Londra ha perso la sua Ivy

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Ivy

Aspettando il 21 marzo l’uscita di Più donne che uomini di Ivy Compton-Burnett pubblichiamo la traduzione di un interessante articolo del Guardian.

 

L’altro giorno ho pensato di andare a Londra per comprare, o magari anche solo per prendere in prestito, un romanzo di Ivy Compton-Burnett. Dopotutto, è la sua città natale. (La poveretta è venuta al mondo a Pinner nel 1884, e i suoi problemi non sono finiti lì). Non avrei mai pensato che la cosa potesse rappresentare una sfida. Davo per scontato che in mezzo alle pile di romanzi fantasy e alle biografie di ventenni che avrebbero fatto meglio ad aspettare qualche decennio prima di assoldare un ghost writer, nessuna libreria avrebbe negato qualche centimetro di scaffale a quella scrittrice fantastica che Mary McCarthy definì «una pensatrice radicale, uno de rari eretici moderni». Da qualche parte nelle biblioteche pubbliche della città o tra i caroselli di DVD da 1 sterlina, ero destinato a imbattermi in qualche suo tascabile dal dorso rovinato…

E invece, caro lettore, ho fallito. Ad essere onesti, se avessi passato un’ora nella British Library o avessi i soldi per permettermi un abbonamento annuale alla Biblioteca di Londra, sarei stato più fortunato. Ma non l’ho fatto. E non ce l’ho. È una vergogna. Compton-Burnett è la romanziera più adorabilmente acida del XX secolo: ha scritto 19 romanzi maturi pieni zeppi di dialoghi appassionati, intellettuali ed eleganti. Ci sono pochissimi passaggi descrittivi nei suoi libri, quindi a volte si ha quasi l’impressione di leggere delle trascrizioni, magari di qualche testimonianza fornita in tribunale nel corso di un processo per un caso particolarmente vile di violenza domestica. «A parte la violenza fisica e la fame», scrisse Edward Sackville-West, «non c’è nessuna caratteristica dei regimi totalitari che non abbia la sua controparte nelle atroci famiglie raffigurate nei libri di [Compton-Burnett]». Questi libri, il più delle volte, ruotano attorno al carattere crudele – ma drammaturgicamente molto interessante, per quanto ormai quasi dimenticato – del pater familias vittoriano. Compton-Burnett fa parte della nostra grande eredità letteraria del XX secolo tanto quanto Virginia Woolf o Elizabeth Bowen, e le sue storie si prestano a essere trasformate in drammi televisivi domenicali molto più delle storie dell’una o dell’altra. Se solo i direttori di canale ne avessero mai sentito parlare.

Scrive meravigliosamente, regalando ai suoi personaggi – spesso detestabili – battute taglienti degne di Dorothy Parker o di Oscar Wilde. Meglio ancora, i dialoghi isterici e strazianti dei suoi personaggi fanno di lei una sorta di Harold Pinter ante litteram. Anche la comparsa più insignificante – in maniera del tutto implausibile ma proprio per questo ancora più elettrizzante – ha l’intelligenza devastante di un AJ Ayer o di un Bernard Williams. I suoi romanzi raccontano la natura dolorosa e spesso disgustosa della vita familiare, in particolare delle famiglie facoltose della tarda epoca vittoriana: si aprono, figurativamente parlando, al suono di coltelli che vengono affilati e si chiudono al suono di quegli stessi coltelli che vengono rimessi al loro posto. Nel mezzo c’è quasi sempre un bagno di sangue, sebbene le ferite siano perlopiù mentali piuttosto che fisiche. E leggerle è un’esperienza squisitamente dolorosa e a tratti esilarante.

I suoi fan includono due delle nostre più grandi Hilary viventi (Mantel e Spurling, che ha scritto una biografia di Ivy quasi introvabile). Mantel ha scritto: «Ivy Compton-Burnett è una delle scrittrici più originali, abili ed eleganti del nostro secolo. Leggerla per la prima volta è un’esperienza unica. Non c’è quasi nessuna descrizione o ambientazione, la scrittura è ridotta all’osso, chirurgica. La storia si dipana attraverso pagine su pagine di dialoghi affilatissimi. A volte non è neanche chiaro chi stia parlando; le parole stesse non assomigliano a nessun dialogo vi sia mai capitato di leggere». Mantel ha scritto queste parole nel secolo scorso (Compton-Burnett è morta nel 1969), ma l’originalità, l’abilità e l’eleganza di Ivy non sono assolutamente state eclissate nel nuovo millennio.

Spurling ha scritto: «I suoi libri ebbero un grande riscontro di pubblico durante la seconda guerra mondiale; i lettori reagirono senza riserve all’onestà severa e sorprendente di una scrittrice la cui economia morale era sempre stata, per così dire, un’economia di guerra. L’effetto della rigidità e della distorsione della superficie non sembravano più un problema in un mondo in cui le mezze verità, le banalità convenzionali e i cliché erano stati temporaneamente banditi».

Mi aspettavo di trovare i romanzi di Compton-Burnett intessuti nelle fibre stesse della città. E invece, in un impeto di distrazione, Ivy è quasi scomparsa da Londra. (Il segretario di Stato americano Dean Acheson disse che è così che gli inglesi lasciarono andare il loro impero. La scomparsa di Ivi è molto più seria). Mi aspettavo senz’altro di trovare alcuni dei suoi romanzi in giro per la città, archiviati sotto la C; poco prima di Joseph Conrad. Mi sarei aspettato che gli editori – la Oxford University Press (OUP), la Penguin Classics, la Virago o qualche altro editore femminista – se la litigassero. E invece no: sugli scaffali delle librerie, nel punto in cui dovrebbero esserci i libri di Compton-Burnett, c’è un grande buco nero, mentre le ultime edizioni della OUP dei suoi lavori (con introduzioni di Penelope Lively) risalgono alla metà degli anni Ottanta. Vi sfido a trovarne una in vendita a Londra.

Ho peccato di grande ingenuità nel perdere tempo visitando le varie librerie di Londra; nel pensare che queste siano ancora custodi della letteratura in generale e della letteratura inglese in particolare. E invece non ho trovato nulla di una donna che, per quel che vale, fu nominata dama due anni prima della sua morte. La libreria Waterstone’s su Malet Street (a pochi passi dal collegio in cui Ivy ha studiato i classici) non ha nulla di suo (tra parentesi: questa orribile filiale di una catena sempre più filistea non merita di occupare questo bellissimo edificio che un tempo apparteneva alla Bloomsbury). Poi, una per una, ho visitato le altre librerie: Borders, Blackwells, Foyles. Niente. Speravo che almeno Perspehone Book su Lamb’s Conduit Street – un editore specializzato in libri di scrittrici dimenticate, perlopiù risalenti al periodo tra le due guerre – avrebbe salvato Ivy dall’oblio. E invece no. (OK, per motivi di copyright, ma comunque…).

Alla fine ho scovato una singola copia di Manservant amd Maidservant nella London Review Bookshop. Un paperback di 309 pagine mi è costato 11.50 sterline: una fortuna. Ma si spiega col fatto che si tratta di un’edizione importata. Molti dei romanzi di Ivy, infatti, sono in corso di ristampa nella serie Classics della New York Review of Books (NYRB). Almeno era un’edizione astutamente assemblata: l’immagine di copertina era un dettaglio austero di una scultura senza titolo di Rachel Whiteread, la grande artista degli spazi domestici che Compton-Burnett ha esplorato così chirurgicamente. L’introduzione, della scrittrice americana Diane Johnson, è una presentazione straordinariamente eloquente della vita e dell’opera di Compton-Burnett.

C’è solo un problema: le parole di Compton-Burnett sono state modificate per adattarsi alla presunta sensibilità dei lettori americani: le “s” sono state sostituite con le “z”, ecc. Per un lettore che cerca di immergersi nell’atmosfera dell’Inghilterra di fine Ottocento, è un pugno nell’occhio. Ma è inutile mettersi a disquisire sull’imperialismo culturale inverso in base al quale la letteratura inglese viene inviata all’estero per esserci restituita rielaborata secondo i gusti degli americani: dopotutto, la NYRB sta attualmente dimostrando un maggiore interesse per Compton-Burnett di qualunque editore inglese.

No, se c’è qualcuno che deve vergognarsi siamo noi. Devono vergognarsi gli editori inglesi per non aver ristampato i libri di Ivy. Devono vergognarsi le nostre librerie filistee per non avere in vendita quelle poche edizioni che sono effettivamente in commercio e dunque per non rendere il suo lavoro disponibile a un pubblico di lettori che sicuramente la amerebbe. Ma soprattutto dobbiamo vergognarci noi per il modo in cui stiamo trascurando il nostro patrimonio letterario.

 

Traduzione di Thomas Fazi

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