Tradurre «Peredonov, il demone meschino» di Fëdor Sologub

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Demone meschino

Vi proponiamo un articolo di Silvia Carli, la traduttrice di Peredonov, il demone meschino, che ci racconta la sua esperienza con la traduzione del romanzo di Fëdor Sologub.

 

Non si può inserire un uomo in una situazione assurda se è assurdo l’intero mondo in cui egli vive; né si può farlo se s’intende per assurdo qualcosa che provoca una risatina o un’alzata di spalle. Ma se s’intende la patetica condizione umana, se s’intendono tutte quelle cose che in mondi meno sinistri sono legate alle aspirazioni più nobili, alle sofferenze più profonde, alle passioni più intense – allora, chiaramente, abbiamo la rottura necessaria, e un patetico essere umano diventa assurdo per una sorta di contrasto di secondo grado. (Nabokov)

La mia ritraduzione di Peredonov, il demone meschino arriva dopo 55 anni dall’ultima traduzione di Zveteremich, un vuoto inspiegabile dovuto forse alla mite diffusione in Italia di questo grande classico della letteratura russa. Una mancanza colpevole ma che, d’altra parte, mi ha messa nella fortunata posizione di non dovermi preoccupare del rischio di distruggere miti o spezzare affetti, fenomeno frequente nelle ritraduzioni dei classici. Al netto di un doveroso lavoro di svecchiamento della lingua e di alcuni aggiustamenti di senso, le due versioni hanno sicuramente in comune una rispettosa aderenza al testo originale; e tuttavia credo ne escano due romanzi piuttosto distinti, a definitiva e superflua conferma di quanto ogni traduttore danzi a proprio passo sulle note della stessa musica.

Peredonov, il demone meschino è diverso da qualunque romanzo mi sia mai capitato tra le mani; divertente e agghiacciante in egual misura, al contempo profumato e putrido, è la storia di un professore che potremmo definire uno Stoner al contrario: tutt’altro che educato, tutt’altro che amante del suo lavoro e profondamente ignorante della sua stessa materia (correggendo i temi degli allievi, cerca costantemente le parole che non conosce sul dizionario), Peredonov riesce a rendere piatta la sua vita folle laddove in Stoner ogni momento anonimo ha il suo intimo peso specifico.

Credo che la magistralità del lavoro di Sologub nel caratterizzare Peredonov stia nell’essere riuscito a creare uno dei personaggi più visceralmente insopportabili della letteratura pur declinando la realtà in base alle lordure e agli abissi della sua mente. Mi correggo, ‘abissi’ non è la parola giusta: Peredonov non ha profondità, la sua follia non è lirica né ancestrale né lucida ma striscia, come lui, sulla superficie morta e polverosa del mondo. Raccontare una storia adottando il punto di vista soggettivo dell’antieroe rende facilmente l’antieroe un personaggio con cui magari non ci si identifica, ma a cui in una certa misura ci si affeziona; penso al Mersault di Camus, allo sprezzante Pečorin di Lermontov, al Bazarov turgeneviano. Sologub modella ritratti che sono diagnosi razionali senza odio né giudizi, eppure Peredonov non riesce a conquistare il lettore sebbene questi sia perfettamente in grado di seguirne, di capirne il percorso.

Ora: come riuscire nell’impresa di tratteggiare minuziosamente dei personaggi più o meno scabrosi senza mai ammettere apertamente la loro scabrosità e senza avvalersi di discese intimistiche per chiarirne pensieri ed impulsi? Sologub usa magistralmente due strumenti: il simbolismo e la lingua. Le case arrivano a definire i loro proprietari in modo molto più puntuale delle descrizioni dei personaggi stessi: lo studio del sindaco è arredato con sedie scomodissime; il salotto del commissario di polizia è opprimente e spiato da mille occhi nascosti; quello di Peredonov ha la carta da parati strappata e sudicia di avanzi di cibo. Gli ambienti e gli oggetti sono specchi del male che è in Peredonov: nulla e nessuno è per lui abbastanza sporco perché nulla e nessuno lo è quanto lui e quando il male incede e la realtà non fornisce più gli appigli adeguati, la sua mente ne inventa di inediti, sul filo di un simbolismo visionario e decadente di cui Sologub è un eminente rappresentante. La nedotykomka, per la cui delicata traduzione mi sono appoggiata alla convincente scelta di Zveteremich, è naturalmente l’apogeo, o meglio il fondo di questa catabasi: il termine designa qualcuno di eccessivamente permaloso che non si fa toccare, e davvero mi trovo in difficoltà a trovare un personaggio a cui questa descrizione possa stare stretta.

La lingua di Sologub si fa portatrice di significati velati in primo luogo attraverso alcuni bellissimi nomi parlanti che inevitabilmente si perdono in traduzione, in primis il barbarico Varvara; e che sodalizio indissolubile ci suggerisce la lingua russa tra il sindaco Skučaev e il verseggiatore Tiškov, considerando che i due nomi derivano rispettivamente da ‘noia’ e ‘silenzio’! Ma la lingua del Demone meschino è al contempo un’antilingua che si avvolge su sé stessa come nella migliore letteratura dell’assurdo, in cui aggettivi e descrizioni ricorrono uguali all’infinito (Peredonov è ‘cupo’ ben 68 volte su 70 ricorrenze totali, ‘tetro’ 12 su 13) a suggerire la limitatezza dei personaggi, la loro incapacità di sviluppo.

È tuttavia con i registri dell’idioletto che Sologub ha saputo giocare meglio: è stato questo l’aspetto più interessante del mio lavoro di traduzione, quello la cui coerenza sono tornata maniacalmente a controllare nelle varie riletture, isolando i dialoghi all’interno della narrazione e le voci all’interno dei dialoghi. Se i due antipodi della varietà idiolettica sono facilmente indovinabili – da un lato Peredonov dal lessico sciatto e una sintassi colloquiale, dall’altro il preside Chripač “con il suo eloquio asciutto e altisonante” –, ho trovato particolarmente interessante la lingua di Volodin, altalenante (salta continuamente dal ‘tu’ al ‘lei’, ad esempio) e ingombra di tic linguistici ricercati che il personaggio adotta per darsi un tono – con discutibili risultati. Se è facile vedere una proporzionalità diretta tra registro e levatura morale del personaggio, con questo goffo balzellare linguistico (oltre che fisico) Volodin sembra tentare strenuamente una scalata morale, rivelandosi di fatto un personaggio più virtuoso ed empatico dello stesso sprezzante Peredonov.

In ultima analisi, Volodin è anche l’unico in grado di amare sinceramente e con dignità. In questi termini, egli è un estraneo nel putrido mondo sologubiano e dunque la sua stessa morte, come ben riflette Remotti, si eleva a simbolo drammatico e più che mai attuale:

“Non c’è bisogno che l’altro compia azioni criminose, l’altro è di per sé una minaccia; la sua sola presenza costituisce un pericolo per noi, per la nostra identità; e delle minacce o dei pericoli occorre liberarsi prima o poi, anzi, meglio prima che poi”.

 

Silvia Carli

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