’ellissi, nei capitoli dove la voce narrante è quella di Alberta il registro è più colloquiale, spesso c’è un interlocutore diretto ed esplicito perché (non a caso) si tratta di lettere indirizzate ai suoi familiari, il colore emotivo dominante è lo stupore e i sentimenti sono espressi in modo semplice, senza sottintesi e non detti tra le righe.

Poi ci sono i capitoli narrati dal punto di vista dell’assistente tuttofare Jimmy Sullivan: anche lui parla in prima persona e i suoi resoconti sono all’insegna di un forte pragmatismo e anche di una certa ironia, soprattutto quando riferisce i travagli esistenziali della coppia per cui lavora, Lillian ed Emmanuel. Alla voce molto americana e no-nonsense di Jimmy è affidata gran parte del racconto, chiamiamolo così, oggettivo: i personaggi di contorno, le ambientazioni, i molti spostamenti, tutti quegli elementi di realismo senza i quali il romanzo perderebbe il suo impianto naturalistico e ci troveremmo di fronte a un informe flusso di coscienza a quattro voci. La sua voce è sbrigativa, tagliente, indugia solamente sulle descrizioni di alcuni personaggi secondari: poche pennellate rapide ed efficaci.

Infine, il personaggio di Emmanuel è quello che più mi ha dato da pensare: i capitoli dedicati a lui, in marcata discontinuità con gli altri, sono narrati in terza persona, come a segnalare una maggiore distanza o una inavvicinabilità del personaggio, che impedisce una completa immedesimazione. Lo vediamo uscire (o meglio, fuggire) di casa e salire su un autobus a caso, per poi sprofondare in lunghe, bellissime rievocazioni della sua infanzia e del suo apprendistato in teatro. La voce di Emmanuel è la più pensosa, analitica, la più incline a problematizzare i fatti. Tende a usare un registro alto, cita di tanto in tanto filosofi e scrittori. È un drammaturgo: spesso, nei capitoli di cui è protagonista, il racconto si raggruma, si trasfigura, diventa simbolico. La sua è la voce più letteraria del romanzo.

Quel che ho cercato di fare, traducendo in italiano Cambio di rotta, è dare conto di tutte queste diverse voci, riconoscendone e riproducendone la lingua, il ritmo e anche certe piccole idiosincrasie. Ho cercato di essere un sismografo sensibile, capace prima di tutto di sentire queste specifiche vibrazioni e poi di provare a ricrearle sulla pagina, in italiano. Spero di esserci riuscita, almeno in parte.

 

Manuela Francescon

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