Tradurre Elizabeth von Arnim

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In occasione dell’uscita di Una principessa in fuga, abbiamo chiesto alla traduttrice Sabina Terziani di raccontarci la sua esperienza con la traduzione dei romanzi di Elizabeth von Arnim.

 

«Non stiamo più sdraiati sotto un albero a contemplare il cielo attraverso le dita dei piedi, ma lavoriamo e fatichiamo; d’altronde non si può starsene trasognati a stomaco vuoto, se si vuol essere gente di polso: bisogna muoversi e mangiare bistecche», dice Robert Musil nel suo capolavoro, L’uomo senza qualità; e sappiamo bene quanto uno stomaco soddisfatto sia fondamentale per l’esercizio di un pensiero lucido e all’altezza delle scelte che la vita impone alle protagoniste dei romanzi della nostra Elizabeth. E infatti quando il sogno o il tormento vorrebbero allontanarla dalle cose del mondo, Elizabeth nelle sue varie incarnazioni romanzesche trova sempre qualcuno che la riporta alla pratica essenziale: nutrirsi. Ma le protagoniste di questi romanzi vogliono tutto: il pane e le rose, il nutrimento e la bellezza, cose che del resto negli stessi anni (intorno al 1911) anche Rose Schneiderman rivendicava davanti a una platea di ricche attiviste per i diritti femminili. Certo, per il personaggio Elizabeth non è difficile guadagnarsi le rose, perché parte avvantaggiata da una collocazione sociale che le permette di soddisfare qualsiasi desiderio. Eppure liberare il desiderio non è impresa affatto scontata per nessuna delle figure femminili di von Arnim, a partire da Un incantevole aprile, dove letteralmente l’unione fa la forza: quattro donne creano un’alleanza dapprincipio improbabile che rende possibile a ognuna la resa dei conti con i propri desideri attraverso l’esperienza della bellezza di un luogo vissuta in compartecipazione e autonomia.

I luoghi, che siano un giardino in Pomerania, un prato di montagna, una fattoria in Provenza o un cottage coperto di rampicanti nell’idilliaca campagna inglese, con la loro tangibilità rivelano dove stava l’inganno, prima, dove stava la mancanza di presa sul reale da parte della protagonista. Ed è nella descrizione dei luoghi che la scrittura di von Arnim pone la prima sfida traduttiva. Sin dall’inizio ho considerato che uno degli aspetti più importanti dello stile dell’autrice fosse proprio il lessico con cui costruisce i luoghi nominando gli alberi, i fiori, la fisionomia del paesaggio. Non è certo difficile aprire un dizionario e cercare il nome esatto di quel particolare cespuglio o di quella varietà di rosa; la corrispondenza c’è sempre, e male che vada si potrà ripiegare su un termine latino. No, non è difficile, ma bisogna farlo, bisogna considerare importante la precisione lessicale, altrimenti il lettore si ritrova in mano una cartolina arabescata di luoghi comuni, non un ritratto dal vero che coincide con uno spazio psichico.

Il mio secondo obiettivo è stato appunto evitare l’effetto cartolina, condanna di molte scrittrici “per donne” tradotte. Ho cercato di ripulire il testo da quel particolare effetto di ingentilimento dei sentimenti, di sfumato delle emozioni; da quella patina di pittoresco stesa sul corpo vivo della letteratura che, vorrei dirlo, non nasce con un fiocco rosa o azzurro appeso sul frontespizio. Uno chalet tutto per me? No, grazie, preferisco Un’estate in montagna. Buona parte del mio lavoro di traduzione di un classico come Shirley di Charlotte Brontë è consistito nel confrontarmi con la vecchia versione per togliere orpelli e velature e riportare alla luce una certa violenza che è connaturata allo stare al mondo delle donne con e contro gli uomini.

In von Arnim la “lotta di puro prestigio” passa attraverso l’ironia e il giardino che salvano Elizabeth da un matrimonio soffocante con l’Uomo della Collera, mentre in Una principessa in fuga l’ironia feroce dell’autrice è riservata alla traiettoria di vita di Priscilla, la sua eroina più negativa, una donna incapace di mettersi veramente in discussione nonostante le prove cui si sottopone con comica tenacia (c’è molta tenerezza invece nell’ironia che accompagna le peripezie di Mumsie e di sua figlia Rosie, criminali non solo gioiosamente impunite ma persino riccamente ricompensate). E quindi i dialoghi ritmati, le schermaglie dialettiche: come farli scintillare? Rispettando la semplicità sintattica di questo inglese senza cedere alla tentazione di celebrare l’ironia con complessità posticce; non lasciando indietro nessun doppio senso o gioco di parole. Solo restituendo la scorrevolezza di una scrittura “media” è stato possibile esaltare il gusto spudorato per il malinteso, per l’equivoco cosmico che fa da motore ad alcune storie di Elizabeth von Arnim.

Ma anche quando l’autrice si sofferma sulle “cose da donne”, sulla leggerezza di un vestito fatto d’argento e d’aria («È facilissimo sfilarselo, basta scuoterlo e cade»), sul contenuto di un cesto da picnic o sulla composizione di un’aiuola, è necessario prendere sul serio la frivolezza riservandole la stessa cura che si ha per l’ironia, perché la sapienza stilistica di von Arnim consiste appunto nell’aver fatto scontrare e reagire frivolezza e ironia, ovvero materia (minuzia e merletto) e dialettica (sguardo e satira), in un processo in cui è l’arabesco del merletto a orientare uno sguardo implacabile sul mondo.

 

Sabina Terziani

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