Eureka Street (Incipit)

•   Il blog di Fazi Editore
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Tutte le storie sono storie d’amore.
Venerdì sera. Sei mesi fa (Sarah se n’era andata da sei mesi). In un pub.
Stavo facendo la corte a una cameriera di nome Mary: capelli corti, culo a mandolino e due occhioni da bambino infelice. La conoscevo da tre ore e avevo già perso la testa per lei.
Chuckie Lurgan si era tolto dai piedi da una mezz’oretta, dopo aver beatamente ignorato almeno venti minuti di cenni impazienti da parte mia e non prima di aver elegantemente dato fondo al contenuto delle sue tasche e all’ultimo goccio di birra.
Mary era una delle tante cameriere del pub, ma aveva fatto in modo di farsi notare. Inizialmente sembrava non le andassi a genio. Forse un altro al mio posto avrebbe sospettato che lo facesse per attirare la mia attenzione, ma io no, io avevo semplicemente pensato che avrebbe preferito vedermi morto e non mi era neanche passato per la testa di chiedermi il perché. Era ostile, scontrosa, e ispida come un porcospino. Sono sicuro che aveva capito che così mi avrebbe fatto innamorare. Ne sono proprio sicuro.

Dopo un po’ si era addolcita, e ogni volta che ci portava un’altra birra faceva una battutina. Alla fine, quando ero rimasto solo, non appena aveva un attimo veniva a sedersi al mio tavolo. Era scattato qualcosa. Si vedeva da come mi guardava, con lo sguardo un po’ obliquo, pensoso e remoto, e da come piegava la testa quando rifiutava una sigaretta da me e ne accendeva una delle sue. Pensavo di avere fatto colpo e di non potermi più esimere dall’accompagnarla a casa.
Del resto, il modo in cui mi guardava lei non doveva essere nulla in confronto a come la stavo guardando io. Mi sembrava di averlo scritto in faccia.
Una scena classica: eccomi lì, in un pub tradizionale irlandese, a fare il cascamorto. Ma anche se mi piace atteggiarmi a grande amatore, quando è ora di arrivare al dunque non mi vengono le parole e mi vanno a fuoco le orecchie. Così, mentre farfugliavo qualche frase inconsulta, Mary mi chiese se l’accompagnavo a casa.
Rimanere lì seduto ad aspettare la chiusura si rivelò un’esperienza molto meno simpatica di quanto mi sarei immaginato. Fissavo imbarazzato la mia pinta di birra cercando di ignorare le risatine delle cameriere, mentre un grosso buttafuori protestante si sfilava la giacca e arrotolava le maniche della camicia per dare aria a una sfilza di tatuaggi dell’UVF. Mentre spazzava cercò di attaccare discorso, ma io avevo troppa paura di lasciarmi scappare qualche commento che gli avrebbe fatto capire che non ero un lealista protestante. Mi sforzai di far finta di niente e cercai di pensare a Sarah. Non ci riuscii.
Credo fosse la prima vera notte di primavera e un dolce vento tiepido mi risollevò il morale quando finalmente uscimmo da quel pub. Ignorai il mio catorcio di macchina e proposi a Mary una passeggiata.
Con quel suo abito mozzafiato e le calze velatissime, sembrava una vera dark lady. Non ero abituato a ragazze così ed ero un po’ in imbarazzo, ma poi, quando sorrise, non potei non ammettere che era proprio carina. Si mise a raccontarmi del suo lavoro, infervorata. Mi sforzavo di ascoltarla, ma continuavo a distrarmi mentre il vento giocava con i miei capelli. Ma mi faceva piacere che parlasse, mi piaceva il suono della sua voce.
«Che lavoro fai?», mi domandò mentre attraversavamo Hope Street.
Sorrisi. «Mah, varie cose. Al momento mi occupo di consulenza per il recupero crediti». Non ero stato granché sincero.
«Interessante», commentò lei.
Ecco cosa succede quando si mente. Se non ti credono ti vergogni di te, se lo fanno ti vergogni per loro.
C’era un posto di blocco all’imbocco di Lisburn Road. Mentre passavamo, un poliziotto salutò Mary chiamandola per nome. Fui irritato. Ero ancora abbastanza cattolico e proletario perché la cosa non mi andasse giù.
«Viene ogni tanto al pub», disse Mary dopo. Il suo tono di scusa dimostrava che doveva aver capito a cosa stavo pensando. Anche quello non mi andò giù.
La strada in cui abitavo la colpì: c’erano così tante foglie, e così tanto verde. Le piacque persino il nome: Poetry Street. Non era sempre un buon segno quando a qualcuno piaceva quel nome, via della Poesia. Rimase affascinata dalla mia casa: tutti quelli che ci vengono pensano che io sia pieno di soldi. Osservò tutti i mobili e i quadri scelti da Sarah con il suo gusto impeccabile e questo fece sì che le piacessi ancora di più. Accarezzando gli scaffali della libreria, mi sorrise come se fossi un intellettuale.
Preparai un litro di caffè: fu colpita anche da quello.
«Che bella casa!», disse.
Non sapevo se mi piaceva unicamente il suo visino o anche il resto, ma di certo me la sarei portata a letto. Mi sentivo solo quella sera, senza una donna. In realtà non era al sesso che pensavo, ma a una colazione a due, a una mano che mi accarezzasse la schiena nel buio, ai capelli di una donna sul cuscino. Mi mancavano i piccoli segni della presenza di una compagna. Mi mancavano le tracce di Sarah.
«Sei in affitto o è tua?», mi chiese.
Non so quale sia stata la mia espressione, ma di certo la mia reazione la fece rimanere male. Mary spalancò ancora di più gli occhi e le cominciarono a tremare le labbra. Non sopportavo la gente che faceva così: prima se ne uscivano con una frase del cavolo e poi, se mi accigliavo, mi guardavano come bambini spauriti.
«Scusa», disse subito. «Era una domanda stupida».
Non negai, ma mi resi conto che non potevo fare l’amore con lei. Ho una limitata esperienza in questo campo e quindi non so bene perché, ma faccio sempre fatica ad andare a letto con una donna quando mi rendo conto di non avere davanti soltanto un bel corpicino. Fare l’amore con una ragazza è stupendo, farlo con una persona invece è un po’ più complicato. Forse non andava neanche bene, ed era soltanto un segno di immaturità, ma forse dimostrava anche una certa sensibilità da parte mia.

Mi alzai in piedi il più gentilmente possibile. Anche lei si alzò. Non c’era niente da dire e ben poco da fare. Non sapevo come dire che avevamo commesso un grosso errore. Mi avvicinai e lei si raddrizzò e sollevò il viso incerta. Forse pensava che stessi per baciarla. E in quel momento lo desiderai, ardentemente.
«Devo andare», dichiarò cogliendomi di sorpresa.
Il taxi ci mise venti minuti ad arrivare. Chiacchierammo un po’. Ero stranamente felice del fatto che avesse pensato che in fin dei conti non le piacevo e non avesse esitato a porre rimedio allo sbaglio commesso. Le dissi di Sarah e lei mi parlò del suo ragazzo, un poliziotto, a cui avrebbe telefonato non appena arrivata a casa. Le chiesi se era il ragazzo che aveva salutato per strada, ma quello era solo un amico. Mary però pensava che avrebbe potuto raccontare al suo ragazzo di averla vista con me e voleva correre ai ripari.
«Mi dispiace», commentò. «Non è stata una buona idea».
«Be’…», farfugliai io.
«Di solito non faccio queste cose».
«Neanch’io».
«È la prima notte di primavera», sorrise.
«Già».
Poi se ne andò, lasciandomi in compagnia del mio caffè e di me stesso. Più o meno quel che aveva fatto Sarah.
Ci sono delle notti in cui ti rendi conto di avere ormai trent’anni e la tua vita ti sembra ormai agli sgoccioli. E pensi che non riuscirai mai a concludere niente e che nessuno ti bacerà mai più.
Vagai da una stanza vuota all’altra. Mi piaceva quella casa, ma qualche volta, quando ero lì solo, mi sembrava sconfinata e quelle due camere da letto un imperdonabile schiaffo alla povertà. Da quando Sarah se n’era andata, la mia vita non era stata granché. Le mie giornate giravano a vuoto e scorrevano lentamente, molto lentamente. Erano già passati sei mesi. Aveva deciso di andarsene da Belfast. Era inglese, per lei era facile. C’erano stati molti attentati e lei s’era stufata. Voleva ritornare in un posto in cui la politica si occupasse di fisco, tasse e sanità, e non di bombe, mutilazioni, morti e terrore.
Così se n’era tornata a Londra. Chuckie mi aveva consolato dicendo che non valeva la pena di prendersela tanto per una ragazza inglese. Sarah non aveva telefonato, non mi aveva scritto. Neanche mandato un fax. Aveva fatto bene ad andarsene ma io stavo ancora aspettando che tornasse. Avevo già atteso altre volte nella mia vita e c’ero abituato, ma questa volta era diverso. Sembrava proprio che sarei rimasto ad aspettare per sempre. Il cronometro stava misurando lo sprint finale e io ancora non ero partito. Abbiamo un’idea sbagliata del tempo: non è denaro, è velocità.
Più tardi, a letto con le finestre aperte, ascoltai il rumore confortante degli elicotteri che sorvolavano West Belfast: Sarah l’aveva sempre detestato. A me, invece, è sempre piaciuto, mi conciliava il sonno quando ero piccolo. Non desideravo che avesse lo stesso effetto anche ora, però: erano quasi le quattro e alle sei e mezzo dovevo lavorare. Comunque, sapevo che tutti i pensieri tristi che mi frullavano in testa mi avrebbero tenuto sveglio. Finii per assopirmi, rimpiangendo che né Mary né Sarah avessero voluto posare la testa sul mio cuscino.

Robert McLiam Wilson

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