Prefazione di Nadia Fusini a «Come un fucile carico: la vita di Emily Dickinson» di Lyndall Gordon

•   Il blog di Fazi Editore
A A A
home-novita-fucile-carico

Adoro le biografie. E questa di Lyndall Gordon è davvero avvincente, toglie il fiato. Più che una biografia, è una specie di sceneggiato, una fiction con tanto di lista di personaggi che ci introducono a un vero e proprio dramma che si struttura per scene; un dramma, dove in primo piano compaiono via via vari personaggi, che poi recedono sullo sfondo, mentre altri avanzano e i riflettori li inseguono. Intanto, le luci frugano nell’ombra e illuminano angoli scuri, e nel sottofondo, prima in sordina e via via sempre più forte, risuona una colonna sonora, in cui domina la voce ironica e unica, rara, rarissima, della grande assente, Emily Dickinson.
È il mistero della sua «vita sepolta» che ancora una volta la devota biografa insegue. Dico ancora una volta perché altri prima di Lyndall Gordon l’hanno fatto. Avendo di mira lo stesso Graal – ovvero quel piatto o coppa o inesauribile cornucopia delle sue poesie, che trasportano l’eroe viaggiatore e lettore in un “altro mondo”, su un piano magico parallelo al nostro, dove risplende la natura mistica della sua immaginazione. È sempre stato questo cuore mistico il magnete che ha attirato i successivi pellegrini a intraprendere il loro personale cammino per disegnare, nelle loro differenti biografie dedicate alla nostra eroina, le differenti mappe della loro ricerca. In molti, anzi in molte, si sono provati a sciogliere il mistero di una vita, che gli straordinari frutti creativi trasformano in allegoria; più che mai in America e in Inghilterra, naturalmente, ma anche qui da noi, in Italia, studiose del calibro di Marisa Bulgheroni e Barbara Lanati hanno provato.
Queste ultime, da studiose profonde della letteratura americana, hanno viaggiato entrambe soprattutto nella sua poesia; la materia che ha fornito la base per la loro interpretazione della vita di Emily sono state le sue poesie, e le sue lettere.
Il che vale naturalmente anche per Lyndall Gordon, e non a caso, ripeto, la colonna sonora della sua fiction in varie puntate sono le “parole” di Emily. Ma non si può dimenticare – ha ragione Lyndall Gordon – che queste “parole” sono state per anni e anni manipolate da altri, prima dalla “sorella” Susan, la moglie del fratello Austin, la quale fu il suo primo tramite, o messagger d’amore, e privilegiato destinatario; poi dalla sorella Lavinia e da un’altra donna forestiera, Mabel Loomis Todd, solerte e capace editor delle poesie manoscritte, che Lavinia le affida.
Maneggiata come una vera e propria arma di aggressione, la miracolosa produzione poetica di Emily si costruisce all’interno di una faida familiare, che spezza la famiglia Dickinson. È a questa faida che Lyndall Gordon ci istruisce non certo per amore del pettegolezzo, ma perché queste vicende di guerra intestina gettano luce su una storia sacra per noi devoti lettori; e cioè, su come venga a comporsi quel corpus di opere che veneriamo – le sue poesie, le sue lettere. Noi vogliamo, certo, sapere della sua esistenza mondana, ma in quanto è legata alla sua opera. La biografia di un poeta è come la biografia di un santo: vogliamo capire come il santo o il poeta giungano a compiere i loro diversi miracoli.
Il problema, in questo caso particolare, è che i miracoli di Emily Dickinson ci sono stati per anni e anni sottratti nella loro potenza da prepotenze grammaticali, lessicali e altri crimini verbali perpetrati per vendetta. Sì, per vendetta. Per gelosia. Per invidia. Per risentimento. Soffocato in un intrigo di passioni represse, o a mala pena mascherate, che dietro una paradossale retorica religiosa nascondono il tanfo dell’adulterio, dell’invidia sororale, della superbia di classe, il tesoro di carta che Emily lascia nel baule nella sua stanza verrà afferrato da mani rapaci, o da mani altrettanto possessive sottratto.
I biglietti di Emily negli anni diventeranno altrettanti pizzini, che nel passare di mano in mano si fanno sempre più incomprensibili.

Alla distanza di circa un secolo dalla sua scomparsa, sapienti editori hanno aggiustato errori e difetti di prospettiva, giungendo a un’edizione la più vicina possibile alla versione originale delle poesie, alterate nelle prime edizioni per l’insopportabile (al tempo) turbativa dell’orizzonte d’attesa grammaticale, sintattica, tematica di come doveva essere la poesia scritta da una donna. E per le passioni che si scatenano intorno al corpus poetico di una donna poeta, che si sapeva tale, ma che non si preoccupò di “pubblicare” quel che scriveva.
Che fu “assente” in vita dalla vita pubblica, e visse da un certo punto in poi raccolta nella sua stanza, che identificò come lo spazio della sua libertà. Basta «girare la chiave», ed «ecco la libertà», spiegò alla nipote Martha; e intendeva non quando la chiave apre la porta, ma quando la chiude alle spalle.
Perché? è sempre stata la domanda. Perché una giovane donna colta e intelligente e ironica e spiritosa e piena di grazia e di vita e così capace di amare – amare le amiche, le sorelle, il padre, il fratello, e i nipoti, e la natura e le piante e i libri – perché decise di «girare la chiave»? È chiaro che Lyndall Gordon – affermata specialista nel genere “biografia”, che di biografie ne ha scritte molte: di Virginia Woolf, di Charlotte Brontë, di Mary Wollstonecraft, di T.S. Eliot, di Henry James; è chiaro, dicevo, che Lyndall Gordon adora “le vite degli altri”. Se ne appassiona, fino al punto che il suo lavoro tenace, accurato, si rivela come una vera e propria vocazione. È una voce che sente – una voce che la chiama a “risvegliare” una vita vissuta alla sua propria verità; e la guida a una missione – che consiste nell’operazione complessa di restituire con pazienza e umiltà e industria e fatica all’opera il suo autore, o la sua autrice. Perché di vite letterarie si tratta, sempre e in ogni caso: esistenze che si sono espresse in parola.
Un tale operato implica uno speciale talento, perché di uno scrittore, di un poeta non si potrà scrivere la vita semplicemente elencando i fatti. Uno scrittore, un poeta – specialmente se donna – non compie azioni eroiche, né i suoi atti hanno di necessità conseguenze di tipo storico, politico, sociale. Non parliamo di quel genere di biografia, per così dire, patriottica, dove si mettono in fila gli eroi ai quali una nazione obbediente presta il dovuto rispetto ed erige monumenti in memoria.
No, qui si tratta di esistenze interiori, che sono sbocciate in frutti che sono anche e soprattutto “fiori del male” – sì, fiori del dolore.
È la tesi di questo libro: è il male di cui soffre che spinge Emily a vivere della sola gioia, cui si concede con una lussuria metafisica incomparabile a ogni altra più carnale, della sua poesia.
«L’abisso non ha biografi», spiega Emily. E ha perfettamente ragione, anche secondo Lyndall Gordon; la quale non è così ingenua da credere soltanto nei documenti, nelle prove fattuali…… Eppure scava, scava, come una vecchia talpa finché arriva a scoprire, addirittura, una vecchia ricetta, del tutto casualmente sopravvissuta, e da quella e da un certo viaggio a Boston e da una certa visita presso il dottor James Jackson, arriva a congetturare che l’amata Emily soffre di epilessia. E ricostruisce nel DNA della famiglia tale malattia. Del grand mal ha sofferto il cugino Zebina Montague, ne soffrirà il nipote Ned, e il padre Austin ne registrerà gli attacchi nel suo diario privato… In pubblico, però, non se ne parla; il grand mal, o il «male della caduta», in pubblico è rimosso, represso. Il dottor Jackson non ne pronunciò il nome, quando emise la sua diagnosi; però dette a Emily quella ricetta, in cui prescriveva la somministrazione di una certa medicina, che veniva usata in casi di epilessia. Suggerì, inoltre, uno stile di vita ritirato, da reclusa, e le vesti bianche, perché era importante l’igiene. L’attacco era meglio se rimaneva all’interno della casa, se non lo vedeva nessuno; ed era bene che il paziente venisse tenuto in ordine nell’abito e nella dieta, quasi a riequilibrare una certa scompostezza isterica della malattia.
L’epilessia era a quei tempi una cosa assai seria e assai disdicevole e poco dignitosa, soprattutto per una donna, per via delle convulsioni, che di certo alteravano l’ideale puritano del ritegno compassato. Della bellezza armoniosa. E composta. Sempre per ragioni più di decoro, che di responsabilità o di salute, meglio astenersi dal generare, in tale caso; e dunque, quanto all’amore, se ne poteva frequentare le fattezze più spirituali, più sublimate. Tanto più se le attese rispetto al matrimonio vero e proprio non erano poi così smodate, come nel caso della belle of Amherst, la quale così gioca con il “naturale” destino femminile: «Nata – addobbata per le nozze – avvolta nel sudario / In un unico giorno».
La malattia spiegherebbe perché Emily chiude dietro di sé la porta della stanza e dietro la porta chiusa vive sempre vestita di bianco. A custodire la reclusa vegliano due donne: Vinnie e Sue. La sorella di sangue Lavinia e la sorella d’elezione Susan.
Se nel settembre del 1851 Emily era andata in visita dal dottor Jackson, nel 1864 ritornò a Boston per farsi visitare agli occhi da un altro luminare, il dottor Williams. Ora, a quanto pare, i disturbi visivi accompagnano l’epilessia, di cui Emily evidentemente non era affatto guarita malgrado le cure. Anzi, nel chiuso della sua stanza, s’era consumata gli occhi a forza di scrivere lettere e poesie, che contenevano innumerevoli immagini e metafore, generate dalla sua esperienza dell’epilessia; metafore e immagini che ne registravano la tensione, addirittura l’esplosività, trasportandola nella lingua. Quasi che la malattia le avesse aperto le porte di un altro mondo, di un altro tempo, l’immaginazione ne risultava affetta, disturbata. Il ritmo dei versi era spasmodico, quasi non erano più versi, mancavano le congiunzioni, le parti cuscinetto che oliano la comunicazione; le parole sembravano pallottole incandescenti.
Ora, non v’è dubbio, anche lasciando perdere la ricetta e la medicina e l’illustre primario ecc. ecc.; non c’è dubbio che nella poesia di Emily Dickinson abbondino metafore esplosive che spalancano su visioni e sensazioni di terremoti, di vulcani, con tanto di lava e schegge di fuoco ed evocazioni del Vesuvio e dell’Etna… È vero, è così.
Legittima, a questo punto, è la domanda che Lyndall Gordon ci pone: da dove vengono? Resta da capire se è lecita dopo tutto la direzione presa per rispondere, e ammissibile l’ipotesi che attraverso i dati biografici si possano raggiungere le fonti della creatività. Cioè a dire, la creatività ha a che fare con le particolari condizioni di esistenza del genio? O più precisamente: il genio di Emily si modellò in quel suo proprio modo, perché visse come visse e soffrì quel che soffrì? Per via dell’epilessia, per via dell’adulterio del fratello, per via dei rifiuti che patì?
Lyndall Gordon non è del tutto sicura – nessuno lo è – che le radici della creazione si possano arrivare a toccare; ma in modo congetturale prova a raccontarci una storia che potrebbe spiegare, se non perché Emily scrive, perché nella sua lingua compaiono certe metafore, e non altre.
Grazie all’abbondanza dei materiali d’archivio, Lyndall Gordon, più che narrarci, ci drammatizza una storia che restituisce tutta intera ai suoi protagonisti; i quali come veri e propri attori entrano in scena con le loro proprie parole e pensieri, così come li hanno registrati tramite le lettere o nei diari, o nei giornali intimi, nelle autobiografie incompiute, nelle reminiscenze casuali, in interviste e memorie. La sua regia consiste nel farli dialogare tra di loro, e soprattutto con la poesia di Emily.
È il suo corpus poetico, del resto, che tutti gli attori del dramma vogliono possedere, conquistare: il corpus poetico di chi, come Emily, non si concesse mai a nessuno.

A tratti Lyndall Gordon ci trasporta in un romanzo à la James; a volte sembra di essere ne Le ali della colomba, ed Emily sembra ricalcare la fragilità di Milly Theale; mentre altre volte siamo in Ritratto di signora, avvolti nelle spire di Madame Merle, e altre ancora, nelle spire di Marie de Vionnet ne Gli ambasciatori.
Ma se questa biografia romanzata ha più personaggi, e tutti interessanti, due sono le assolute protagoniste: Emily – il sommo poeta – e Mabel Loomis Todd – l’avventuriera. La quale via via negli anni tramuta da beautiful new wife in femme publique, new woman, curatrice delle poesie di Emily, conferenziera…
Non che questo sia un giallo, ma non voglio togliere ai lettori il gusto della lettura, dunque non anticiperò gli sviluppi della trama. Ma sappiate che nel 1881 la bella e libera e anticonformista Mabel Loomis Todd arrivò ad Amherst e da quel giorno le cose cambiarono nella prima famiglia della città, la più importante, la più rispettata, la più ricca, la più potente…… Mabel, che aveva fiuto, definì Austin Dickinson «regale» e trovò sua moglie Susan «magnifica». Se Austin era il «re», e ogni onore e credito era a lui tributato, Susan era la «regina» – una donna colta, intelligente, che nella sua casa ospitava l’intelligentsia del paese, e intendo l’America…… I Dickinson erano, a tutti gli effetti, l’equivalente di una “famiglia reale” ad Amherst. O se volete, erano gli “eletti”. E tale elezione confermavano attenendosi al principio cardine della vita puritana, il decoro, la proprietà. Il nonno Samuel Fowler Dickinson aveva fondato l’Amherst College. Il padre Edward e il primogenito Austin, entrambi avvocati, erano gli amministratori e i tesorieri del college.
L’ardente Mabel, insieme con il compiacente marito, chiamato a ricoprire la cattedra di astronomo, furono accolti con garbo dalla buona società locale. Ma a Mabel non bastò. Come una sanguisuga si attaccò a Susan, sedusse il giovane figlio Ned, appena ventenne, e in men che non si dica il padre. Sì, proprio lui, Austin, il severo discendente di un ceppo che nei suoi ultimi rami vedrà decadere la propria forza morale, il rampollo di una dinastia dura e pura, si arrese alla forza della passione – una passione stravagante e tenace; e si concesse a emozioni che, a differenza della sorella poeta, in lui eruttano non in parole, ma in gesta erotiche.
Ed ecco la prima sorpresa: da una famiglia di puritani freddi e temperati come l’acciaio escono tre figli, Austin, Emily e Lavinia, tutti a loro modo appassionati. Sì, anche Lavinia. Ma in specie Emily e Austin.
Solo che, ripeto, se l’erotismo nelle poesie erotiche di Emily ribolle in metafisiche metafore e ossimorici voli di fantasia, in Austin si scatena nell’atto: Austin “agisce”. È questo il secondo fatto straordinario, e romanzesco. Basta rileggere La lettera scarlatta per comprendere quale ardore sessuale abita nel cuore puritano. Come che sia, Austin, che ha appena compiuto cinquant’anni, cedette alla tentazione della flessuosa Mabel che ne aveva ventisette, e impose il silenzio sul proprio adulterio.
La vita ad Amherst continuò a scorrere ordinata in superficie, mentre «sepolta» pulsava la passione. Austin aveva desiderato Susan come sposa, e lei all’inizio aveva risposto con riluttanza, quasi temesse il lato carnale della relazione coniugale, tanto che vestendo le parti dell’amante platonico lui s’era detto addirittura pronto a un mariage blanc…… Poi non era stato così, erano nati dei figli…… Ma forse da Susan non era stato trasportato alle vette di godimento, che toccò con Mabel. Susan, del resto, nella sceneggiatura della storia familiare propendeva per un altro ruolo, d’istinto si sentiva nella parte di Jane Eyre, un’orfana che più che sposarsi si vuole istruire, e mira più che altro all’indipendenza intellettuale. E sottovaluta i piaceri carnali. Così come Elizabeth Barrett Browning, nella stessa sceneggiatura, serve da modello a Emily.
Susan e Emily sono romanzesche nella loro esistenza quotidiana, modellano la vita sui romanzi che leggono. E leggono gli stessi libri: adorano Aurora Leigh e Jane Eyre e Cime Tempestose e Adam Bede e Il mulino sulla Floss. A definire la gioia che l’idea stessa dell’esistenza di George Eliot le comunica Emily usa la parola «gloria».
Fatto sta che ogni giorno, nella casa delle sorelle Emily e Lavinia, il bel tenebroso Austin, quasi fosse un novello Heathcliff, si sfrenava in appassionati incontri con Mabel, e tradiva la moglie Susan, che abitava nella casa accanto. E ogni giorno di più Mabel sfrontata godeva della sua conquista. E del suo potere, che cresceva.
Mentre la casa avita, la Homestead, detta anche il Palazzo, diventava una specie di Peyton Place. E la severa e chiara e pulita Evergreens, la casa di Austin e Susan, proprio accanto, sprofondava nel buio della menzogna.
Ripeto: Mabel arrivò con la sua bellezza allegra, vivace, flamboyante; e ambiziosa e bugiarda e falsa e ostinata com’era, si intrufolò dappertutto. Fu proprio Susan a parlarle della «sorella» Emily, che in città era un «mito». Subito Mabel volle conoscerla, visto che si interessava al genio e alla poesia e alla musica. Essendo una appassionata pianista e cantante, pensò a Schubert, che era morto misconosciuto; e tanto brigò che il 10 settembre 1882 riuscì a farsi portare da Austin in visita alla sorella reclusa: voleva cantare per lei. Emily però non si mostrò; cortesemente dal piano di sopra mandò al piano di sotto un bicchiere di sherry e un pizzino, con scritta una poesia per la cantante…… Non la fece, né la farà mai salire al suo piano, né mai le si mostrerà…… Emily non si lasciò sedurre.
In compenso il giorno dopo, insieme Mabel e Austin «passano il Rubicone», come l’eroico amante scrive nel suo diario, con metafora non so quanto felice. E cominciò la doppia vita del moralista Austin, mentre Susan languiva.
Quando Emily seppe, non ebbe dubbi con chi schierarsi. Lei amava davvero Susan, non come il marito.

La storia del torbido legame tra Mabel e Austin è venuta alla luce nella pienezza di dettagli nel 1980, e questa è la prima biografia che esplora nel modo più esaustivo e profondo le conseguenze della loro vita segreta e come essa influenzi e si rifletta sull’altrettanto segreta vita di Emily, aprendo così una nuova interpretazione della sua poesia… Ad esempio, quelle lettere che Emily scrive a un non identificato Padrone, o Signore – cui Emily si rivolge con audace passione – non potrebbero essere il frutto di una fantasia di adulterio, che scatta proprio perché Emily vive in prossimità di un adulterio reale, praticato dagli amanti sotto il tetto delle sorelle caste? E quelle ore d’amore rubate dagli amanti non avranno un qualche effetto perverso sul gusto erotico dei versi che Emily compone?
C’è un che di esplosivo nella materia poetica di Emily, perché c’è un che di esplosivo nella sua esistenza quotidiana. Quando Emily scrive «La mia vita era rimasta – un fucile carico – / In un angolo – finché un giorno / Il padrone passò – m’identificò – e mi portò via –», intende davvero quel che appare come una esaltante metafora.
La metafora del fucile carico – giustamente Lyndall Gordon fa notare che Gunn è il cognome della nonna di Emily e gun il nome inglese del fucile – sostiene lo schema assai elaborato e fitto di congetture su cui si basa la riscrittura della vita di Emily cui perviene Lyndall Gordon biografa. È esplosiva l’eredità che dà forma all’esperienza umana di Emily, ed erutta nella sua poesia: una eredità che si configura da una parte come la malattia, che scende per i rami; e dall’altra, come la faida familiare che la coinvolge.
Emily è una donna appassionata, ha forza di volontà e determinazione, e si ritrova non volendo al centro di un fitto e oscuro viluppo di rivalità familiari, sessuali, pubbliche e di ambizioni e desideri proibiti, che coinvolgerà più generazioni. Perché se la relazione adultera accende la mutua ostilità tra Mabel e Susan, l’odio continua oltre la loro morte nelle loro figlie: Millicent e Martha. Il corpo conteso, però, non è quello di Austin – che in effetti s’è dato senza remore all’amante, senza però liberarsi né lui della moglie, né lei del proprio marito – ma il corpo di Emily. Che a gara le une e le altre, madri e figlie, smembrano e ricompongono, per offrirlo in pasto totemico ai lettori.
Quanti segreti e bugie ci fa scoprire Lyndall Gordon dietro l’ apparente tranquillità della provinciale Amherst! E insieme quali paradossi accende nell’esistenza puritana lo scontro tra passione e devozione, tra obbedienza e libertà. E quali ossimori avvincono l’adultera Mabel alla verginale Emily…
Perché si dovrà per dovere di verità osservare che Mabel – che la tradì; o meglio, Mabel, con la quale Austin tradì la moglie e Vinnie e Emily, quella stessa Mabel, che derubò Susan del marito e della sua privilegiata intimità con Emily e con la sua poesia, che come una ladra si accaparrò tutte le carte che, per la pressione di Austin, Lavinia le cedette dopo la morte di Emily; bene, Mabel è, in realtà, la più fedele degli editor. E delle amanti. E viene il sospetto che, a lungo andare, più che a Austin Mabel consacri la sua devozione alla poesia di Emily…… Che ami veramente e soltanto Emily, la sua poesia.
È vero: Susan introdusse Emily in vita a un pubblico di uomini e donne colte – dal filosofo Emerson a scrittrici come Harriet Beecher Stowe e Frances Hodgson Burnett, da uomini di lettere come Thomas Wentworth Higginson al giudice Otis Phillips Lord, a Samuel Bowles, editore dello «Springfield Republican» – ai quali nel suo salotto parlava dell’assente. Susan amava Emily ed Emily amava Susan, era la sua «grande Sorella», erano coetanee e fin da ragazze passavano i pomeriggi in biblioteca insieme, discutendo dei libri che leggevano. È lei, ripeto, la destinataria di ben 276 poesie. Susan, oltre che sua infaticabile fan, fu la sua confidente, l’amica del cuore. Emily l’aveva corteggiata, l’aveva convinta, non potendola sposare lei, a sposare il fratello.
Ma più di Susan, è Mabel a capire in profondità la grandezza di Emily poeta. Sarà senz’altro un’intrusa, d’accordo, ma appena Emily muore, non pensa ad altro, se non a portare alla luce l’immenso tesoro della sua «vita sepolta».
Emily aveva pubblicato solo dieci poesie in vita. Ne aveva lasciate ben 1789 in un baule, raccolte in piccoli fascicoletti, o pizzini. Mentre in una specie di cache, o spazio di salvataggio temporaneo, sopravvissero più a lungo nel segreto le sue lettere.

Intorno a questo patrimonio si scatenò la guerra che Lyndall Gordon in questa biografia con brio e fascino racconta nella seconda parte del libro. E qui entriamo in un romanzo di Dickens, e più precisamente in Bleak House, o Casa Desolata, dove negli anni si succedono cause su cause riguardo a proprietà e possessi contestati.
Siamo nel sequel, ovvero nel seguito, dove si presentano i personaggi o gli eventi posteriori a quelli già narrati nei precedenti episodi. In questa puntata le luci si spostano su personaggi “minori”, meno “fiabeschi”; sono la figlia di Mabel, Millicent, e la figlia di Susan, Martha, o Mattie, a contendersi il campo. Le figlie difendono le rispettive madri e le loro opposte interpretazioni delle poesie della scomparsa… Più esplosiva, più moderna quella di Mabel e Millicent, più sentimentale e beneducata e antiquata quella di Susan e Mattie.
A questo punto noi lettori, giunti alla fine del percorso senz’altro arricchiti, anzi direi notevolmente più informati e più sapienti, potremo tornare a quei brucianti messaggi dall’aldilà con cui Emily ci scarica addosso il suo fucile carico, e – infinitamente più liberi anche di dimenticare le circostanze, le occasioni mondane, i modi, i luoghi e i tempi dell’esistenza terrena – tutte cose che Lyndall Gordon ci ha convinto che contarono, godere ancora di più di uno dei poeti più grandi della nostra tradizione, che ha conquistato l’immortalità.

Privacy Policy   •   Cookie Policy   •   Web Design by Liquid Factory