Lontano da Vukovar

•   Il blog di Fazi Editore
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Pubblichiamo il secondo racconto selezionato tra i tanti che ci sono arrivati da voi lettori, ci scusiamo per l’attesa e vi ringraziamo per la fiducia che ci rinnovate ogni giorno.

 

Lei oggi è qui con noi solo perché è bella.
Il resto non conta; non c’è anzi, o è solo fatto di bugie che farei meglio a risparmiarmi.
“Noi” siamo un gruppo di persone con poco o nulla in comune se non il fatto d’essere amici, in un modo o nell’altro, di Diego. “Oggi” è l’ultimo giorno dell’anno 1991. “Qui” è la magnifica villa sul Lago di Como che Diego ha ereditato (per modo di dire perché entrambi stanno benissimo, anche se con l’età hanno scoperto di preferire il clima della Costa Azzurra) dai suoi assolutamente non poveri genitori: un edificio di gusto vagamente neoclassico, in mattoni rossi e granito grigio, costruito nella seconda metà dell’ottocento. I locali hanno soffitti altissimi, inquadrati da cornici di gesso e ornati da affreschi: su quello della camera dove dormo ogni volta che vengo qua, svolazzano dei putti. Li trovo inquietanti, con quei loro sguardi sbarrati che fanno pensare che anche le creature angeliche, di tanto in tanto, fumino qualcosa di diverso dal tabacco. Mi piace, invece, l’affresco che orna una parete della cucina, dove sono sgattaiolato prima, spinto dalla curiosità di sapere che cosa ci fosse per cena e dalla voglia, magari, di assaggiare qualcosa: una natura morta composta in modo assai poco canonico con frutta e fiori e dipinta da un qualche anonimo virtuoso.
Ho fame, a proposito, ma tra poco si dovrebbe cominciare a mangiare.
Siamo già a tavola. Candele, segnaposto d’argento, e una grande composizione floreale. Il tavolo, nascosto da una candida tovaglia di lino, lo conosco benissimo; quando Valeria l’ho comprato, da un antiquario fiorentino, su incarico di Diego, ero con lei. È lunghissimo, in piuma di mogano, contemporaneo della casa. Dello stesso legno, comprate nella stessa circostanza e verosimilmente opera dello stesso ebanista, sono le sedie; comodissime, quasi delle poltroncine, rivestite di spesso damasco blu. Altra seta, strisce verticali in cui si alternano due toni d’azzurro, tappezza le pareti, ornate da due grandi dipinti ad olio. Sono vedute idealizzate della campagna romana, di buona fattura, eseguite verso la metà del Settecento: minuscoli contadine e contadini, tanto poveri da doversene andare in giro scalzi, ma abbastanza allegri (o forse ubriachi) da mettersi a danzare tra delle imponenti rovine, che hanno la buona grazia di sbriciolarsi con nobile eleganza, nel mezzo di un boschetto di radi alberelli.
I miei occhi, attratti dal turchese intensissimo del suo cielo, si soffermano per un momento su quello che è appeso alla mia sinistra, sopra alla collezione di colorati bicchieri veneziani disposta in calcolato disordine su grande buffet francese della fine dell’Ottocento: “Bello sì quel cielo. Profondissimo. Non mi piacciono quegli alberi, invece. Va bene la natura idealizzata, ma quelli sembrano appena usciti dal salone di un parrucchiere per cani. Sono alberi/barboncino”.
Davanti a me c’è la porta finestra, tanto ampia da prendere quasi l’intera parete, che dà sul grande terrazzo che in questo momento è coperto di neve. Anche lì sono stato prima, a fumarmi una sigaretta, restandomene a ridosso della casa, al riparo della grondaia. Non sono più abituato a stare in mezzo a tanta gente incravattata, ingioiellata e ciarliera; per questo quando gli altri ospiti hanno iniziato ad arrivare, ho sentito il bisogno d’isolarmi per riordinare le idee: per farmi convinto d’essere davvero qui, oggi, anch’io.
Non volevo sembrare scortese e faceva un gran freddo, anche se aveva smesso di nevicare, perciò mi sono sbrigato; ci avrò messo due o tre minuti, al massimo. Il tempo di finire la Marlboro con una raffica di boccate nervose e di lanciare un’occhiata alle luci di Como che si riflettevano nello specchio nerissimo, perfettamente immobile, del Lago.  “Immobile come tutto, come sempre da queste parti. Il mondo, ed è proprio per questo che me ne sono andato, accade altrove”.
Una risata scintillante non mi lascia proseguire in queste riflessioni, peraltro del tutto inopportune in una simile, gioiosa, occasione. L’ha lanciata una bionda che non conosco. “Boja, che pezzo …”. Belle spalle lasciate nude dall’abito da sera e un lungo collo, bianchissimo, di quelli che tutti dicono essere eleganti. Ha gli occhi lucidi, come se avesse già bevuto qualcosa o preso qualcos’altro. Sta rubando il palcoscenico a Valeria; una buona metà dei maschi presenti sempre pendere dalle sue labbra. Ridono anche loro. È lontana da me, ma sforzandomi riesco a sentire anch’io. Sta raccontando aneddoti sulla dabbenaggine di una sua domestica appena arrivata da Capo Verde.
Dalla cucina arrivano i piatti degli antipasti: una mezza aragosta per ognuno, dei gamberoni e del salmone affumicato, ovviamente scozzese e della miglior qualità: “Tenerissimo, grassissimo. Perfetto”. Sono messi in tavola anche dei grandi piatti da portata. Alcuni d’ostriche “si sa; non a tutti piacciono”, altri con prosciutto di Parma e del culatello “c’è gente che proprio non ne può fare a meno”, altri ancora con del foie gras “senza, per certi, non sarebbe un vero cenone”.
Bevo il primo goccio di vino della serata. Un Sauvignon di un famoso produttore friulano; una delle migliori scelte possibili, per l’aragosta.
“In certe cose, Diego è difficile che sbagli”. In cucina ho anche visto, già stappate, le bottiglie del rosso; toscano e di un produttore ancora più famoso: uno di quei vini che dovrebbero vendere nelle gioiellerie.
Mi cade il tovagliolo. Non sono imbarazzato, certe cose le ho superate, ma vorrei che nessuno se ne accorgesse. Con uno scatto, mi chino a recuperarlo. Vedo l’antico tappeto persiano che avevo sotto i piedi e, dimenticando i miei propositi, mi fermo a contemplarlo: “Isfahan, inizio 900, mi pare che mi abbia detto Diego”. Mi affascina il suo intricato disegno, anche se non ho la minima idea di cosa possa rappresentare; è di un colore scurissimo, non saprei se blu o nero, con qualche tocco di rosso, su un fondo più chiaro, blu cobalto. “Dovunque guardo, stasera, vedo seta blu. Un capodanno di seta blu; chissà se porta bene?”.
Volgendo lo sguardo verso l’alto, per controllare dove sia l’orlo del tavolo prima di riemergere “ci manca solo di tirare una capocciata”, resto stupito, quasi fosse la prima volta che lo vedessi, di fronte allo spettacolo del grande lampadario che pende sopra le nostre teste: la luce di una ventina di lampadine si decompone e si fonde negli infiniti riflessi di centinaia di pendenti di cristallo per diventare una scintillante cascata.
Non posso reprimere un moto di sollievo; nessuno si è accorto del mio piccolo incidente. L’attenzione di tutti è presa dal carrello che un cameriere sta spingendo nel locale. Scintilla anche il vulcano di ghiaccio che vi sta sopra; nel suo cratere, e viene l’acquolina in bocca anche a me, riposa una scatola di caviale gigantesca: “Saranno un paio di chili. Conoscendo Diego, sicuro che è di Beluga e che è russo”.
Il cameriere spinge il carrello da un commensale all’altro; qualcuno si serve da solo, altri si fanno depositare nel piatto grosse cucchiaiate di perle che luccicano nere sul bianco brillante della porcellana.
Brilla, luccica, scintilla tutto: il cristallo dei bicchieri, ancora quasi tutti in fila come bravi soldatini davanti ad ognuno di noi, e l’argento dei vassoi e delle posate; le collane e gli orecchini delle signore, e i loro sorrisi resi bianchissimi dalle premurose cure di dentisti rigorosamente svizzeri.
Mi accorgo che lei, al mio fianco, tace. Finora mi è sembrato si stesse divertendo. È bellissima, ti ho già detto, e Diego, seduto alla sua sinistra, ha continuato a corteggiarla come ha iniziato a fare, con la timidezza che ha sempre con le donne che davvero gli piacciono, dal primo istante in cui l’ha vista. In questo momento, però, un quarantenne con poco senso dell’opportunità sta chiedendo al mio amico dei consigli, mi pare di capire, su di una casa che vorrebbe comprare in una località sciistica, forzandolo a distogliere la sua attenzione da lei che, quasi non sapesse che altro fare, sembra persa nella contemplazione di quel che ha nel piatto.
Cerco una battuta da dirle; qualcosa per farla tornare a sorridere.
Lei si accorge del mio sguardo e me ne rivolge uno, carico d’interrogativi cui non so che rispondere.
“Buonissimo questo caviale”, è tutto quello che riesco a dire, distribuendone un generoso strato su un crostino che ho appena imburrato, “uno dei più buoni che abbia mai mangiato”.
“Avevo immaginato fosse caviale”, dice con disarmante sincerità, “l’ho visto al cinema. Come tutto stasera”. M’imita, preparandosi un crostino che assaggia: “Buono davvero. Assomiglia alla pasta d’acciughe. Col mio stipendio faccio fatica a comprare anche quella”.
Non è una battuta; so pochissimo di lei, ma ricordo che guadagna meno di duecento dollari il mese.

L’ho vista per la prima volta solo un mese fa o poco più, in una giornata piovosa; faceva anche freddo e soprattutto, nel ricordo non solo mio, c’era fango ovunque.

Due, infatti, sono le immagini che sono rimaste nella mente di tutti quelli che si sono ritrovati a Vukovar in quei giorni. La prima, soggetto allora delle foto sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo, è quella del fantasma della torre dell’acquedotto, visibile da ogni angolo della cittadina; forse lo ricorderai anche tu, se non sei giovanissima, con le colonne in cemento armato che sembravano essere state prese a morsi dalle artiglierie e il grande serbatoio in mattoni traforato dalle pallottole. La seconda, ed era una grande sorpresa per tutti i nuovi arrivati, il primo segnale che le cose stavano andando ancora peggio del male che potevano essersi immaginati, è quella del fango, appunto, in cui ci si ritrovava a sguazzare anche percorrendo le vie di quel che restava del centro; quasi che Vukovar fosse uno sperduto villaggio e non avesse 30.000 abitanti o che avesse smesso di appartenere all’Europa, perlomeno a quella civilissima della fine del secolo appena scorso, per trasformarsi in un angolo del terzo mondo dove rivivevano i momenti più bui dell’alto-medioevo.
E medioevale era pure l’assedio cui la cittadina croata, importate porto sul Danubio che, col suo corso, faceva da confine con la Serbia, era sottoposta da parte dell’esercito regolare di quel che restava della Jugoslavia, aiutato da milizie di volontari serbi che si erano già distinti, più che altro, per la loro efferatezza.
Dopo quasi tre mesi d’incessanti bombardamenti erano pochi i suoi edifici che non avessero subito danni; molti erano stati ridotti a gusci anneriti dagli incendi, altri erano stati sventrati dalle granate. Ovunque si vedevano mozziconi di pilastri e avanzi di muri. Le sue stesse strade, colpite da innumerevoli proiettili di mortaio e triturate dai cingoli dei carri armati, avevano cessato d’essere tali; coperte di detriti, di mattoni e pezzi di vetro, in certi punti avevano perso quasi del tutto il loro asfalto per trasformarsi in quelli che sembravano dei lunghi e stretti campi di patate.

In quelle condizioni anche il breve tragitto verso l’ospedale si era rivelato una vera avventura per noi quattro: io, due giornalisti italiani e uno svizzero. Che ci facessi lì non mi è facilissimo da spiegare; diciamo che l’Ungheria era vicina e qualcuno, non necessariamente Robert, mi aveva chiesto di andare a dare un’occhiata. Un tesserino da giornalista, ad ogni modo, lo avevo anch’io. Più facile dire perché stavamo andando all’ospedale; in mancanza d’altro, non potendo neppure tentare di raggiungere la prima linea dove si sparava ormai incessantemente, i miei colleghi speravano di fare lì qualche foto e di trovare qualche notizia utile per quelli che, con tutta probabilità sarebbero stati i loro ultimi articoli da Vukovar.
Cyrus Vance, l’inviato della Casa Bianca, visti falliti i suoi tentativi di mediazione, infatti, se n’era andato portandosi dietro anche l’ultima speranza di impedire ai serbi l’entrata nella città e di evitare il bagno di sangue che, da sempre, accompagna la fine d’ogni assedio. Questione d’ore, al massimo d’uno o due giorni, poi ce ne saremmo dovuti andare.

Con nostra sorpresa abbiamo trovato le corsie quasi vuote. La maggior parte dei pazienti, dei medici e degli infermieri era stata evacuata già da qualche giorno, quando dalla città, in qualche modo, era ancora possibile raggiungere il resto della Croazia.
Tutto era silenzioso. Tutto era tranquillo. Solo gli sguardi vuoti dei pochi che erano rimasti e le macchie di sangue sui muri, che nessuno si curava più di pulire, restavano a testimoniare il dolore e l’orrore che in quei mesi dovevano essere passati attraverso quel posto. Lo svizzero ha subito iniziato a fotografare: era bravissimo e c’è da scommettere che da quel nulla sia riuscito a tirar fuori un gran servizio; uno di quelli che le riviste patinate pubblicano per il sollievo dei lettori che le sfogliano nella confortevole sicurezza delle proprie poltrone. Io ho iniziato a scambiare due parole con un vecchietto che si era rotto il femore in una caduta il giorno prima e che si era rivolto a me in ungherese, la lingua di una minoranza degli abitanti della zona.
Il tempo di dire quasi nulla e un dottore è arrivato interromperci. Sessantenne, altissimo e magrissimo, aveva folti capelli bianchi troppo lunghi e gli occhi scavati e febbricitanti di chi non dorme ormai da troppo tempo. Nelle dita strizzava nervosamente il mozzicone di una sigaretta. Ci ha fatto segno di seguirlo e ci ha condotto in uno stanzone ammobiliato con qualche sedia di metallo, dei tavoli di formica e un vecchio distributore di caffè a gettone che, incredibilmente, sembrava funzionasse ancora.
Il medico, parlandoci in un inglese quasi privo d’accento, è subito arrivato al punto: “Per favore, datemi una mano a far andar via almeno le donne”. C’erano ancora sei infermiere e due dottoresse al lavoro nell’ospedale, ci ha spiegato subito dopo, accennando a tre di loro che fumavano, restandosene in piedi davanti ad una finestra socchiusa nell’angolo più lontano da noi del locale.
L’ho subito notata: era bionda ed era più alta delle altre due di tutta le testa. Per un istante si era voltata verso di me e avevo potuto vederla in viso. Era tiratissima, stanchissima. Sembrava troppo giovane per essere un medico, ma avrebbe potuto benissimo essere scambiata per una modella. Soprattutto era bellissima. Aveva gli zigomi alti di molte slave e lineamenti delicatissimi, sensibili.   Sebbene indossasse un camice spiegazzato, che non era più bianco da almeno una settimana, riusciva, con il proprio portamento, ad apparire elegantissima. Fumava anche lei, come le altre; lunghe tirate nervose che tratteneva a lungo prima di rilasciare lentamente verso lo spiraglio della finestra.
“Ha appena finito l’università”, mi ha spiegato il dottore, che aveva capito chi stessi guardando e a che stessi pensando. “Si sta specializzando in pediatria e … ” si era poi lasciato sfuggire un sorriso a un tempo amaro e dolcissimo prima di continuare “non lo dico perché è mia figlia, ma diventerà davvero brava. È voluta restare per cercare di stabilizzare le condizioni di un bambino di quattro anni. Era stato ferito da una granata di mortaio ed era troppo grave per essere trasportato”. Aveva scosso tristemente la testa, quindi aveva concluso spiegandomi la ragione del suo uso del passato: “Alla fine non ce l’ha fatta; c’erano, semplicemente troppi danni. È morto stamattina”.
Lei deve aver capito di cosa stessimo parlando e ci ha guardato Anche i suoi grandi occhi azzurri, per quanto arrossati dalla mancanza di sonno o, forse, mi sono commosso, dal pianto, oltre che infinitamente tristi, mi sono parsi indicibilmente belli; tanto profondi che, meravigliato, mi sono perso in loro, restandomene a fissarli a bocca aperta fino a quando lei, inarcando un sopracciglio, mi ha chiesto senza parole cosa volessi.
Le ho risposto voltando di scatto il capo, mentre sentivo il mio sangue risalire bollente verso le mie guance: niente, non volevo proprio niente. Soprattutto, e questa era la mia vergogna più grande, non c’era niente che potessi fare per lei.
Tornati all’appartamento che condividevamo, io e gli altri tre quella sera ci siamo comportati come se quello fosse stato solo un altro, normalissimo, giorno d’assedio. Abbiamo scritto o letto, ognuno per i fatti nostri, quindi abbiamo cenato tutti assieme con delle scatolette di tonno e di fagioli; abbiamo bevuto qualche birra e ascoltato i notiziari radiofonici. Alla fine abbiamo fatto girare un paio di … chiamiamole sigarette alternative e così rilassati ce ne siamo andati a letto.  Non abbiamo parlato di lei e delle sue colleghe; abbiamo cercato anzi di non pensarci neppure. Non era insensibilità la nostra; solo desiderio di auto-conservazione. Avevamo imparato ormai, in quella guerra, a vedere senza guardare e sentire senza ascoltare; era l’unico modo che avevamo per sopravvivere al senso d’impotenza e continuare a restarcene lì, non facendo altro che raccontare quel che ci accadeva intorno, senza sentirci per questo dei vigliacchi. E chi si sente vigliacco, ci dicevamo nei rari momenti in cui non riuscivamo a sfuggire il confronto con la nostra coscienza, va a finire che si comporta da eroe. E gli eroi, senza peraltro cambiare nulla del quadro generale delle cose, finiscono sempre per morire.
Ho provato a ripetermi quegli stessi ragionamenti quando lei è venuta a trovarmi, in quella zona di penombra che sta tra la veglia e il sonno. Non è servito a niente; ogni volta che mi pareva d’aver fatto pace con me stesso, di essere finalmente pronto a dormire, lei tornava, senza dirmi nulla, limitandosi a guardarmi con quei suoi occhi che dovevano avere appena pianto. E ogni volta era più bella.

Non so cosa sia accaduto agli altri, ma il mattino dopo, appena ci siamo rivisti, abbiamo cominciato a cercare un modo per aiutarla. Lo abbiamo trovato quando qualcuno ci ha telefonato per avvertirci di prepararci a partire. Si stava organizzando un convoglio che avrebbe portato via dalla città gli ultimi giornalisti ancora presenti; sarebbe dovuto partire l’indomani e i serbi, che evidentemente non volevano avere testimoni di quel che avrebbero poi fatto, si erano detti disponibili a lasciarlo transitare attraverso le loro linee. Mi pare di essere stato il primo ad aver avuto l’idea di approfittarne, ma non posso giurare che sia stato davvero così e, in fondo, la cosa non ha troppa importanza. Per certo sono stato io, in compagnia dello svizzero, ad andare all’ospedale a dirle cosa ci fosse venuto in mente.
Rivedo il suo volto impassibile mentre mi ascoltava; era come se non le importasse, come se nulla più, ormai, potesse riguardarla. Rivedo i volti di due altre donne, non so se medici o infermiere, che, mentre le parlavo, restarono a osservarci da lontano, in fondo ad un corridoio. Sono sicuro che avessero capito cosa fossimo lì a fare e perché lo stessimo facendo, eppure non c’era alcuna traccia di rimprovero o di accusa nelle loro espressioni; solo, e questo faceva ancora più male, una mesta, disperata, rassegnazione. Anche quando ho finito di spiegarle il nostro assurdo piano, lei non ha fatto commenti. Dopo un attimo d’esitazione, si è limitata ad annuire. È restata ancora un istante, poi è scappata via da me ed è andata da loro; le ha abbracciate e, con loro, è scoppiata a piangere.
Non abbiamo avuto modo di fare alcun serio preparativo. L’unico che ho portato a termine quello stesso pomeriggio, e che comportava una qualche difficoltà tecnica, mi è peraltro riuscito malissimo: ho preso una sua fotografia e l’ho messa al posto della mia sulla mia carta d’identità italiana, ma la sostituzione è risultata del tutto evidente; riconoscibile come tale a chiunque avesse prestato la minima attenzione. Il documento che, per cominciare aveva nella ex Jugoslavia solo un valore assai limitato, continuava inoltre ad avere scritto il mio nome e cognome; nel caso vi fosse stato un controllo, speravo che il miliziano serbo che lo avesse preso tra le mani, si confondesse, magari perché poco abituato ai caratteri del nostro alfabeto, tra Daniel e un’eventuale Danielle. Con questo, era comunque meglio di niente e glielo consegnai, appena prima di avviarci verso l’autobus che ci avrebbe dovuto portare fuori dalla città, raccomandandole di mostrarne, se possibile, solo la copertina.  Per completare la sua trasformazione in giornalista, lo svizzero le ha appeso al collo una delle proprie macchine fotografiche, mentre uno degli altri italiani le ha dato un documento, che si era fatto inviare per fax, in cui un giornale di Napoli la accreditava, in inglese, francese e tedesco, oltre che in italiano, come loro corrispondente.

Alla fine tutto è filato a meraviglia. Siamo arrivati all’autobus tutti e cinque assieme, chiacchierando tra noi come se stessimo per partecipare a una gita; il giovane ufficiale al comando del manipolo di poliziotti croati incaricati di mantenere l’ordine, dopo aver dato una rapida occhiata ai documenti dello svizzero, ha dato per scontato che fossimo un gruppo di colleghi e, senza verificare nient’altro, ci ha fatto segno di salire a bordo. Non c’è stato poi nessun altro controllo, neppure da parte dei serbi che ci hanno bloccato subito dopo la partenza, ma solo per assegnarci una scorta mentre passavamo attraverso le loro linee, e in poche ore, il tempo di fare con lei una lunga chiacchierata e di conoscerla meglio, abbiamo raggiunto Zagabria.

Ci siamo salutati lì, ma con l’aiuto di amici che avevo in città sono riuscito a non perdere le sue tracce, e ho continuato a sentirla anche quando, pochi giorni dopo, si è trasferita a Osijek, una cittadina non lontana da Vukovar dove pure infuriava una battaglia e dove pure c’erano un ospedale e dei bambini che potevano aver bisogno del suo aiuto.

Quando il mio amico Diego, l’unico che mi sia rimasto tra quelli dell’infanzia, mi ha telefonato per invitare me e Ale a passare il Capodanno nella sua villa “dai Gombo, venite. Ho troppi casini sul lavoro quest’anno e non posso andare via, facciamo una festa qui. Anzi, visto che saremo in pochi, magari porta qualcuno che conosci”, ho pensato subito a lei. L’ultima volta che le avevo telefonato si sentivano in sottofondo gli scoppi delle granate e di suo padre, se pure c’era qualche vaga notizia che lo voleva in buona salute, ancora non sapeva niente di preciso: una bella vacanza lontano da tutto, mi sono detto, non poteva che farle bene.

Il resto è stato semplicissimo. Le ho telefonato subito, lo stesso giorno, e con qualche fatica l’ho convinta ad accettare. L’altro ieri, poi, io e Ale che eravamo partiti in mattinata da Budapest, abbiamo fatto una piccola deviazione verso sud e siamo passati a prenderla a Zagabria dove ci attendeva.

Ed ora eccola qui, bellissima, mentre balla con Diego nel salone in cui ci siamo trasferiti alla fine della cena. Aiutata da qualche bicchiere di vino, sorride. Anche Diego sorride; non ne sarà innamorato, ma poco ci manca.
Mancano pochi minuti a mezzanotte. Lui a malincuore la lascia e mi chiede di aiutarlo; bisogna preparare le bottiglie di Champagne che attendono, nei secchielli lucenti di ghiaccio, sul tavolo da biliardo che, per l’occasione è stato ricoperto e spostato in un angolo del locale. Leviamo le gabbiette dai tappi e aspettiamo. Gli altri invitati preparano i bicchieri.
Mezzanotte. Facciamo partire i tappi. Como e il suo lago eruttano in un mare di fuochi d’artificio.
Lei sente le prime esplosioni e subito si butta a terra, rotolando sotto il biliardo.
Allibiti restiamo a guardarla. Nessuno dice nulla.
Lei capisce quel che sta succedendo e pare rilassarsi. Sorride. È imbarazzata, ma sorride. Per un momento pare che stia per rialzarsi. Ci prova. Non ce la fa. Torna a sdraiarsi su un fianco, porta le ginocchia al petto, le cinge con le braccia e se ne resta così, come una bimba appena nata, lamentandosi sottovoce.
Ale s’inginocchia al suo fianco e, per confortarla, le carezza i capelli.
Tutti gli altri, gentiluomini incravattati e gentildonne ingioiellate, guardano me. Nessuno ha il coraggio di farmi la comanda che leggo nei loro sguardi: “Ma cos’ha la tua amica? È pazza?”.
Peggio, non so proprio come spiegare loro, ha passato tre mesi a Vukovar.

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