Tradurre Rebecca West

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Rebecca West

Aspettando l’uscita, il 5 luglio, di La famiglia Aubrey, primo volume della saga familiare scritta da Rebecca West, abbiamo chiesto alla traduttrice Francesca Frigerio di raccontarci cosa ha significato per lei tradurre questa grande autrice. 

 

Con gli Aubrey è stato amore a prima vista. Durante le ricerche condotte in vista della tesi di dottorato, mi era capitato tra le mani un articolo che passava in rassegna le figure femminili protagoniste di una serie di romanzi inglesi del Novecento. Tra gli scrittori citati figurava anche una certa Rebecca West, alla quale erano dedicate poche righe, e piuttosto generiche, ma sufficienti a stimolare la mia curiosità: da sempre lettrice vorace, approfitto volentieri dell’occasione di fare nuove conoscenze letterarie. Mi ripromisi dunque di leggere almeno uno dei testi dell’ennesima autrice “ingiustamente dimenticata”.

Stando alle prime informazioni che ero riuscita a raccogliere, il suo romanzo di maggior successo risaliva agli anni Cinquanta, quando West era all’apice della carriera (nel 1948 la rivista Time le aveva dedicato la copertina definendola la scrittrice “Numero uno al mondo”). Il libro aveva un titolo poco promettente – The Fountain Overflows -, ma decisi comunque di procurarmelo e provare a leggerlo. Bastarono le prime righe a farmi capire che ero all’inizio di una di quelle storie d’amore che ti segnano per la vita: la pausa che apre il romanzo e blocca il fiato in gola anche al lettore; il riferimento a un possibile incantesimo che accende immediatamente la fantasia di mille possibili percorsi interpretativi; la voce narrante di una bambina, chiamata a imprimere ritmo e colore a una saga familiare che vorremmo non avesse mai fine. Bastarono poche righe, insomma, per diventare Rose Aubrey ed essere catapultata al centro delle vicissitudini di una famiglia geniale e eccentrica. Senza dimenticare la nutrita schiera dei personaggi “minori”, capaci di arricchire delle tonalità del comico un testo che si confronta anche con alcune delle vicende più tragiche della nostra storia recente.

Scoprii poi che il romanzo era parte di una trilogia, il cui secondo e terzo volume erano stati pubblicati postumi e dopo un travagliato percorso editoriale, ma poco mi importava in quel momento: desideravo solo continuare per un altro po’ a vivere la vita degli Aubrey. Per quanto procrastinato, giunse comunque il momento degli addii e la trilogia di Rebecca West andò a finire su uno scaffale del mio studio in compagnia di uno sparuto gruppo di romanzi sui quali avrei voluto lavorare ma che, per un motivo o per l’altro, giacevano dimenticati, accumulando polvere e rimpianti.

Nel 2006, un editore con il quale avevo appena cominciato a collaborare mi disse che stava cercando autori inediti in Italia da pubblicare in traduzione e fu allora che potei suggerire, senza la minima esitazione, la lettura di Rebecca West. Il colpo di fulmine si ripeté: l’incantesimo dell’incipit del romanzo, che aveva avvinto me anni prima, fu sufficiente a convincere l’editore del valore del romanzo. Acquisì i diritti dell’intera trilogia e me ne affidò la traduzione. Del primo romanzo, in realtà, esisteva una vecchia versione italiana del 1958, curata da Ada Salvatore per le edizioni Sugar, versione però obsoleta dal punto di vista linguistico, ma soprattutto compromessa da pesanti tagli editoriali che avevano colpito le parti descrittive e quasi tutti i riferimenti intertestuali e le citazioni letterarie. Decidemmo dunque di ripartire da zero e in tre anni la trilogia fu tradotta e presentata al pubblico italiano.

Nel frattempo, avevo letto quasi tutto quello che West ha pubblicato e avevo cominciato a presenziare alle riunioni della Rebecca West Society, associazione nata nel 2003 per iniziativa di un piccolo gruppo di studiosi e degli eredi della scrittrice. Ricordo ancora con emozione l’incontro con Alison Selford, la nipote di Rebecca West: l’avvicinai in occasione di un convegno per chiederle se avesse qualche ricordo particolare della zia, magari legato al primo volume della trilogia, che avevo appena finito di tradurre e per il quale stavo scrivendo la postfazione. Mi rispose con voce roca e dal forte accento scozzese, gli occhi fissi nei miei, dicendomi che lei era solo una bambina quando faceva visita alla zia e i suoi ricordi non erano legati alla dimensione pubblica di una parente della quale, all’epoca, ignorava del tutto la fama. L’unica cosa che le interessava era trarre il massimo profitto da quelle visite, che si concludevano sempre con una sostanziosa merenda in cucina. «La zia era un’amante della buona tavola e le piaceva molto stare in cucina. Era lì che spesso riceveva gli ospiti. Ricordo ancora un pranzo nel quale una donna mi fece sedere sulle sue ginocchia. Non aveva mangiato nulla, con gran dispetto di Rebecca, e infatti era pelle e ossa». «Si ricorda il nome della visitatrice?», le chiesi. «Sì, certo. Era Virginia Woolf».

Quando Fazi mi ha contattata per rivedere la traduzione in vista di una nuova edizione della trilogia, mi sono rituffata con entusiasmo nelle pagine di Rebecca West, il cui fascino, anche a distanza di dieci anni, non ha smesso di ammaliarmi. Non posso quindi che augurare lo stesso destino ai lettori che si avvicineranno al romanzo per la prima volta: mollate gli ormeggi e lasciatevi trascinare dalla corrente di una scrittura impetuosa e refrattaria a qualsiasi etichetta salvo quella, senza tempo, della grande narrativa.

 

Francesca Frigerio

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