I morti sono reali. L’immaginazione di Hilary Mantel – Terza parte

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In occasione dell’uscita del romanzo di Hilary Mantel La storia segreta della rivoluzione,  pubblichiamo la traduzione della terza parte dell’articolo di Larissa Macfarquhar apparso sul «New Yorker» il 15 ottobre 2012 con il titolo The Dead Are Real.

 

Tornarono in Inghilterra nel 1986. Erano stati all’estero per nove anni. Era ora di tornare a casa. «Dopo dieci anni, si diceva, o tornavi a casa o non tornavi più, perché non ti ci saresti più trovato», racconta lei. «È difficile tornare alla piccola Inghilterra e alla sua pioggia incessante».
Quando era bambina viveva in un paesino nel nord del Derbyshire – non un bel paesino inglese, ma un cupo, freddo paesino del nord ai confini della brughiera, in cui viveva gente «diffidente e incapace di vivere la vita», scrisse nel suo memoriale, gente che lavorava nei cotonifici praticamente dall’infanzia, viveva in case anguste senza bagno né acqua calda, gente a malapena istruita, in scuole ostili.
«Ero consapevole, sin dalla prima lezione del primo giorno, di dover resistere a quello che avevo trovato lì. Quando vedevo i miei compagni e li sentivo urlare gorgheggiando “Buongiooorno signooora Simpson”, pensavo di essere finita in mezzo ai matti; e gli insegnanti, maligni e stupidi, a me sembravano i guardiani dei matti. Sapevo che non dovevo sottomettermi a loro. Sapevo che non bisognava rispondere a domande evidentemente prive di risposte, o che i guardiani ci ponevano solo per divertirsi e passare il tempo.
Dagli otto agli undici anni circa, visse con i suoi due fratelli, la madre, il padre e l’amante della madre, Jack. Era difficile stabilire il momento in cui Jack si fosse trasferito da loro; aveva iniziato ad andare lì per il tè sempre più spesso, finché un pomeriggio non se n’era andato via. Si piazzò nella stanza di sua madre, e il padre si trasferì in una stanza in fondo al corridoio. Questa disposizione ebbe una serie di conseguenze. La sua famiglia era sulla bocca di tutti, e i bambini a scuola le chiedevano chi dormisse in quale letto. I genitori di sua madre, ai quali era molto legata, smisero di parlare alla loro figlia. Per sua madre era impossibile andare nei negozi. All’inizio, aveva un solo fratello, e poi ne nacque un altro. Quando fu abbastanza grande da capire da dove venissero i bambini, diede per scontato che quel secondo fratello fosse figlio di Jack, e forse così fecero anche Jack e la madre, ma quando il bambino crebbe iniziò a somigliare talmente a suo padre che divenne chiaro che così non era. Sua madre, quindi, andava a letto con entrambi gli uomini.
In questo periodo scoprì che la casa era infestata dagli spiriti. Non era l’unica a percepirne la presenza – le capitava di sentire anche gli adulti parlare di fantasmi. Si rese conto che erano spaventati quanto lei, e non potevano proteggerla in alcun modo. Lei capiva già che il mondo era più oscuro e affollato di quanto potessero percepire i suoi sensi: c’erano i fantasmi, ma c’erano ancora anche quei morti che non erano fantasmi; era abituata a sentire conversazioni in cui membri di famiglia, vivi o morti, venivano menzionati senza alcuna distinzione. I morti quasi non le sembravano morti.
Fino ai dodici anni circa fu molto religiosa. «Quando ti inculcano la religione a un’età così giovane, o quando sei ricettivo nei suoi riguardi, come ero io, cominci a preoccuparti della realtà nascosta», dice. «Quest’altro mondo, il mondo parallelo, a me, quand’ero bambina, sembrava reale quanto il mondo in cui vivevo. Non che ne avessi un’immagine mentale – ma non ne mettevo mai in discussione l’esistenza. Avevo un sacco di conversazioni immaginarie con Dio. Credo che Gesù per me non fosse meno reale delle mie zie e dei miei zii; il fatto che non fossi in grado di vederlo per me era piuttosto irrilevante».
Da bambina, si sentiva perennemente una peccatrice. C’era qualcosa di terribilmente sbagliato in lei, ed era solo colpa sua, ma la sua possibilità di cambiare era molto limitata. Il senso di colpa cattolico continuò a controllarla anche quando smise di credere in Dio. La miseria della sua famiglia era onnicomprensiva e sconcertante, e non era possibile che fosse sua la responsabilità dell’infelicità dei suoi genitori? Non avrebbero potuto, senza di lei, avere la possibilità di vivere una vita migliore? Ma questi sospetti non erano potenti quanto l’effetto di qualcosa che le successe un giorno e che non può spiegare.
Aveva sette o otto anni, e giocava nel giardino dietro casa sua. Alzò lo sguardo. C’era qualcosa, nell’erba ruvida oltre il cancello.

Non vedo nulla, non vedo bene: a parte il movimento quasi impercettibile, un’increspatura, una turbolenza dell’aria.

Nel suo memoriale, dice di non poter scrivere di quest’episodio – tecnicamente, la sua prosa non è pronta.

Non c’è nulla da vedere. Nessun odore da annusare. Nessun rumore da sentire. Ma quel movimento, quell’insolente spostamento, mi provoca dei conati di vomito. Percepisco – alle estremità, ai limiti dei miei sensi – le dimensioni della creatura. È alta come un bambino di due anni. È spessa trenta centimetri.

Non la vedeva, ma sapeva che era una creatura diabolica. Capì anche che l’aveva contaminata.

La grazia fugge via da me, esce dal mio corpo come i liquidi da un cadavere.

Aveva peccato: aveva visto ciò che nessun umano avrebbe dovuto vedere. Non aveva solo visto – aveva guardato. E quindi era complice della cosa, che ora era dentro di lei.
«La prima cosa che penso è che ho visto il diavolo, che lui non aveva davvero intenzione di mostrarsi e che l’ho visto solo per una disattenzione da parte sua. So che se osservi gli errori degli altri – e loro sanno che li hai osservati – loro ti faranno soffrire per questo.
Quell’incontro la perseguitò per anni. «Aveva guastato la mia visione dell’universo, e mi sentivo su un terreno molto più precario. Fino ad allora, avevo pensato che la realtà nascosta mi fosse amica, e smisi di pensarlo», dice. «Sentivo che Dio non aveva fatto nulla per me, in quel momento. Forse non era poi così forte come mi ero immaginata, e le forze del male sembravano spassarsela indisturbate».
Venne fuori che la prima parte della sua infanzia era stata quella facile. Quando aveva undici anni, arrivò un furgone da trasloco e lei, i suoi fratelli, la madre e Jack si trasferirono. Non vide mai più suo padre. Si spostarono di qualche miglio, in una cittadina del Cheshire popolata dal ceto medio-basso. Un gradino più in alto. In quel posto nuovo, le case avevano aiuole di rose e finestre a golfo e bagni all’interno. Gli abitanti erano impiegati a Manchester. Parlavano in modo diverso e avevano facce diverse. Andava in una scuola nuova, dove aveva un bravo insegnante di storia.
«Dissi a mia madre: “Enrico VIII è interessante”. “No che non lo è”, mi rispose lei».
Non c’erano fantasmi nella loro casa nel Cheshire, ma il suo vecchio disagio venne sostituito da uno nuovo, peggiore: sua madre e Jack fingevano di essere sposati, ma non si erano trasferiti abbastanza lontano per mantenere il loro segreto tale; c’era gente che li conosceva da prima. Le fu dato un nuovo cognome, quello di Jack, ma, al contrario dei suoi fratelli, troppo piccoli per ricordare la loro vecchia vita, lei ricordava. Jack aveva un pessimo carattere. Le urlava contro; lei s’irrigidiva, diventava una creaturina che conosceva il suo segreto. La madre, come antagonista, gli dava più soddisfazione: la coppia litigava così spesso, e con una tale energia, che le sembrava si divertissero a farlo. Più avanti, durante l’adolescenza, cominciò a scrivere tutto quello che si dicevano. Si rese conto che, nonostante le loro litigate fossero terribili, erano anche divertenti, perché non cambiavano mai. Arrivò un punto in cui, mentre li ascoltava, poteva dire: «E ora lei dirà così, e luì colà», e avere ragione.
Solo poco prima della morte di lui, lei e Jack cominciarono a smetterla di parlarsi con diffidenza. Dopo la sua morte, il suo fantasma le fece visita, ma la sua era una presenza discreta.
Nei primi anni duemila, iniziò a lavorare a un romanzo, Beyond Black, su una grassa medium professionista di nome Alison, la cui infanzia selvaggia le ha lasciato la capacità di sentire gli spiriti infestanti – specialmente Morris, il fantasma di un malvivente cliente di sua madre. Insofferente riguardo al lato amministrativo del proprio lavoro, Alison assume un’assistente, Colette – magra, acida e in cerca di cambiamento.

Era riuscita a liberarsi di Gavin al modico prezzo di un divorzio fai-da-te; non era costato più di quanto sarebbe costato abbattere un animale.

Ma alla fine Colette se ne va, perché convivere con i fantasmi è qualcosa che nessuno farebbe mai, potendo scegliere.

«Pace e tranquillità?», strillò Morris. «Come potresti avere pace e tranquillità? Con un passato come il tuo? Nemmeno dieci anni, e i testicoli di un uomo sulla coscienza».
«Quali testicoli?», gridò Alison.
All’altro lato del pianerottolo, si aprì la porta di Colette. Indossava la maglietta che usava per dormire, decisamente bianca, seria. «Basta», disse. «Non intendo passare un’altra notte sotto questo tetto. Come posso vivere con una donna che discute con gente che non riesco a vedere, e che se ne sta fuori dalla porta della mia stanza a urlare “Quali testicoli?”. È più di quanto la natura umana possa sopportare».
 

Traduzione di Valentina Bortolamedi

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