Tradurre «Il capofamiglia» di Ivy Compton-Burnett

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Compton-Burnett

In occasione dell’uscita di Il capofamiglia, Manuela Francescon ci racconta la sua esperienza con la traduzione del romanzo di Ivy Compton-Burnett.

 

I romanzi di Ivy Compton-Burnett, la grande signorina delle lettere inglesi, mettono in scena microcosmi familiari borghesi tardo ottocenteschi che sono dei meccanismi a orologeria: i rapporti tra i personaggi maturano (anzi, più spesso degenerano) attraverso dialoghi fatui, molto formali, all’insegna della chiacchiera e dell’inessenziale. Ma l’esplosione finale, la manifestazione della violenza sottesa a ogni atto, è uno sviluppo assicurato.

A house and Its Head, Il capofamiglia, ne è l’esempio perfetto. Non a caso è il romanzo che l’autrice considerava la sua prova migliore, forse proprio perché lo schema tragico si manifesta con trasparenza cristallina: i personaggi, i membri della famiglia, lottano ognuno per la sopravvivenza, compreso il capofamiglia eponimo, Duncan, che lotta per preservare la proprietà e il potere, con cui si identifica in toto, tentando in ogni modo di assicurarsi una discendenza; le figlie dal canto loro vogliono sopravvivere in senso materiale e sociale: e per una donna, in epoca vittoriana, questo voleva dire sposarsi, diventare la rispettabile mistress di una casa borghese; il nipote Grant vuole sopravvivere come uomo nel confronto impietoso con il patriarca. Ognuno dei personaggi segue la propria traiettoria in maniera spietata e quasi meccanica, tanto che non stupisce che al culmine della tensione tragica Sybil, la figlia minore, commetta un gesto abominevole per salvaguardare l’eredità del marito e anche per conservare un suo status, per quanto probabilmente immaginario, di figlia prediletta del tiranno.

Tutte queste oscure manovre – atti di mancato soccorso, matrimoni d’interesse, tradimenti, figliolanze adultere, fughe, altri matrimoni e infanticidi – il lettore non le vede raccontate ma le legge tra le righe di lunghi dialoghi in cui è costantemente chiamato a separare il grano dalla pula, la chiacchiera dalla rivelazione, i sentimenti e le pulsioni vere dalle ipocrisie di circostanza. In questo gioco un ruolo fondamentale ce l’ha quello che potremmo definire, persistendo nell’analogia con la tragedia greca, il “coro”, vale a dire un piccolo stuolo di personaggi comprimari, alcuni macchiettistici (come le zitelle, le “spinster” di austeniana memoria) e altri invece con una precisa funzione smascheratrice (come nel caso della pestifera vecchia Gretchen, che ha il vizio di dire ad alta voce quello che vede). Il coro chiacchiera ed elabora, commenta, fa ipotesi, interpreta e spesso straparla, ma è proprio da questo chiacchiericcio che l’autrice fa emergere, per contrasto, i drammi sanguinosi che più le stanno a cuore.

Tradurre Il capofamiglia ha significato prima di tutto, per me, imparare a riconoscere i fili ritorti di questa complessa trama narrativa, badando a preservare alcuni “effetti”, che sono fondamentali nella resa finale della scrittura di Compton-Burnett: uno di questi è il tono frivolo di buona parte dei dialoghi che compongono la quasi totalità del romanzo. Tradurre questi dialoghi in modo pedante avrebbe significato snaturarne la funzione narrativa: essi costituiscono un tappeto sonoro, leggero e quasi ottundente nella sua monotonia, sul quale il mostro deve fare la sua comparsa, perché lo si possa osservare in tutto il suo orrore. Che poi il mostro sia il capofamiglia in quanto patriarca tirannico, oppure la famiglia borghese come istituzione, con particolare riguardo al ruolo assegnato alle donne, è questione di poco conto. È così che l’allusione alla crudeltà del padre di fronte alla madre sofferente, il sospetto del tradimento oppure l’ombra di un atto efferato che potrebbe essere stato compiuto nell’alveo familiare avviene nell’ambito di una amena conversazione sul significato dei nomi oppure durante una giocosa, ma non per questo meno spietata, partita a chi pronuncia la boutade più brillante.

Un’altra questione che, in sede di traduzione, ha richiesto una specifica riflessione è quella del rapporto tra detti e non detti in questo romanzo. Qui, come spesso in Compton-Burnett, gli sviluppi della trama sono spesso solo adombrati, il coro stesso li da per scontati e al racconto diretto preferisce un meno traumatico “parlare intorno” in cui sta al lettore capire a cosa si riferiscono e ricostruire così a cose fatte lo sviluppo della trama. Del resto l’ellissi dell’atto violento è un’altra caratteristica della tragedia greca: l’evento cruciale, specie se efferato, avviene sempre fuori scena, non si può raccontare. Siccome la tendenza a “spiegare” è un riflesso tipico della traduzione (forse vogliamo compensare quel tanto di refrattario e inamovibile che c’è in ogni scrittura e che sappiamo bene di non riuscire a consegnare al lettore, almeno non come vorremmo), qui è stato necessario un particolare sforzo di autosorveglianza: non riempire i vuoti, non fare luce laddove regna la nebbia, non prendere per mano il lettore laddove l’autrice lo vuole vigile, attivo e partecipe.

Una scrittura difficile, quella di Ivy Compton-Burnett, in cui si mostra pochissimo. L’aspetto visivo, la descrizione dei personaggi e degli ambienti, sono talmente scarni da dare la sensazione che l’autrice abbia concesso ad essi qualche spazio solo per dovere di servizio. Altrettanto ridotto all’osso è lo scheletro attorno a cui si distribuisce la vera polpa del romanzo, i dialoghi: ogni battuta è preceduta o seguita da un semplice said he o said she. Che in italiano, per un’inclinazione alla variatio probabilmente retaggio della nostra tradizione retorica, avrebbero costituito una catena di ripetizioni dal sapore ipnotico capace di attirare l’orecchio e distrarre l’attenzione dai dialoghi, ovvero l’esatto contrario di quanto accade nell’originale. Ecco perché per questo particolare aspetto sono venuta meno alla regola di non addolcire mai la secchezza quasi brutale di questa scrittura. La questione qui non era di introdurre un criterio di eleganza e di equilibrio, sostituendo una parte dei disse con dei sinonimi, ma di evitare che, per una dinamica tutta interna alla lingua italiana, si creasse un pattern ritmico fortuito e non presente nell’originale.

 

Manuela Francescon

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