I morti sono reali. L’immaginazione di Hilary Mantel – Quarta parte

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In occasione dell’uscita del romanzo di Hilary Mantel La storia segreta della rivoluzione, pubblichiamo la traduzione della quarta parte dell’articolo di Larissa Macfarquhar apparso sul «New Yorker» il 15 ottobre 2012 con il titolo The Dead Are Real.

 

Quando si sveglia la mattina, le piace mettersi subito a scrivere, ancora prima di aver parlato, perché i residui del sonno sono il regalo del suo cervello per la giornata. I sogni sono importanti per il suo equilibrio mentale: sono il luogo in cui lei vive il disordine. I suoi sogni sono archetipici, mitologici, mastodontici, sfarzosi – ci sono cavalieri e mostri. Nei suoi sogni, ha preso parte alle crociate più di una volta.
Quando inizia un libro nuovo, ha bisogno di farsi strada dentro i personaggi, di sapere cosa si prova a essere loro. C’è un trucco che a volte usa, gliel’ha insegnato un altro scrittore. Siediti in silenzio e distogli l’attenzione dalla stanza in cui ti trovi finché non ti sei focalizzata sulla tua mente. Immagina una sedia e invita il tuo personaggio a sedercisi; una volta che sarà a proprio agio, potrai fargli delle domande. Provò a fare così per la prima volta mentre stava scrivendo Il gigante O’Brien: il gigante entrò nella stanza ma, prima di sedersi sulla sedia, si chinò a tastarla, per capire se avrebbe retto il suo peso. In quell’occasione, non andò oltre, perché era così eccitata che tirò un pugno in aria e gridò: «Sì!». Ma da quel momento in poi riuscì a immaginarsi nel corpo del gigante.

Molto spesso la narrativa è questione di provare a forzare l’incertezza e la libertà in un processo che in realtà è interamente determinato dalla scelta o dagli eventi. Quando scrive narrativa storica, lei sa che questo succederà e non può farci nulla, ma deve cercare di pensare gli eventi come se la conclusione non fosse ancora stata stabilita, dal punto di vista dei personaggi, che vanno avanti nell’ignoranza. Questo non riguarda solo l’aspetto emotivo dell’entrare nel punto di vista dei personaggi: significa anche ricordare che in ogni momento le cose potrebbero essere andate diversamente. Quello che lei, l’autrice, conosce è la storia, non il fato.
Quando scrive narrativa ordinaria, ciò che succede dipende interamente da lei, ma deve sentire che i suoi personaggi hanno volontà propria, altrimenti la mano morta del determinismo spezzerà il libro. Deve sentire che il suo controllo su di loro è parziale – così leggero da essere appena percettibile. A volte capita che uno dei suoi personaggi dica qualcosa e a lei sembra di non avere idea della risposta che seguirà finché non lo viene a sapere all’improvviso, perché eccolo lì, sulla pagina. Quando succede questo, sa che il processo sta funzionando.
Lei trova che questa leggerezza, questa rinuncia al controllo, sia difficile da raggiungere, specialmente dal momento in cui non può essere conquistata semplicemente impegnandosi. La sua mente non fluttua senza direzione in modo naturale: è una macchina disegnata per il pensiero analitico. «Mi piace che il mio mondo, e soprattutto il mio mondo interiore, sia organizzato», dice. «Mi piace la sistematizzazione dei dati. Ma il processo della scrittura di un romanzo è l’esatto opposto – è non etichettare, non definire, non decidere, lasciare tutto in sospeso. Devi dire a te stesso, adesso tiro via le mani, lascio che il mio inconscio lavori per me. È terribilmente fastidioso! C’è un intero lato della mia natura che mi rende il tipo che in assoluto ha meno probabilità di diventare uno scrittore: la persona che insiste sul mettere i fatti storici tutti in fila, e che prova una sicurezza immensa di fronte a uno schedario ben fatto», dice.
È una donna il cui primo istinto professionale fu quello di diventare avvocato, e il secondo assistente sociale. È il tipo di persona logica ed energica che è abile nel porre riparo alla stupidità e alle difficoltà pratiche altrui. Ma la narrativa è creare stupidità e difficoltà pratiche e lasciare che queste pasticcino e degenerino fino a diventare irreparabili. «L’unica opera di Shakespeare che non avevo letto, per molti anni fu Otello», dice. «Non ce la facevo a leggerlo. Avevo sempre voglia di prenderlo e sistemare la storia del fazzoletto. Ma alla fine mi sono imposta di leggerlo. Mi sono forzata di superare l’estremo disagio che provavo».
Essendo così difficile per lei essere vaga, è ancora più difficile per lei essere pigra; ma ha imparato anche quello, perché le idee migliori le vengono quando la sua mente è indolente.
Quando da bambina andò a confessarsi per la prima volta, pensò di non avere nessun peccato che valesse la pena confessare, quindi se ne inventò uno: «Padre, sono stata pigra». Ma col passare del tempo cominciò a credere a quell’invenzione e cominciò a essere terrorizzata a ogni segnale di calo del suo impegno. Ci sono giorni in cui, per autoconvincersi, si riempie di cose da fare, anche se sono i giorni in cui non fa nemmeno un segno sulla pagina precedono settimane di lavoro. È molto difficile cedere il controllo. «Credo che non si impari mai davvero a fidarsi di questo processo», dice. «Io penso “E se domani mi sveglio e non ne sono più capace? So che sarò sempre capace di scrivere, nel senso di avere uno stile abbastanza forte da fare il suo dovere, e so che i libri si possono scrivere se si ha mestiere, ma quello che fa una frase che spumeggia sulla carta – hai sempre paura che possa sparire, perché, dopotutto, non hai fatto nulla per meritartelo. Non hai fatto nulla per escogitarlo. È lì e basta. Non lo capisci, è fuori dal tuo controllo, e potrebbe abbandonarti».
Qualche volta, il problema non è troppo controllo, ma troppo poco: a lei capita di ritrovarsi talmente coinvolta nella scrittura di una scena che l’unico modo per uscirne è chiudere tutte le porte della coscienza andando a dormire. La tenda dev’essere tirata fra un atto e l’altro. Questo accade in particolare quando scrive del passato: non può semplicemente posare la penna e tornare nel presente; dev’esserci un intervallo quando il palco si fa buio. Questo è il modo in cui si ricorda chi è e dov’è.
Negli ultimi mesi della stesura di un libro, quando si comincia a intravedere la fine, lei è posseduta. Non va da nessuna parte e non parla di niente che non sia il libro. Si ferma solo per mangiare. Le ore di sonno e di lavoro si fanno irregolari: spesso si sveglia alle tre di notte, scrive per qualche ora e poi torna a letto. Diventa sempre più ansiosa: per lei è come la paura del palcoscenico prolungata in modo innaturale e intollerabile, come se alla fine facesse tutto in un momento, sfrecciando da una cosa all’altra terrorizzata all’idea di commettere un errore perché sa che se un piatto si sbilancia si sfracelleranno tutti quanti.

Il contratto che firmò per Wolf Hall era un contratto per due libri, il primo dei quali, The complete stranger, si sarebbe dovuto ambientare in Africa fra gli anni Settanta e gli Ottanta. Di solito lei comincia un libro con un’andatura incerta, procedendo a tentoni, tastando il terreno, ma questa volta era come se fosse stata catapultata subito nella parte più profonda e oscura. La stesura era straziante, di notte faceva sogni terribili. Si vedeva camminare avanti e indietro nella sua vecchia casa in Botswana: la sua memoria è sempre stata talmente potente che il passato per lei era vivido quanto il presente. Nel libro non scriveva della sua vita, ma immaginare se stessa in quel tempo e in quel luogo era abbastanza per far tornare tutto indietro: i mesi peggiori del suo matrimonio; il suo dolore, la sua malattia e la terribile incertezza riguardo a cosa fosse; il suicidio di un caro amico.
Queste sensazioni la turbavano così tanto che decise di lasciar perdere del tutto il libro e provò invece a buttarsi su Wolf Hall.
Iniziò a scrivere Wolf Hall – e, tutto d’un tratto, era felice. Fin dall’inizio, fu convinta che fosse esattamente quello che doveva fare, che tutto, nella sua vita, l’aveva portata lì. Non mostrava mai il suo lavoro a nessuno finché non era praticamente finito, ma quando scrisse la prima pagina di Wolf Hall volle mostrarla subito a qualcuno. «Quasi ridevo da sola», dice. «So che l’argomento è rischioso, ma ero pervasa dalla gioia e da un senso di potere, la sensazione di sapere quello che stavo facendo. Cominciò a srotolarsi davanti a me come una pellicola; era al tempo presente perché non sapevo cosa sarebbe successo un minuto dopo. Era come accorgersi, dopo aver nuotato per chilometri, di avere i piedi sulla terra ferma. Sapevo dal primo paragrafo che sarebbe stata la cosa migliore che avessi mai fatto».
Prima di cominciare a scrivere, trascorse molto tempo a documentarsi su Cromwell e studiare a fondo il periodo. La reputazione perfida di Cromwell l’aveva sempre intrigata. Tanto fra i suoi contemporanei quanto fra gli storici, era comunemente ritenuto quasi un Himmler del sedicesimo secolo, e in passato i ritratti letterari – la commedia di Robert Bolt del 1960 A man for all seasons, The fifth queen di Ford Madox Ford – avevano adottato questa prospettiva. Perfino il suo biografo lo odiava. Ma a partire dagli anni Cinquanta Geoffrey Elton, uno storico di Cambridge, sostenne che Cromwell fosse stato uno statista lungimirante che aveva trasformato il governo inglese da un territorio feudale personale del re a una struttura parlamentare burocratica in grado di sopperire all’incompetenza reale e promulgare riforme attraverso la legislazione piuttosto che attraverso un ordine. Così facendo, aiutò a portare a termine lo Scisma anglicano senza lo spargimento di sangue e la degenerazione nell’assolutismo che si erano verificati in molti altri paesi europei. Quando iniziò a leggere di Cromwell, la moda accademica era andata avanti e una nuova generazione lo odiava di nuovo, ma lei trovò le affermazioni di Elton convincenti.
Come Robespierre, Cromwell sapeva essere spietato, ma promosse molte riforme sociali giuste, e per questo lei gli perdonò molto. Non era più una socialista fervente com’era stata ai tempi dell’università – non si sentiva offesa dal pragmatismo, e apprezzava un uomo che sapeva andare fino in fondo. Certamente non avrebbe mai fatto dei sentimentalismi, come aveva fatto Robert Bolt, sul nemico di Cromwell, il pio Tommaso Moro, che era morto per la sua coscienza assicurandosi che anche altra gente morisse per la sua coscienza.
«Sono contento di non essere come voi. […] Parlo della mente, che non pensa che all’altro mondo. Mi pare di capire che non vediate alcuna possibilità di migliorare questo di mondo».
Ora non sarebbe stata più in grado di scrivere della Rivoluzione francese, si rese conto – era troppo eccentrica, aveva perso troppa speranza, non avrebbe più provato quello che avevano provato quei giovani. Questo era un libro di mezza età: il suo Cromwell era un quarantenne, aveva viaggiato per tutta l’Europa, combattuto guerre, lavorato in ambito bancario, fatto esperienza in campo legislativo e alla fine, tornato in Inghilterra, era diventato uomo d’affari e assistente del cardinale Wolsey. Sapeva addestrare falchi e corrompere giurie, si diceva conoscesse a memoria il Nuovo Testamento ed era in grado di convincere il re che le sue idee fossero le proprie. Si fece la reputazione di manipolatore.
Rinchiudi Cromwell in una cella sotterranea al mattino: quando tornerai la sera lui se ne starà lì seduto su un cuscino felpato intento a mangiare lingue di allodola, e tutti i carcerieri gli dovranno dei soldi.
Veniva dalla strada, era figlio di un fabbro violento e alcolista di Putney, sembrava un assassino e faceva paura alla gente. Nessuno sapeva esattamente cosa avesse fatto durante i suoi anni all’estero, e quel periodo di vuoto, quel buco, era potente.
Lei decise di lasciare tale il periodo vuoto e saltare dal momento in cui Cromwell era partito dall’Inghilterra da bambino fino al momento, ventisette anni dopo, in cui si era stabilito a Londra. Soltanto raramente si inventava qualcosa dal nulla – quasi sempre c’era un accenno nelle fonti che le suggeriva. Molti dei suoi minuscoli dettagli romanzati provenivano dagli archivi – spesso dalle lettere pettegole inviate dagli ambasciatori alle loro corti. Nel seguito di Wolf Hall, Anna Bolena, una questione di famiglia, per esempio, c’è una scena in cui un messaggero consegna a Jane Seymour una lettera d’amore e una borsa piena di soldi che le ha mandato Enrico, nonostante fosse ancora sposato con Anna Bolena; Jane restituisce il denaro, poi prende la lettera e la bacia, ma la restituisce intatta. Questo arrivava direttamente dalla corrispondenza di un ambasciatore.

Non poteva sempre essere sicura che un personaggio fosse stato nel luogo di cui parlava lei nel momento in cui ce lo collocava, ma trascorreva ore e ore per assicurarsi che il personaggio in quel momento non fosse da qualche altra parte. «Una volta che decidi di giocare con la storia, devi fare i conti con una lunga serie di conseguenze», dice. «Avete presente la serie tv I Tudors? Be’, hanno deciso che era troppo complicato che Enrico avesse due sorelle, quindi le hanno fuse in una sola. Ma poi quella sorella doveva sposare qualcuno, e ora sono nei guai perché in realtà la sorella minore aveva sposato il vecchio Re di Francia, ma in una fase precedente avevano deciso che il vecchio Re di Francia era noioso, quindi avevano anticipato l’entrata in scena di Francesco I. Ma poi, oops, lei non può sposare Francesco I, quindi dobbiamo inventarci un re che possa sposare! Quindi diventa sempre più ridicolo». Dice: «Non riesco a descrivervi il disgusto che suscita in me vedere la gente distorcere i fatti. Se io dovessi distorcere qualcosa solo per renderlo più comodo o drammatico, sentirei di aver fallito come scrittrice. Se capisci quello di cui stai parlando, dovresti essere in grado di estrarre il dramma dalla vita reale, non mettercelo, come la glassa su una torta».

Traduzione di Valentina Bortolamedi

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