La straordinaria storia di un uomo ordinario: «Madonna col cappotto di pelliccia» di Sabahattin Ali

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Madonna cappotto

PERSINO IL PIÙ SEMPLICE, IL PIÙ SFORTUNATO E, ADDIRITTURA, IL PIÙ SCIOCCO DEGLI UOMINI POSSIEDE UN UNIVERSO INTERIORE MERAVIGLIOSO E COMPLESSO AL PUNTO DA DESTARE STUPORE! PERCHÉ NON VOGLIAMO VEDERLO E PENSIAMO CHE COMPRENDERE E GIUDICARE IL PROSSIMO SIA LA COSA PIÙ SEMPLICE DEL MONDO?

DEVO NASCONDERE OGNI COSA, OGNI COSA E, SOPRATTUTTO, LA MIA ANIMA, IN UN LUOGO DOVE NESSUNO POTRÀ TROVARLA…

In queste due frasi è racchiuso il filo conduttore di Madonna col cappotto di pelliccia, delizioso romanzo breve, recentemente riscoperto dai giovani turchi e divenuto rapidamente un best seller internazionale, sulla necessità di imparare a guardare oltre le apparenze, aprirsi agli altri e amare, ma anche sui sogni che s’infrangono, la solitudine e la memoria come mezzo di sopravvivenza. L’opera, in prossima uscita da Fazi nella traduzione di Barbara La Rosa Salim, è stata scritta dal turco di origini bulgare Sabahattin Ali, romanziere ma anche poeta, giornalista e docente, ucciso nel 1948 mentre cercava di fuggire nel suo Paese natale, a soli 41 anni, presumibilmente da un emissario del governo di Atatürk che, a causa della sua dissidenza politica, lo aveva già più volte imprigionato.

Ambientato tra Ankara e la Berlino agli albori del nazismo, il romanzo ha una trama semplice quanto coinvolgente. Un giovane disoccupato incontra casualmente un ex compagno di scuola che gli offre un lavoro nell’azienda di cui è direttore. Il giovane – io narrante del romanzo – si trova così a condividere il proprio ufficio con Raif Effendi, dimesso e infaticabile traduttore dal tedesco, col quale, malgrado il disprezzo da parte degli altri colleghi – e in parte anche suo – di cui l’uomo è fatto oggetto, acquista gradualmente una certa dimestichezza, ma senza che ciò gli permetta di scalfirne l’impenetrabilità. Grazie però al diario dello stesso Raif Effendi, capitatogli tra le mani per una fortuita serie di eventi, l’uomo arriva a scoprire come, dietro la rigidissima routine casa/lavoro dell’insignificante e apatico collega, rassegnata vittima di angherie sia in ufficio che in famiglia, si celi un’insospettabile verità, che getta su Effendi una luce del tutto nuova.

Il diario svela infatti l’intensa storia d’amore di questi con Maria Puder, affascinante artista nonché libera e anticonvenzionale femminista sui generis, di cui si è innamorato vedendone l’autoritratto “con cappotto di pelliccia”, prima ancora di conoscerla di persona, nella Berlino degli anni ’40, dove era stato inviato dal padre per ragioni di lavoro. Nelle viscere di una città vitale quanto abbruttita dalla miseria e dal revanscismo, in cui iniziano a serpeggiare i germi del nazismo, dopo dieci intensi mesi d’amore e felicità, ma anche di malattia della donna e tenero accudimento da parte dello stesso Raif Effendi, questi è stato costretto dalla morte del padre a rientrare in Turchia, non prima di avere promesso a Maria di organizzare le cose in modo da poterle presto chiedere di raggiungerlo. Nonostante le reciproche promesse l’intenso scambio di lettere tra i due amanti a un certo punto è stato bruscamente interrotto dalla donna, cosa che ha fatto precipitare Raif Effendi in un’inconsolabile disperazione, spingendolo a rifugiarsi nel lavoro e a crearsi una famiglia con un’altra, pur senza riuscire, malgrado il rispetto e l’istinto protettivo, a instaurare un autentico vincolo spirituale né con lei né con le figlie (“Che cosa significano queste persone per me? Senza comunione spirituale che senso hanno i legami?”). E solo il casuale incontro con una comune conoscente ha potuto consentire a Raif Effendi, dopo 10 anni dal mai elaborato “abbandono”, di conoscere tutta la verità su Maria, sostituendo all’amarezza del presunto tradimento quella del rimorso.

Lo stile del romanzo è estremamente nitido e fluido, capace di esprimere la forza della passione e la complessità dei sentimenti umani con penetrante profondità e insieme poetica delicatezza, avvalendosi di un linguaggio di cristallina semplicità. Una purezza espressiva priva di ogni velleità di ricercatezza sensazionalistica, che ricorda il cult Stoner di John Williams, altro grande romanzo lontano dai clamori della storia pubblica e privata. Pur avendo al confronto una personalità molto più incline all’autoanalisi e al male del vivere, Raif Effendi è al pari di Stoner mite, straordinariamente dedito al lavoro, privo di grandi ambizioni e imprigionato in un matrimonio del tutto privo di affinità/complicità, ma soprattutto si muove come lui in punta di piedi, timoroso d’importunare gli altri con la sua presenza. Mentre però Stoner reagisce ai dolori che la vita gli riserva con paziente accettazione e vive sospeso tra incolmabile distanza e totale vicinanza al mondo, Raif Effendi, presumibilmente anche a causa dell’ingombrante famiglia allargata ricevuta in dote dalla moglie, sceglie di isolarsi in una solitudine interiore abitata solo dai ricordi dell’Amore perduto e da un totalizzante rimorso/rimpianto.

Attenti sino allo scrupolo nei rapporti interpersonali di qualunque tipo, ma anche impacciati e così insignificanti agli occhi degli altri da esserne spesso ignorati anche quando sono presenti, Raif Effendi e Stoner rappresentano la “normalità”, quella della tanta gente per bene, alacre e schiva, che non ama essere notata e alle parole gridate preferisce quelle pronunciate a bassa voce o il silenzio. È questa la ragione per la quale i due personaggi suscitano in chi legge un’immediata empatia, oltre al fatto che è facile identificarsi nel loro senso d’inadeguatezza/coscienza dei propri limiti e ancora di più nelle modeste aspirazioni di entrambi a una felicità fatta di piccole cose.

Il romanzo è calato in un’atmosfera di attesa, a tratti intrisa di magia e suspence, sospesa tra struggimento cechoviano e il clima sognante, intessuto di amorose corrispondenze ma anche di nostalgica disillusione, de’ Le notti bianche di Dostoevskij o de’ Le braci di Sandor Màrai.

Maria di Madonna col cappotto di pelliccia, come Nastn’ka per il Sognatore dostoevskijano, è lo strumento che permette a Efim di spezzare la sua terribile solitudine interiore ed entrare veramente in rapporto con se stesso e col mondo. Sebbene per ragioni diverse, la relazione con le due donne “salvatrici” è destinata a non durare, riconsegnando i loro due innamorati al preesistente stato, illuminato però, grazie alla forza del sentimento che Maria e Nastn’ka hanno provocato in loro, dalla consapevolezza di aver intensamente vissuto, sebbene per poco. Illuminanti sotto tale profilo le parole di Raif Effendi:

RIVEDO OGNI COSA. QUESTI RICORDI SONO ABBASTANZA RICCHI DA RIEMPIRE UNA VITA INTERA E, CONCENTRATI IN UN LASSO DI TEMPO COSÌ BREVE, SONO ANCORA PIÙ VIVI E POTENTI DELLA REALTÀ STESSA. MI MOSTRANO CHE NON HO MAI VISSUTO VERAMENTE UN SOLO MOMENTO DEGLI ULTIMI DIECI ANNI – I MIEI SENTIMENTI, PENSIERI, AZIONI VIAGGIAVANO LONTANO DA ME, COSÌ LONTANO CHE POTEVANO APPARTENERE A QUALCHE SCONOSCIUTO. AVEVO QUASI TRENTACINQUE ANNI, MA IL MIO VERO IO AVEVA VISSUTO SOLO QUALCHE MESE DI DIECI ANNI FA: DA ALLORA ERA RIMASTO SEPOLTO DENTRO UN CORPO ESTRANEO, CHE NON SIGNIFICAVA NULLA.

Le vite del Sognatore e di Raif Effendi, privi entrambi di autostima e di esperienza del mondo, senza le loro amate divengono prive di senso, solo un apatico subire il vano scorrere dei giorni, rifugiati l’uno nei suoi sogni avulsi dalla realtà, l’altro nel volteriano “lavorare senza pensare è l’unico modo per render sopportabile la vita”.

Il romanzo è infatti una grande storia d’amore, quello che fa sì che qualche mese valga una vita intera e supera i confini del tempo e dello spazio, sapendo farsi gioia anche nella rinuncia e nell’accudimento; un sentimento capace di un’assolutezza insieme sublime e devastante, la cui perdita equivale a perdere se stessi, tanto che la vita diventa solo un’attesa della morte liberatrice:

SEPPURE DESSI UN VALORE A OGNI GIORNO CHE PASSAVA ERA SOLO PERCHÉ MI PORTAVA PIÙ VICINO A QUEL MOMENTO. VIVEVO COME UN VEGETALE, IN STATO DI INCOSCIENZA, RASSEGNATO E PRIVO DI VOLONTÀ. PIAN PIANO COMINCIAI A NON PROVARE PIÙ NIENTE. NÉ TRISTEZZA, NÉ GIOIA.

Il diario di Raif Effendi costituisce l’epicentro di Madonna col cappotto di pelliccia, al cui interno svolge una duplice funzione: da un lato permette al collega-voce narrante che lo legge col suo consenso – e tramite lui ai lettori del romanzo – di conoscere la vera anima di Effendi, attraverso la condivisione del dolce/amaro percorso che lo ha portato a nasconderla in un mondo impenetrabile, dall’altro è il mezzo che permette a due solitudini, quella dello stesso Raif e del giovane collega/amico, di comprendersi e supportarsi a vicenda, sia pure in modo diversamente consapevole. Madonna col cappotto di pelliccia, come in precedenza già accennato e reso evidente dall’intenso passaggio citato in apertura di articolo, è non a caso, anche e innanzitutto, una parabola sulla necessità di non fermarsi alle apparenze, perché se si ha la forza di superarle si possono trovare negli altri tesori che mai ci aspetteremmo di rinvenire. Il romanzo è in altre parole una intensa riflessione/parabola sulla bellezza spesso nascosta dietro lo squallore della più bieca routine, e sulla dirompente potenza dei sentimenti che può celarsi dietro il muro di indifferenza costruito per sottrarsi alla curiosità/insidie del mondo

Madonna col cappotto di pelliccia: la struggente storia d’amore, amicizia e morte, di uno straordinario uomo ordinario.

 

Giorgia Rovere

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