Barry Lyndon: nascita, fortuna, e (imprevista) innocenza del personaggio moderno

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In occasione del quarantesimo anniversario del maestoso film di Kubrick, tornato nelle sale italiane in una speciale versione restaurata, trovate in libreria il capolavoro di William Thackeray, Le memorie di Barry Lyndon, un classico intramontabile della letteratura occidentale.
Ecco a voi un estratto dall’introduzione di Tommaso Giartosio.

 

Le Memorie di Barry Lyndon danno la parola a una canaglia in buona fede. Al di là dell’indubbio valore d’intrattenimento del racconto, al di là del fascino della ricostruzione storica, è la scelta di questo punto di vista che ha fatto giungere il libro fino a noi. William Makepeace Thackeray lo scrisse sulla traccia di alcuni precedenti: il Jonathan Wild di Fielding, che racconta le avventure di un truffatore; altre opere della cosiddetta literature of roguery, la letteratura delle canaglie; e più in generale, il romanzo picaresco. Ma Barry Lyndon conserva un sapore tutto suo, perché la particolare prospettiva dell’eroe richiede al lettore uno sforzo interpretativo i cui risultati non sono affatto scontati. Non leggiamo la confessione umile o sfrontata di un criminale, ma l’autobiografia di un uomo che si crede onesto, anzi benemerito. Ogni frase può venir letta in modo diverso a seconda del credito che vogliamo dare al narratore. Se Thackeray ci fa capire fin dall’inizio, con le spropositate vanterie di Barry sulla sua nobile stirpe, che non dobbiamo prendere in parola tutto ciò che il suo eroe dice, ci lascia però la libertà di decidere fino a che punto credergli. Perciò le reazioni della critica e del pubblico sono state, nel corso degli anni, diversissime. Per i contemporanei Barry Lyndon era un’opera gravemente immorale. Nel corso della pubblicazione a puntate sul «Fraser’s Magazine» nell’anno 1844, Thackeray dovette aggiungere via via delle note esplicative in cui l’immaginario curatore Fitz-Boodle prende le distanze dal racconto di Barry e fornisce versioni “oggettive” dei fatti narrati, accusando il narratore di averli deformati. La progettata edizione in volume venne comunque accantonata per dodici anni. Quando finalmente uscì, le note di Fitz-Boodle erano in buona parte scomparse (restituendo all’opera il suo vero significato); eppure nei suoi ultimi anni Thackeray ancora sconsigliava il libro alla figlia Anny. Queste polemiche e queste riserve, che ammantano Thackeray di una bizzarra aura celiniana, possono farci sorridere. Ma anche i lettori moderni di Barry Lyndon descrivono il protagonista situandosi su ogni punto dello spettro che va dalla ripugnanza alla simpatia. E ciò che più conta, nei giudizi sul romanzo ricorre una categoria essenzialmente (e paradossalmente) non estetica, la gradevolezza: è gustoso, questo libro, o non è neppure digeribile? «Le Memorie di Barry Lyndon sono molto piacevoli da leggere. Non c’è nulla di scioccante o disgustoso», scrive Trollope. «Non c’è qualità d’arte che possa rendere gradevole al lettore medio un racconto simile», ribatte Leslie Stephen. E Theodore Martin parla dell’esperienza quasi claustrofobica di chi si lascia prendere dalla vivacità della storia solo per ritrovarsi imprigionato in compagnia di «libertini e truffatori, bari e ruffiani». Evidentemente qualsiasi lettura di Barry Lyndon ha come premessa necessaria l’esperienza di una inquietante introiezione, un coinvolgimento.
Più che le avventure dei picari o dei rogues il romanzo può ricordare – in quanto audace sperimentazione sulle potenzialità del punto di vista narrativo – Il castello Rackrent di Maria Edgeworth, o il più tardo Ciò che Maisie sapeva di Henry James. Ma in queste opere la prospettiva, rispetto a Barry Lyndon, è rovesciata: invece di un mascalzone parla una creatura ingenua e angelica (il servo Thady, la piccola Maisie) che fraintende sistematicamente le malefatte di coloro che hanno potere su di lei. Tale contesto ci invita, ovviamente, a interpretare i fatti narrati nel senso più negativo, e questo in conseguenza della radicale polarizzazione etica. Barry invece non è un cattivo-cattivo. È coraggioso, generoso, pronto a mescolarsi a gente di ogni ceto; nutre un amore timoroso per sua madre, rispettoso per suo zio, e tenerissimo per suo figlio. Tutte queste virtù sono in parte manifestazioni di ambizione, vanità e snobismo, ma appunto per questo vanno a formare l’immagine di un uomo completo che ci affascina forse meno per i suoi tratti positivi, sempre macchiati di motivazioni perlomeno dubbie, che per la straordinaria energia che mette nel vivere la sua vita: vita fatta di luci e di ombre, ma sempre ben sua. Questa felice mancanza di manicheismo nella caratterizzazione di Barry lo distingue dagli eroi di Edgeworth e James. Del resto Thackeray stesso, nel primo accenno al romanzo che ci sia giunto (in una lettera del 1841), dice di aver trovato «materiali (anzi un personaggio) per una storia». Barry è questo: un vero personaggio; per questo si torna sempre a interpretarlo.
Barry Lyndon è anche il libro di una solitudine. Non a caso è stato faticosamente composto in un periodo particolarmente difficile della vita di Thackeray: a vecchie sciagure – due carriere fallite (di avvocato e di pittore), un piccolo patrimonio sperperato tra cattivi investimenti e gioco d’azzardo, una moglie rinchiusa in manicomio, tre figlie mandate a vivere con la nonna paterna a Parigi – si aggiungeva ora la crescente frustrazione di uno scrittore che per quanto ben noto tra i lettori del «Fraser’s» e del «Punch» non riusciva a passare nei ranghi della letteratura ufficiale, come Dickens aveva già fatto molti anni prima. Ma al di là di questi dati biografici (che pure hanno il loro significato) c’era in Thackeray una solitudine più radicata, una malinconia prestabilita: diciamo pure un’alienazione. È a lui, più ancora che a Barry, che ci fa pensare il protagonista dei Ricordi del sottosuolo. J.Y.T. Grieg ha descritto Thackeray come un uomo e uno scrittore self-conscious: malato cioè di un’autocoscienza che è imbarazzo, impaccio. Ma la self-consciousness è anche incapacità di definire chiaramente le proprie possibilità e i propri confini: l’io non è un territorio ben definito, riportato su mappe rigorose, ma uno spazio sfumato che non fa che approfondirsi e sprofondare. Ecco allora l’incapacità di farsi carico, senza una buona dose di ironia, delle responsabilità del narratore onnisciente. Ed ecco anche l’importanza di Barry Lyndon, primo vero romanzo di Thackeray, preludio (o antifona apotropaica) di quell’opera straordinaria che è La fiera delle vanità, e infine opera riveduta verso la fine della carriera letteraria, quando (nel 1856) all’autore resta solo un romanzo importante da scrivere, I virginiani, in cui Barry compare un’ultima volta. Barry Lyndon è il romanzo in cui l’io si scopre pieno di trabocchetti imprevedibili e insondabili; è il romanzo (e in questo esso è più profondamente dostoevskiano) che non esiste in sé, ma solo nell’interpretazione che il lettore non può evitare di correre il rischio di dare. È il romanzo dell’avventura di leggere un romanzo.

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Il Barry Lyndon cinematografico di Stanley Kubrick è apparso nel 1975. Si tratta, naturalmente, di una intelligentissima variation sur le thème – inutile perdere tempo con discorsi del tipo «È meglio il libro o il film?». Ma nel film il discorso sul personaggio tracciato in queste pagine giunge a una conclusione spaventosamente coerente. Si può immaginare il problema di Kubrick: il romanzo di Thackeray risulta tanto efficace grazie alla sua risoluta scelta soggettiva; come trasporlo (lasciamo perdere, per ora, il perché) in un medium che ha prima di tutto la caratteristica di presentarci immagini della realtà? Come salvare il principio vitale del romanzo, l’ambiguità? Kubrick compie subito una scelta che spoglia ulteriormente il racconto di ogni prospettiva personale. Non basta che le immagini della vita di Barry siano tutte lì, davanti ai nostri occhi; al narratore in prima persona si sostituisce un narratore in terza persona, che inoltre recupera dal «Fraser’s Magazine» la divisione del romanzo in due parti, l’”ascesa” e la “caduta”. Le ambivalenze del testo di Thackeray vengono però recuperate in altro modo. C’è la fotografia, perfetta, patinata, da cartolina; ci sono le inquadrature geometriche, simmetriche, quasi bidimensionali; ci sono due attori come Ryan O’Neal e Marisa Berenson, che sembrano scelti per la loro capacità di non esprimere. Inoltre Kubrick ritocca la trama. Il cavalier de Balibari non è più zio di Barry, cosicché la scena in cui Barry lo incontra e gli rivela piangendo la propria identità può venire interpretata come un abile trucco per farsi amico un uomo che può servire per fuggire da Berlino. Più avanti, Kubrick inventa un duello tra Barry e Bullingdon in cui il primo si comporta da eroe – proprio quando sembrava scaduto al colmo dell’abiezione. Da questi diversi meccanismi filmici e narrativi risulta un oggetto cinematografico assolutamente gelido, «un film sulla Storia come vista da 20 chilometri d’altezza», ma forse ancor più un film sul Potere, oppure (come scrisse Arbasino) sulla Teoria della Letteratura. La storia di Barry rimane aperta all’interpretazione del lettore non perché non si sappia (come accade nel romanzo) quanto ci sia di vero e quanto di falso, ma perché è tutto vero, tutto è ben dispiegato davanti ai nostri occhi, ogni gesto umano presentato nella sua nuda luce (grazie a una pellicola speciale Kubrick non fece mai uso di riflettori) e lasciato a confermare o contraddire ciò che lo segue o lo precede. L’atto di immedesimazione e d’interpretazione si compie non accettando o meno un punto di vista, ma come riempiendo un modulo burocratico – un’imposizione del Potere, appunto. Non ci sono personaggi, non ci sono prime persone; non ci sono persone. È curioso notare che le reazioni della critica furono negative quanto quelle che colpirono a suo tempo Thackeray. Ma l’opera di Kubrick viene attaccata non perché immorale, ma perché inespressiva. E sta qui, evidentemente (ma è una ben triste evidenza), la sua autentica forza, come pure il motivo della scelta di confrontarsi con Thackeray, che aveva introdotto nel romanzo l’ipotesi di una valutazione morale più complessa. Il Barry Lyndon di Kubrick rinuncia all’alibi di un altrove: il Settecento è oggi; ma è un luogo in cui la questione non è se sia possibile agire moralmente, ma se sia possibile esprimersi.

 

Tommaso Giartosio

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