«Favola di New York»: un memorabile ritratto delle paure oscure dei genitori

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LaValle

Aspettando l’uscita di Favola di New York di Victor LaValle, vi proponiamo la traduzione della recensione al romanzo di Jennifer Senior, per il New York Times.

 

Uno dei motivi per leggere i romanzi di Victor LaValle è il semplice piacere della lettura: le sue frasi offrono centinaia di mini scariche di dopamina per i cultori della prosa. La sua immaginazione è insolitamente visiva. La sua sensibilità è così impassibile che sconfina quasi nell’alienazione. E ha un vero talento per l’uso strategico delle imprecazioni: un’abilità, a mio avviso, sottovalutata. Esplodono quando meno te lo aspetti, in frasi altrimenti delicate come una rosa.

Far comprendere l’importanza di questa dote in un romanzo familiare non è semplice. Ma lo stesso non si può dire degli altri talenti dell’autore. C’è un’immagine nel nuovo romanzo di LaValle, Favola di New York, che è così straordinariamente raccapricciante che me la sogno la notte: Apollo, il protagonista, si sveglia improvvisamente nella sua cucina per scoprire che è stato incatenato con la serratura della bici a un tubo dell’acqua calda.

Lo so, qualcosa di simile accade a Krazy-8 nella prima stagione di Breaking Bad. Ma la scena del romanzo è molto più inquietante, fidatevi.

Il bollitore di Apollo sta fischiando sul fuoco. Il suo bambino di sei mesi sta urlando nella stanza accanto, rendendo ancora più assordante il fischio del bollitore. Apollo cerca di alzarsi. Un riflesso naturale dalle conseguenze spiacevoli.

«Cercò di allontanare la testa dal tubo, ma il lucchetto gli stringeva il collo e lo fece boccheggiare e rimbalzare indietro», scrive LaValle. «Allora la nuca toccò il tubo bollente, carne nuda come una braciola di maiale sulla piastra».

Ma un’ustione sul collo è l’ultimo dei suoi problemi. La moglie di Apollo lo colpisce in faccia con un martello. Dopo avergli fratturato la mascella, va nella stanza del bambino con il bollitore nel palmo della mano.

Gli ammiratori di LaValle lo considerano la progenie di un’improbabile unione artistica. È un mix tra Haruki Murakami e Ralph Ellison (questa è un’invenzione di Anthony Doerr). Tra Gabriel García Márquez e Edgar Allan Poe (parola di Mos Def, il cui album The Ecstatic è stato ispirato al libro omonimo di LaValle). Tra Colson Whitehead e H. P. Lovecraft, tra Thomas Pynchon e Shirley Jackson (questi sono mash-up di altri mash-up: una sorta di metaconsenso critico).

Il punto è che da sempre i lettori si sforzano di comunicare la strana ibridità dei romanzi di LaValle, che fonde la critica sociale con l’orrore soprannaturale, pur restando fermamente letterario. Ed è vero: i suoi romanzi sono maledettamente difficili da classificare.

Il problema degli ibridi, tuttavia, è che spesso sono più strani che eleganti. Si nota l’esatto punto del tendine in cui l’uomo si trasforma in una bestia.

Anche Favola di New York non è immune a questa eccentricità. Il romanzo inizia in maniera coinvolgente, come tutti i romanzi di LaValle, e rimane così per un bel po’, raccontando la storia di Apollo Kagwa, un rivenditore di libri usati e neo papà che lotta, contro ogni probabilità, per aver successo in entrambi i ruoli. Le sue sorti sembrano mutare – per il meglio, immaginiamo – quando a un’asta nel Bronx scopre una prima edizione de Il buio oltre la siepe con un’iscrizione di Harper Lee dedicata a Truman Capote.

«Dedicato al papà dei nostri sogni»,  c’è scritto.

Il messaggio è carico di significato. Il padre di Apollo abbandonò la sua famiglia quando Apollo aveva solo quattro anni. Da allora ha sempre avuto lo stesso incubo ricorrente sull’uomo scomparso.

Ma le sorti di Apollo, come potrebbe suggerire la scena della cucina, di lì a poco cambiano nuovamente. Sua moglie inizia a ricevere sul suo telefono delle misteriose foto sia di Apollo che di loro figlio – chi le ha scattate? Chi li sta guardando? – e poi qualcosa di terribile succede al bambino, la moglie svanisce e il mondo diventa inquietante e fantastico. New York City si trasforma in una terra dei fratelli Grimm: isole incantate e foreste magiche, giganti demoniaci e streghe risplendenti.

Nessuno di questi elementi fantastici è di per sé un problema. Tutti i romanzi di LaValle arrivano a un punto in cui le cose cominciano a prendere una piega strana. Il problema è che in questo libro LaValle declama i suoi temi a caratteri cubitali in modo che non sfuggano al lettore: in sostanza, spiega la sua allegoria praticamente in tempo reale. Ad un certo punto, un personaggio si lamenta del fatto che le fiabe hanno perso il loro fascino spettrale una volta che le persone hanno iniziato ad assegnare loro una morale. Eppure questo è esattamente quello che fa LaValle in questo libro.

«Se devi salvare la persona che ami, diventi una persona diversa, una cosa diversa», dice poi lo stesso personaggio ad Apollo. «Ti trasformi. L’unica magia è in quello che siamo capaci di fare per le persone che amiamo».

Una frase come questa mi sembra indegna dell’autore. Mi ha fatto disconnettere dalla storia. Ma poi ci sono rientrata nuovamente. Le domande che pone LaValle sono spinose e urgenti: come possiamo proteggere i nostri figli, soprattutto nell’era digitale? Perché poi scopriamo che Apollo ha scattato molte immagini del suo bellissimo figlio – perché non dovrebbe farlo? – e le ha pubblicate su Facebook, come fanno tutti i genitori moderni.

Sono l’equivalente moderno della pistola di Čechov. Giace innocuamente sul tavolo nel primo atto, ma potete stare certi che sarà usata nel terzo atto. «Postare qualcosa è come lasciare la porta aperta e invitare i mostri a entrare», gli dice uno dei cattivi della storia. (Vale anche per le fiabe moderne: Outside Over There di Maurice Sendak assume uno status totemico in questo libro). Quello che LaValle sembra chiedere è: come si sono sentiti i genitori in quelle storie?

Mi sarebbe piaciuto che LaValle fosse stato più abile nell’esplorare queste domande e questi temi. Avrei anche potuto fare a meno delle allusioni a Donald Trump, a Fox News e all’estrema destra, che sembrano essere saltate fuori dal nulla finché il loro collegamento non viene chiarito.

Ma le osservazioni di LaValle sulla razza rimangono, come sempre, sia pungenti che divertenti. («C’è voluto meno del previsto», dice Apollo, che è nero, quando viene fermato da un poliziotto in una sezione bianca del Queens). E le sue immagini sono fonte di immensa soddisfazione. Entrare in una stanza ricoperta con un tappeto marrone «era come stare sotto l’ascella di Chewbecca»; quando Apollo si accascia sul divano della lavanderia, «aveva pure preso possesso del divano, come una zecca», un mostro è «alto come la vela di uno sloop».

Se i mostri sono il vostro soggetto, scrivere come un angelo aiuta.

 

Traduzione di Thomas Fazi 

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