«Le storie sono come le ciliegie» di Franco Faggiani

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ciliegi

Le storie sono proprio come le ciliegie: una tira l’altra. A volte sono anche pertinenti tra loro, svelano un filo sottile ma saldo che le collega.

A Bormio, in alta Valtellina, c’ero andato poche settimane fa su invito di Kultur Alpino e della Libreria di Metallia, per raccontare le vicende di Shizo Kanakuri, il protagonista de Il guardiano della collina dei ciliegi. Questi ultimi decisamente importanti nella vita del protagonista e dell’ambiente che lo circonda.

“Ma anche noi abbiamo i ciliegi di montagna”, era intervenuta Daniela, la libraia, “e arrivano proprio dal Giappone!”. Così ancora una volta la curiosità si era alzata di scatto sulle proprie gambe e ha iniziato a guardarsi intorno in cerca di nuovi orizzonti e di personaggi che li attraversano.

Come Luigi Torelli, nato a Villa di Tirano, proprio in Valtellina, nel 1810. Conte, statista, governatore, Ministro dell’agricoltura sotto il governo Alfonso La Marmora, amico di Mameli, Cavour, Garibaldi, tanto per citare, e soprattutto buon amministratore della natura e delle genti delle sue montagne, che non avevano mai vita facile. Li aiutò ad affrontare le invasioni delle locuste, che distruggevano i magri raccolti, ad avere maggiori cure per i delicati bachi da seta, a distribuire lo zolfo – fatto arrivare dalla Sicilia – sulle vigne per debellare alcune malattie vegetali e salvare l’uva per quel vino rustico che acquistavano i vicini di casa, gli svizzeri, e dava qualche manciata di denaro fondamentale per la sopravvivenza delle famiglie.

Le coltivazioni si facevano (e si fanno) sui terrazzamenti, strisce di terra rubate alla montagna e anche per questo necessarie di continue manutenzioni; altrimenti avevano vita breve, destinate a franare sotto il peso delle nevi e per l’erosione delle piogge.

Allora ecco la soluzione geniale del conte Torelli: piantare sui terrazzamenti dei ciliegi fatti arrivare dal Giappone, dalle regioni dove il clima era simile a quello valtellinese. Ciliegi all’origine selvatici ma ben presto domati dall’ingegno agronomico e dalle necessità degli agricoltori delle terre alte. Perché, pur se non erano così resistenti e imponenti come gli Yamazakura di Shizo Kanakuri, furono indotti con degli innesti a dare, dopo l’affascinante fioritura primaverile, preziosi frutti dolci e saporiti, utili anch’essi al sostentamento familiare. Alberi belli, sì, ma soprattutto utili, con le loro drupe rosse e tondeggianti buone da mangiare o da vendere ai mercati, e con le loro radici ramificate, capaci di tenere il terreno al proprio posto, di non farlo scivolare a valle portandosi appresso orzo, vigneti, patate.

I ciliegi voluti da Torelli vennero accasati in Valtellina intorno al 1860 (Shizo Kanakuri nacque nel 1891) e questo indica quanto questi alberi abbiano, da tempi remoti, valore estetico e concreto. “Da qualche anno”, mi spiega un ragazzo valtellinese che ha lasciato la città per tornare a fare il piccolo agricoltore di montagna, “accanto ad ogni baitello (costruzione in pietra e legno posta al margine dei campi, un tempo deposito di attrezzi agricoli) viene di nuovo ripiantato un ciliegio. Ha anche un effetto salutare per la mente: è bello, dopo il lavoro, restare seduti in silenzio sotto la sua ombra e, quand’è il momento, assaggiarne i frutti gustosi. Si è più in sintonia con la terra. Già adesso, tra i piccoli vigneti arroccati sui fianchi delle montagne, ad aprile e maggio ci sono bellissime fioriture. Ma la gente sul fondovalle va di fretta, non alza mai lo sguardo. Non sa che magia si perde”.

 

Franco Faggiani

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