Un sogno di carne di Franco Marcoaldi

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Pubblichiamo l’introduzione di Franco Marcoaldi a Nebbia di Miguel de Unamuno, un grande classico della letteratura spagnola del Novecento.

 

Dalla nota finale del libro – autocelebrativa quanto basta – apprendiamo che la prima delle molte traduzioni del romanzo (a detta dell’autore, il suo testo che in­contrò più fortuna all’estero), fu quella italiana.
Era il 1921, e nel 1923 sarebbe comparsa La coscienza di Zeno. Sicché viene subito da chiedersi se Italo Svevo ebbe modo di leggerla, la «nivola» spagnola. Viene da chiederselo perché tra i due romanzi – peraltro figli di talenti agli antipodi tra loro – spira ugualmente una qualche insolita aria di famiglia, dovuta forse al clima comune del tempo in cui vennero scritti.

Entrambi i protagonisti sono due irresoluti perdigiorno. Entrambi vaghi, sognatori, e deboli di carattere, si affidano al caso sperando possa donare loro una qualche direzione di marcia per un’esistenza destinata altrimenti a trascorrere ed esaurirsi nella più totale accidia. Ed entrambi troveranno, non tanto il senso, quanto l’ossessione capace di occupare per intero le loro giornate, nella sfera amo­ro­sa; sfera per sua stessa natura fantasmatica e irrisolta, e dunque la più idonea per strutture mentali e caratteriali decisamente più attratte dal principio di possibilità che da quello di realtà. Infine, per entrambi, dediti a una comune filantropia amorosa (Zeno con Carla, Augusto con Eugenia), si prospetta una vicenda inequivocabilmente tragicomica: sempre sospesa tra il dramma e la commedia.
Le analogie finiscono qui, ma non sono – mi sembra – di poco momento. A partire forse proprio da quest’ultima; da quella tonalità tragicomica, tanto più sorprendente in un autore come Unamuno, da cui un lettore comune si aspetterebbe piuttosto una vena tutta e soltanto tragica, come invita a pensare il titolo stesso del suo libro capitale: quel Sentimento tragicodella vita, per tanti versi precursore dell’esistenzialismo.
E invece no. In Nebbia si respira un’aria di «tetra buffoneria»: forse proprio perché al centro del libro sta l’Amore. Ed è noto a tutti come i dolori procurati da questa passione siano al contempo i più tremendi e i più fatui; i più violenti e i più ridicoli. Ma l’Amore, allo stesso tempo, svolge qui anche un’altra importantissima funzione: la sua natura intrinsecamente equivoca e fantasmatica è infatti la migliore controprova della «nebbia» in cui è immersa l’esistenza di ogni uomo. L’Amore, insomma, è la quintessenza di quel sogno incompiuto e ininterrotto in cui navighiamo dipanando la matassa del nostro destino diretti verso un nulla che mai raggiungeremo, perché non è mai stato; un sogno dove sognati e sognatori mutano continuamente posizione e ruolo, tanto da rendere inafferrabili i contorni del sogno stesso. E dunque ontologicamente incerta la personalità di chi ha sognato: sia esso il protagonista del romanzo, o addirittura il narratore che l’ha creato.
Da questo caleidoscopio di forme infilate una dentro l’altra, da questo vertiginoso precipizio pirandelliano, non può – ovviamente – uscire indenne la stessa forma narrativa. Se non c’è una trama prestabilita, dal momento che la trama è come la vita (cioè a dire non segue uno spartito, ma definisce ritmo e armonia della canzone via via che la si canta); se i personaggi prendono forma e sostanza soltanto a furia di parlare, spesso e volentieri senza alcun costrutto, essendo il loro carattere precipuo proprio quello di non averne alcuno… beh allora questo fluire interminabile della parola, questo prologo infinito a un libro che non c’è, non lo si potrà certo chiamare romanzo, novela, ma per l’appunto nivola, «novellona», «nuvolona»; ulteriore richiamo a quel­l’elemento aereo, che meglio contrassegna una vita inafferrabile, incommensurabile, indefinibile.
È vero che soltanto poche pagine dopo, Unamuno ci ripensa e dice che no: questo è un romanzo a tutti gli effetti. Ma l’improvvisa torsione fa parte del funambolismo del­l’autore, e della prospettiva doppia, anzi multipla, in cui inscrive ogni fatto, emozione, personaggio; come bene dimostra la domanda che fa da refrain al libro intero: «Entità reale? Reale come l’immaginazione, ovvero immaginaria come la realtà».
Un approccio siffatto, naturalmente, dà luogo a risultati alterni. Può spingere la scrittura a vorticose fantasie, o al contrario impastoiare il comportamento dei personaggi in vaghezze e incongruenze plateali; può consentire al filosofo-romanziere la formulazione di domande radicali dietro un’apparente chiacchiera da caffè, oppure indurlo a narcisismi fuori luogo.
Quel che è certo è che questo scapicollato viaggio sulle montagne russe dell’immaginazione si rende possibile – paradossalmente – proprio perché si affida a una vicenda narrativa dall’incipit volutamente basso, dimesso, ben indicato dal procedere svagato e fluttuante di Augusto, il protagonista; uomo ingenuo e lirico-sentimentale oltre misura, che dopo aver vissuto a lungo sotto l’ala protettrice della madre, ora si trova ad amministrare un discreto patrimonio, mentre passa le giornate tra interminabili dormite e interminabili partite a scacchi, senza avere alcuna idea su cosa fare della sua esistenza.
Per un uomo del genere, che uscendo di casa non sa neppure se andare a destra o sinistra, cos’altro se non il caso – «intimo ritmo del mondo» – potrà decidere il futuro corso delle cose? Ma è un caso (e questo Unamuno non lo dice), che non sta sospeso nel vuoto pneumatico. No, è un caso mosso da un precisissimo appetito: quello amoroso, sessuale, erotico.
Sarà dunque la donna, l’irraggiungibile donna, non tanto a donare nuovo senso (che semmai lo farà svanire completamente), ma a stabilire l’itinerario di marcia; per quanto contorto e fallimentare esso possa risultare.
Il femminino, agli occhi di Augusto, si incarna inizialmente nella figura di Eugenia, una giovane pianista legata sentimentalmente a un ragazzo che a Roma definirebbero impunito; motivo per lei di incontenibile attrazione. «Sì, perché gli altri, quelli che non sono né rozzi, né bruti, né egoisti, non sono uomini… Sono finocchi!».
Eh già; il raffinato, lo spirituale, il metafisico Unamuno non rifugge affatto dai luoghi comuni, anche dai più triviali. Si potrebbe anzi sostenere che proprio grazie a essi, può imbarcarsi poi nelle più sottili e vertiginose congetture. Ad esempio, se Augusto è innamorato dell’Amore e non di Eugenia – come sostiene l’amico Vìctor – è inevitabile che l’incontro con quella donna finisca poi per muoverlo a un desiderio dissennato per ogni femmina incontrata sulla via. «Sei passato dall’astratto al concreto, e dal concreto al generico; dalla donna a una donna, e da una donna al­le donne».
E se Augusto ribatte: «Ma questa è metafisica», a Unamuno non par vero. Cos’altro è infatti Amore, se non pura metafisica? E di cos’altro parla il libro, se non del folle tentativo di dare ordine e sostanza a quanto invece è soltanto frutto del caso e figlio della nebbia? Lo stesso Augusto se ne convincerà ben presto facendolo notare al cane Orfeo, unico personaggio sapienzale del romanzo proprio perché sprovvisto di parola: «Non ne posso più di dormire un sonno soltanto! Il sogno di un uomo da solo è l’illusione, l’apparenza: il sogno di due innamorati è la verità, la realtà. Che cos’è il mondo reale, se non il sogno che tutti sognamo, il sogno comune?».
Le svariate storie amorose e matrimoniali che fanno da contorno alla vicenda principale, inviterebbero a maggiore prudenza riguardo alla bontà di questo assunto. Resta comunque il fatto che al povero Augusto non sarà data la possibilità di saggiare il sogno comune degli innamorati. Dapprima a causa del rifiuto di Eugenia, poi per una sua personale indecisione connessa all’improvviso poligamismo mentale cui si è già accennato, e infine per il tragico trabocchetto che sempre lei, la perfida Eugenia, gli tende promettendogli una vita matrimoniale da cui si ritrarrà all’ultimo momento.
Nel frattempo, la scoperta tardiva dell’universo femminile è diventata per Augusto un’ossessione talmente pervasiva, che l’uomo decide di trasformarla in materia di studio. E a tal fine si rivolge all’erudito Antolìn S. Paparrigòpulos, il quale gli riferisce di una curiosa teoria avanzata da un oscuro scrittore olandese del Seicento: la donna avrebbe più individualità dell’uomo, ma anche meno personalità; perché unica sarebbe l’anima dell’intero universo femminile. Disperdere le proprie energie non ha dunque alcun senso: conosciuta una, le si conosce tutte. Ecco perché, stando alle parole dell’amico Vìctor, «l’unico laboratorio di ginepsicologia è il matrimonio».
Ed ecco anche perché lo scapolo non ha alcuna chance di comprendere la psicologia dell’altro sesso, proiettato com’è al di là del dato di natura; in quel regno metafisico dove spera di ripetere ad libitum l’istante pieno che solo l’illusione dell’innamoramento pareva avergli garantito: quell’istante in cui si disfa e al contempo prende corpo la nebbia dell’esistenza. «Grazie all’amore sento il corpo dell’anima, lo tocco. Il cuore stesso dell’anima mi duole grazie all’amore, Orfeo» – sentenzia Augusto in un altro dei suoi dialoghi-monologhi col cane. «E l’anima in se stessa, cos’è mai se non amore, se non dolore incarnato?».
Purtroppo per lui, però, quell’istante in cui gli occhi dell’amata avevano inchiodato il corpo al servizio dell’anima, trasformando in carne le idee, e il sogno in «febbrile sangue», non soltanto è già trascorso, morto, finito per sempre, ma si è rivelato come l’esatto contrario del sogno condiviso, preludio della cocente beffa che Eugenia gli ha apparecchiato con scientifica malizia.
Augusto riprecipita così nella doppia solitudine della materia e dello spirito. E sciolta nuovamente l’anima dall’armonia del corpo, non gli resta che perdersi – in compagnia del suo creatore – tra «brume celestiali e nel profondo di tenebre voraci». Ferito mortalmente dalla beffa che gli ha teso Eugenia, non gli resta che farsi beffa di se stesso divorandosi da solo: confondendo il sonno con la veglia, la finzione con la realtà, per affogare finalmente in quella universale nebbia dove ciascuno diventa mero spettacolo del proprio Io.
Siamo alle pagine finali del romanzo: quelle in cui il protagonista e il suo creatore si incontrano e si scontrano cercando di distruggersi reciprocamente. Comincia Unamuno ricordando ad Augusto che la sua sorte, e la sua fine, è esclusivamente nelle proprie mani, non essendo lui «né vivo né morto» ma soltanto un’entità immaginaria, un mero prodotto della propria fantasia. Al che l’altro ribatte che semmai è Unamuno l’entità immaginaria, il pretesto che ha consentito alla sua storia di venire al mondo.
Insomma, ci risiamo: «Quando un uomo addormentato e abbandonato sul letto sogna qualcosa, che cosa è più reale? Lui in quanto coscienza che sogna, oppure il suo sogno?». Ovvero: e se fosse che morendo Augusto, morirebbe anche Unamuno? Che risvegliato Dio, cessasse il sogno che gli ha dato vita, e dunque lo scrittore riprecipitasse nel nulla da cui è uscito soltanto per un attimo? Lui, e tutti i suoi lettori, altrettante creature «nivolesche»?
Soltanto le parole di un bambino, riusciranno a fissare con fulminante icasticità questo profluvio di congetture mentali destinate altrimenti a riprodursi senza fine e senza soluzione. «Ma il gatto Felix, quello dei racconti, è vivo? Voglio dire: è fatto di carne?», chiede Miguel allo zio Unamuno. E lo zio riespone nuovamente la tesi a lui tanto cara: racconti e realtà, menzogne e sogni, sono la stessa cosa. «Ma allora», ribatte il piccolo, «Felix che cos’è? Un sogno di carne?».
Sì, proprio così: un sogno di carne. Nel pungente paradosso di Miguel è colto come meglio non si potrebbe il senso più profondo di questo romanzo-nuvola, avvolto nella nebbia.

Franco Marcoaldi

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