Guida turistica per apprendisti maghi – Terza puntata: la Garfagnana misteriosa

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In occasione dell’uscita di Per chi è la notte, l’autore Aldo Simeone ci racconta la magia della Garfagnana, in cui si svolgono gli eventi del suo romanzo. Trovate qui la prima parte e qui la seconda parte.

 

Lo confesso: sono nato strego. Come il protagonista di Per chi è la notte. Non proprio il suo stesso giorno, di San Giovanni, ma nel pomeriggio di San Guglielmo, il 25 giugno. Secondo un’interpretazione più elastica del mito garfagnino, infatti, nasce strego chi ha la sfortuna di venire al mondo fra il 24 e il 29 giugno. In pratica, quasi tutti i cancri di prima decade (e questo vorrà pur dire qualcosa…). Però, lo giuro: non ricordo il mio dodicesimo compleanno.
Sono stato chiamato? Ho risposto? Sono rimasto sveglio?
Temo di no. Temo di aver dormito della grossa. Ergo, sono rimasto strego. Per l’eternità. (La qual cosa spiegherebbe il motivo per cui sono sempre stanco il fine settimana…).
Del mito garfagnino che fa da spina dorsale al romanzo non aggiungerò altro. Perché non c’è altro da aggiungere. Ed è questa la cosa più affascinante: il poco che se ne sa, che ci è dato capirne.

Rappresentazione artistica degli “steghi”, di Giacomo Agnetti.

Innanzi tutto: cosa sono “realmente” gli streghi? Stregoni? Demoni? Cultori di Satana?

Una parte della leggenda sembrerebbe attestarlo, ma sarà davvero la più autentica? Ecco gli indizi:

  • l’accenno ai sabba compiuti intorno a un noce (un tempo si credeva che «il noce è nocivo, il nome stesso lo condanna»);
  • l’intermediazione dei preti per liberarsi dalla fattura;
  • la confusione tra questo mito e quello del capro o caprone che, frapponendosi sul cammino, fa la domanda: «Per chi è la notte?».

D’altro canto, non si conosce un solo crimine compiuto dagli streghi. Le tradizioni orali non ne recano alcuna memoria. Insomma: gli streghi sono malvagi, sono il male stesso. Ma perché? Perché è così punto e basta.

A un’affermazione del genere, voi credereste?
Suona un po’ come certi comandamenti che ci bersagliavano quand’eravamo bambini. «Non ci si alza da tavola finché non è vuoto il piatto!». «Non si dicono le parolacce!». «Questo non si fa, è da cattivi: hai capito?».
No, non capivamo. Crescere ha sempre significato (almeno per le persone sane) disubbidire.
Nel caso degli streghi, gli studiosi hanno ravvisato in questa severa condanna moralistica le tracce di una censura cristiana. Le origini del mito sarebbero pagane; il cristianesimo vi avrebbe imposto la sua tardiva condanna.
Proviamo allora a sfrondare la leggenda dagli elementi «inquinanti»: via i sabba, via i preti e i simboli religiosi (il pugnale a forma di croce), via ogni richiamo al peccato e alla dannazione.
Cosa resta?
La processione, la notte, l’incontro occasionale, il cero che si trasforma in dito il giorno successivo.
Partiamo dalla processione: non si tratta di una danza infernale, ma di un incedere religioso, ordinato.
La notte. Nelle società arcaiche, i cicli di luce e di tenebre segnano l’ordine delle cose: il giorno è fatto per gli uomini, la notte per gli animali. Ecco spiegata, dunque, la vera risposta alla domanda «Per chi è la notte?» (nel romanzo l’ho modificata):

Per me, per te e chi non può andar di dè [ovvero, di giorno].

Il disgraziato che si è fatto trovare fuori casa dopo il tramonto si giustifica in questo modo: affermando che la notte è stata creata per chiunque non possa agire alla luce del sole.
Ma chi? Chi è che non può vivere di giorno?
Ci aiuta a rispondere l’ultimo elemento: il cero, che, la mattina, si trasforma in un osso umano.
I morti! Ai morti non è concesso di rivedere la luce del sole. Gli è per sempre negata.
Ecco dunque spiegato chi sono gli streghi: fantasmi. Ed ecco perché ci riaccompagnano a casa: conoscono perfettamente la strada. Sono i nostri morti. I nostri cari estinti.

In Italia è sempre esistito Halloween, molto prima che arrivasse in America dall’Irlanda. Si chiamava, e si chiama tuttora, «commemorazione dei morti». Un po’ ovunque nel nostro Paese s’intagliavano zucche, le si usavano come lanterne, si mandavano i bambini a fare la questua di casa in casa, e soprattutto si credeva che i morti tornassero nelle loro case la notte del 2 novembre. Perché?
Quella data cade nel mezzo di un periodo di 21 giorni che chiamiamo «estate di San Martino» (ebbene sì: 21 giorni, in origine), in cui si verifica un’inquietante sospensione delle stagioni: non il freddo invernale, né il caldo estivo, né il fiorire di primavera, né il diluvio d’autunno. Nella condizione straniante di questo inganno climatico, le genti antiche credevano di ravvisare una circostanza infernale: il sovvertimento dell’ordine costituito, la rottura del tempo. Ai morti era concesso di attraversare il varco.

Molto di quanto ho scritto qui sopra a proposito del giorno dei morti l’ho ricavato dal libro Halloween di Eraldo Baldini e Giuseppe Bellosi (onore al merito). Ma ora aggiungo una riflessione mia, di cui mi assumo la piena responsabilità.
Parlando con un amico pugliese, ho scoperto che anche nel suo paese di origine, come un po’ ovunque in Italia, la cena che precede la notte dei morti è oggetto di particolari riguardi, nella convinzione che i defunti possano tornare a sedersi a tavola e consumare il pasto lasciato loro dai propri cari. Mentre però, in Puglia e quasi ovunque in Italia, questo comporta un invito a non sparecchiare, non togliere i piatti sporchi e pieni di avanzi, non fare piazza pulita di tutto il pasto, per favorire in questo modo il ritorno dei morti; in Toscana è il contrario. Ai bambini si raccomanda di rassettare bene la tavola, alle donne di lavare a specchio i piatti, agli uomini di darci dentro di ramazza per cacciar via tutte le briciole. I morti non devono entrare! Che non si seggano a desinare! Perché sennò, poi, non se ne sortono mica!

Uno scorcio del bosco del Fatonero, dove vivono gli streghi.

In Toscana i morti non sono i benvenuti. Amarli significa lasciarli andare. Il mondo non è più fatto per loro. Qualcosa di simile accade in Grecia, come c’informa Eugenides in Middlesex: il giorno del funerale di un parente, l’uomo di casa deve restare davanti alla porta, col piede sull’uscio, a impedire al defunto di tornare.
In una poesia poco nota, La tovaglia, Pascoli immagina di disobbedire deliberatamente a quell’ordine (a riprova di quanto scrivevo sopra sui bimbi e le paternali…):
«Le dicevano: ― Bambina! / che tu non lasci mai stesa, / dalla sera alla mattina, / ma porta dove l’hai presa, la tovaglia bianca, appena / ch’è terminata la cena! / Bada, che vengono i morti! / i tristi, i pallidi morti!».
E la bambina disubbidisce. E i morti arrivano davvero. Ma non ricordano nulla: hanno dimenticato la vita; si siedono a tavola solo ripetendo un’abitudine smemorata…
Alzi la mano chi sapeva che Pascoli è un autore gotico-horror. Chi mai lo insegna a scuola?
Ahi, lo snobismo della «cultura» italiana!

Ritorniamo ora agli streghi e al nostro tour per apprendisti maghi in Garfagnana. Vi chiederete il dunque di questo articolo: quale luogo consiglio di visitare per incontrare gli streghi?
Ma il bosco, ovviamente!
Adesso che conoscete la risposta alla domanda «Per chi è la notte?», potete camminare tranquilli, confidando di far ritorno a casa.
D’altronde la Garfagnana è soprattutto alberi. Alberi e boschi. Gli uomini sono arrivati dopo, e se ne andranno prima. Oltre la storia c’è il tempo. Semplicemente il tempo.

 

Aldo Simeone

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