I consigli di Madame de La Palisse

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Nella giornata nazionale sulla SLA, vogliamo ricordare ai nostri lettori una testimonianza d’eccezione. Quella della scrittrice Cesarina Vighy, Premio Campiello Opera prima nel 2009 con il suo L’ultima estate, romanzo dai forti toni autobiografici, scritto durante il decorso di questa devastante malattia e a pochi mesi dalla morte.
Ecco i link delle due principali Onlus italiane che si occupano dei malati di Sla:

Aisla: http://www.aisla.it/
Viva la vita:  http://www.wlavita.org/

Un estratto da L’ultima estate:

I consigli di Madame de La Palisse

Madame de La Palisse doveva essere una gran brava donna.
Voleva bene a suo marito, valoroso capitano, e perciò ascoltava pazientemente i suoi resoconti di battaglie, assedi e duelli; saggia com’era, mostrava di interessarsene moltissimo ma intanto, dentro di sé, vi faceva una buona tara sapendo quanto gli uomini, anche i più sinceri, abbiano bisogno dell’ammirazione totale da parte di quelle ascoltatrici casalinghe che sono le mogli.
Aveva un’altra grande dote, Madame: possedeva un sano senso dell’umorismo. Perciò, quando le giunse la notizia della morte del marito durante la battaglia di Pavia (fucina di frasi celebri), dopo aver molto pianto, non poté non far caso alla canzone improvvisata dai suoi soldati per onorarne la memoria, il cui finale, ingenuo fino all’assurdità, era destinato a durare nel tempo attribuendo all’aggettivo “lapalissiano”, trasferito dai lodanti al lodato, una patente di stupidità bizzarra che l’eroico uomo d’arme non meritava di certo.

Monsieur d’La Palisse est mort,

Mort devant Pavie;

Un quart d’heure devant sa morte,

Il était encore en vie.

Più il tempo passava, più quella strofetta faceva ridere Madame la quale intelligentemente si rallegrava che il suo uomo fosse passato comunque alla semieternità del linguaggio.
Prese a parlare con quella ovvietà della poesiola e scoprì che in questo modo la gente la capiva meglio.
Anche a me capita abbastanza spesso di parlare come Madame de La Palisse e, sperando di fare cosa utile, così parlerò ai principianti, ai catecumeni di questa mia e loro malattia, fornendo alcuni semplici consigli desunti dall’esperienza, una specie di decaloghetto portatile.

I. Non fatevi illusioni.
Se qualche cura seria ci sarà, cominceranno gli americani, rimessisi dal crac, a pubblicare studi su riviste specialistiche che saranno travisati ed esaltati dai giornali per cadere poi nell’oblio. Nel frattempo, si accumulerà una montagna sanguinolenta di topini innocenti che spianeranno la strada a sperimentazioni sull’uomo (a proposito, lasciate che le facciano gli altri). Dopo alcuni anni, si avranno risultati positivi. Dopo trecentocinquantanove (359) anni, il tempo che ci è voluto per riabilitare Galileo, nel nostro paese si apriranno le porte al farmaco miracoloso. Ve la sentite di resistere tanto?

II. Credete moderatamente nei medici.
Dopo aver coraggiosamente esaurito la loro funzione nella dura diagnosi, sentendosi impotenti, vi ammanniranno medicine che spesso contrastano le une con le altre, aumentando la confusione loro e vostra.

III. Se credete in qualche dio, tenetevelo stretto.
Può darsi che serva, all’inizio o alla fine, soprattutto se non vi fate troppe domande di tipo razionale. Pregatelo invece, o bestemmiatelo; ringraziatelo o maleditelo: servirà, forse, a tenere aperti i canali di comunicazione.

IV. Se non credete in niente, meglio così: un pensiero di meno.
Molti osservatori professionali riferiscono che muoiono meglio gli atei.

V. Seguite l’istinto.
Nessuno vi conosce meglio di voi. I più vi diranno: «Accetta, accetta». Il che vuol dire continuare a vedere gli amici, il cui respiro di sollievo vi pare di sentire davvero appena escono da casa vostra, e a parlare con loro finché la vostra voce non sarà diventata un mal intellegibile gracchiare. Tanto loro sono tenuti a mostrare pietas, voi coraggio mentre, nel profondo delle viscere, loro sono assaliti dalla paura, voi dall’invidia.
Non chiamo “accettare” ciò che si è costretti con la forza a prendere.
Ci sono anche quelli del «lotta, lotta», quelli che nei necrologi scrivono sempre: «Dopo aver lottato a lungo con la malattia… è morto ieri l’amico di sempre xy…». Non ci badate; questa concezione muscolare non farà altro che diminuire le vostre forze, già scarse, per quando arriverà in grande stile la famosa “faticabilità” che non consiste, come anch’io credevo, nel non poter più trascinarsi appresso i borsoni del supermercato gonfi di spesa ma nell’impossibilità di sollevare con una mano il supplemento illustrato di un giornale.
Tra queste due scuole di pensiero, io personalmente ho scelto orgogliosamente una terza via, peraltro sconsigliata e criticata da tutti. Assecondando la mia misantropia e aiutata da una naturale capacità a star sola, mi sono chiusa in casa, non rispondo al telefono, rifiuto ogni visita, comunico soltanto per iscritto.

VI. Spazzate via i ricordi rallegrandovi per i piccoli privilegi concessi ai malati.
Visto che sono entrata in una Second Life, cerco (naturalmente non è possibile) di cancellare le tracce della prima. Vorrei spazzar via i ricordi, i rimpianti, i rimorsi. Vorrei fare tabula rasa della mia mente che continua, ahimè, a lavorare anche troppo. Apprezzo e accolgo i piccoli vantaggi dei malati: venir trattati come bambole da spogliare, rivestire e pettinare; vedersi subito accontentati nei piccoli capricci mangerecci; lasciare agli altri, se pur sentendosi defraudati e messi da parte, il governo della casa, la disposizione degli oggetti, il posto esatto dei libri.
Quanto agli amici (di sola penna), non mi sono mai sentita stimata, ammirata e amata di più. Perché non hanno più da temere la mia lingua affilata: lo so ma non me ne importa, anzi, sono loro a farmi un po’ di pena, qualche volta, costretti come sono a guardarsi continuamente alle spalle, inseguiti dalla propria ombra.

VII. Non portate rancore a quelli che vi hanno fatto del male inconsapevolmente.
Altrimenti sarà come andare a coricarsi la sera con una piccola scheggia che non vuole uscire dall’unghia.

VIII. Sopportate l’infermiera che vi dà del tu, trattandovi come una vecchietta rimbambita.
È incredibile ma pare che sia una raccomandazione che fanno ai corsi professionali, come metodo menzognero per farsi sentire più vicine ai malati. Sarà. Io tuttora ci vedo solo una gran maleducazione.

IX. Abbiate pazienza con gli altri che soffrono della vostra stessa condizione e state ad ascoltare, finché reggete, i loro discorsi sempre uguali.
Io stessa che, lo confesso, provo un invincibile ribrezzo per vecchi e malati dimenticando di far parte della stessa categoria, cerco di resistere a questi cattivi impulsi, in nome dell’empatia se non della simpatia, sensazioni talora incredibilmente divergenti o, addirittura, opposte.

X. Non andate a Lourdes.
Un matematico, allegramente miscredente, ha contato le “guarigioni inspiegabili” totali (ci sono, ci sono) e ha scoperto che quelle di Lourdes stanno sotto di trenta unità a quelle avvenute altrove. Quindi, conclude, se ve ne state a casa vostra avrete trenta possibilità in più di guarire.
Il Padreterno, arrivato al decimo comandamento, si fermò: evidentemente gli faceva pietà Mosè che doveva scendere dal monte Sinai, in sandali, trascinandosi già due pietroni pesantissimi con le Tavole della Legge.
Noi, che scriviamo su fogli leggeri, potremo invece aggiungere qualche altra raccomandazione.

XI. Preparate una lista di cose che sapete fare, da quelle per cui servono mani o piedi a quelle in cui occorre un po’ di cervello o di anima. Fatele. L’ordine è necessario perché per primi vi si indeboliranno gli arti (attenzione alle cadute!) che non potranno più obbedire agli ordini del neurone venuto meno. Poi, o anche prima, vi si incepperà la lingua fino a emettere dei suoni incomprensibili. Perciò, niente cantare o recitare. Alla fine, però, vi resterà il cervello ben funzionante, croce e delizia. Personalmente, mi ha salvata la scrittura ma si può anche leggere con tutto il tempo a disposizione e nessuno che ti viene a disturbare o pregare con maggior intensità e consapevolezza.

XII. Siate curiosi.
La curiosità è il motore dell’intelligenza, è una robusta stampella con cui sorreggersi, è la porta aperta sulla vita. Sulla vita che ci trattiene con forza finché non avremo trovato la risposta a quella tal domanda venutaci in mente, fosse pure la più stupida.

XIII. Fatevi venire o, se lo avete già, coltivate il senso dell’umorismo.
C’è tanto da ridere al mondo: degli altri, di voi stessi, delle cose che vi parevano così importanti e invece erano così stupide. Se c’è un momento in cui il nostro occhio vede chiaramente è questo. A meno che non sia offuscato dalle lacrime, lo so.
Amici, i miei “comandamenti” sono terra terra, un po’ spavaldi per ostentare sicurezza, perciò ne ho escluso la parte più delicata, quella che è affidata alla coscienza individuale, strattonata pericolosamente tra due poteri: quello di uno Stato incerto su tutto e quello di una Chiesa troppo certa su tutto. Si aggiungano i nostri personali dubbi su principi che credevamo incrollabili e che invece possono dissolversi davanti a un dolore nuovo, sommatosi alla già ricca collezione, a una nuova paura o a una vecchia convinzione: passerà la voglia di dare consigli.
Sono stata educata laicamente e areligiosamente da mio padre, tra i brontolii di mia madre che concludeva sempre i suoi rimbrotti con un «Passerete anche voi da quella porta», intendendo quella della chiesa nel giorno del nostro funerale. Ho avuto quindi il lampioncino della Ragione come solo sistema di illuminazione e, devo confessarlo, troppe volte in quel mezzo buio sono andata a sbattere.
Se volessimo iniziare a girarci intorno, all’argomento tabù, la morte, che ci aspetta con minore pazienza, amici, di quanto faccia forse con gli altri, potremo ricordare che il positivista e igienista Ottocento volle introdurre l’uso della cremazione. Scoppiarono diatribe terribili che si prolungarono per decenni tra “arrostitori” e “putrefatori”. Incredibile: gli arrostitori erano gli atei che, con questa purificazione definitiva attraverso il fuoco, davano inconsapevolmente la prova della loro maggiore spiritualità.
Come mi sono comportata io? In maniera ambigua, dando disposizioni secondo l’ideologia laica ma col cuore stretto di vera materialista che, come accade a certi pazzi, vorrebbe trattenere qui un corpo, per sempre vicino, magari chiuso nell’armadio. Che poi sarebbe la versione autarchica e povera di quello che fecero i raffinati genitori di Madame de Staël: erigere un piccolo mausoleo, quasi un salottino, dove farsi trovare, imbalsamati e seduti, quando la figlia andava a visitarli.
Confessiamolo: a volte amiamo tanto un corpo da rifiutare persino uno degli atti più ovvi, ma non per questo meno generosi, che si possano fare in ricordo di una persona carissima che se ne è andata: la donazione dei suoi organi.
Ma in fondo che ci importa di quello che accade dopo?
È il subito prima che ci interessa veramente, quando i nostri dolori scatenano la frenesia, l’accanimento, persino l’orgoglio o la vanità dei medici che si mettono a gareggiare con chi è più forte di loro, straziando noi e prolungando il nostro soffrire. A voi come a me, forse, sarà capitato di urlare piangendo: «Non sono stanca di vivere, sono stanca della malattia!».

«Talvolta mi vengono delle idee che non condivido», dice il filosofo ridens Woody Allen. Anche a me.
Ho steso tra i primi, coscienziosamente, sperando che un giorno potesse avere valore, un testamento biologico fai-da-te in cui chiedevo che mi si risparmiassero buchi, cannule e sondini, nella certezza che la natura, nostra madre, sarebbe stata pietosa.
Solo dopo ho conosciuto la malattia, la sua ingiustizia e casualità e ho scoperto che siamo infinitamente adattabili, che cambiamo idee e ideali seguendo i peggioramenti, che le nostre richieste diventano minime: ci basta respirare, trascinarci, tirare avanti.
Quando faticavo a camminare, rimpiangevo la mia andatura sciolta; quando ho perso anche la voce, mi sarei contentata di zoppicare soltanto.
Avrò il coraggio, quando sarà venuto il momento, di tirar fuori da sotto il cuscino lo scritto in cui rifiuto le cure?

È strano: ogni situazione tragica fa echeggiare nel nostro orecchio interno una canzoncina scema come quella di Monsieur de La Palisse.
Chi non ricorda la geniale idiozia di Petrolini?

Son contento di morire

Ma mi dispiace.

Mi dispiace di morire

Ma son contento.

Ma noi non ci arruoleremo nell’esercito di Amleto, eroe eponimo del dubbio, che riempie il palcoscenico di morti senza riuscire nemmeno a vendicare per bene suo padre; né ci uniremo al coretto che ripete l’ambiguo ritornello.
Terremo solo un pezzetto di dubbio, magari nascosto in fondo in fondo a un cassetto, per ricordarci sempre che niente è certo.

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