In vista dell’uscita di Solo Dio è innocente, Michele Navarra ci racconta la genesi del suo romanzo.
Fin dai tempi dell’adolescenza, prima ancora di intraprendere il percorso di studi in diritto, ero un appassionato di storie giudiziarie. Credo che questa mia passione avesse a che fare con un non meglio identificato desiderio di “giustizia”, che io immaginavo fosse possibile ottenere in ogni caso nell’aula di un tribunale. Insomma, in un mondo dove – da sempre – il sopruso, la prevaricazione, la violazione dei diritti della persona rappresentano purtroppo un male quotidiano (basta sfogliare le pagine di cronaca giudiziaria), mi sembrava (oggi forse dovrei dire “m’illudevo”) che fosse possibile riequilibrare l’ordine naturale delle cose rivolgendosi ad un giudice, pur nella consapevolezza della sua fallibilità. In sostanza, come lettore mi tranquillizzava il fatto che la sentenza “letteraria”, attraverso le sue formule antiche, quasi immutabili (In nome di Dio, In nome della legge, In nome del popolo italiano), potesse ripristinare l’ordine turbato dal torto o dal delitto, anzi, come è stato scritto, andasse addirittura a riaffermare la possibilità di un mondo ideale, dove alla fine fosse sempre la giustizia a “trionfare”.
Il sogno di difendere un innocente ingiustamente accusato e di farlo assolvere – come avveniva nei romanzi e nei film di ambientazione legale – l’idea che, grazie al mio intuito e alla mia capacità dialettica nell’interrogare un testimone o nel convincere una giuria, avrei potuto ristabilire verità e giustizia, è stata la molla che mi ha fatto scegliere giurisprudenza come corso di laurea e che successivamente mi ha indotto a diventare un avvocato penalista.
Poi però mi sono scontrato con la realtà. Ho capito ben presto che l’immagine un po’ romantica, alle volte quasi letteraria, che mi ero fatto della professione legale non corrispondeva affatto all’esperienza, molto più prosaica, che vivevo giorno dopo giorno sul campo (in studio, nei commissariati di pubblica sicurezza, nelle carceri, all’interno delle aule del tribunale), dove storture e disfunzioni erano (e sono) all’ordine del giorno. In altre parole, poco giudizio poetico e molta catalogazione metodica.
In più, il pesante senso di responsabilità e i dubbi che accompagnano la vita dell’avvocato e che contraddistinguono ogni difesa cominciavano a diventare un fastidio costante, un vero e proprio rovello interiore, in grado di intossicare anche le vittorie professionali più belle.
Così, per esorcizzare questo malessere di fondo, che anziché diminuire continuava ad aumentare, rischiando di diventare insostenibile, ho deciso di mettermi a scrivere. Quale mezzo migliore di un romanzo per raccontare – attraverso le parole e le azioni di un “avvocato di carta”, che utilizzasse a volte anche la chiave dell’ironia – le tante cose che non vanno all’interno del “pianeta giustizia”, per dar voce alla mia coscienza di uomo e di professionista?
E naturalmente, potendo decidere come dipingere e tratteggiare il protagonista delle mie storie, Alessandro Gordiani, ho immaginato un avvocato che un po’ mi somigliasse (forse dovrei dire “un avvocato a cui io avrei voluto somigliare”), che girasse in Vespa e fosse un po’ “informale”, e l’ho collocato all’interno di uno studio legale dove anche a me sarebbe piaciuto lavorare, un luogo in cui vi fosse un clima disteso, a volte goliardico, anche un po’ scanzonato se volete, un gruppo di amici prima ancora che di colleghi, dove la battuta, lo spirito di colleganza, l’interlocuzione, la mancanza d’inutili formalismi e l’aiuto reciproco fossero il pane quotidiano, ovviamente uniti a un grado massimo di serietà e di professionalità. Perché un avvocato può essere sì scanzonato e ironico, ma deve essere anche (e soprattutto) bravo e professionale, o almeno questa era l’immagine che io volevo offrire al lettore, a maggior ragione in un’epoca dove l’opinione comune nei confronti di chi esercita la professione legale non è certo delle migliori. E così è nata la “squadra” dell’avvocato Gordiani, dove non c’è un solista, ma piuttosto un coro in cui Gordiani – con le sue esitazioni, i suoi dubbi e la sua puntigliosità – si prende gli assoli principali, mentre gli altri amici (e colleghi) – ciascuno con le sue caratteristiche e le sue peculiarità – si danno da fare per completare una partitura orchestrata nel miglior modo possibile. Un gruppo di persone che, insieme, lavorano per raggiungere un obiettivo comune. E, sempre potendo scegliere, ho collocato lo studio a Roma, in una strada dal fascino antico come corso Vittorio Emanuele, che da lungotevere arriva fino a largo di Torre Argentina, in pieno centro storico, così da poter utilizzare gli spostamenti dei protagonisti per descrivere (sempre con rispetto, quasi con pudore) qualche scorcio della mia città. Una specie di The Good Wife all’italiana, se l’avete visto, ovviamente con le dovute differenze, perché a mio avviso non c’è nulla di peggio che cercare di scopiazzare ambienti e atmosfere di stampo tipicamente statunitense, soprattutto avendo a disposizione un ordinamento penale spettacolare come quello italiano.
L’occasione ideale, inoltre, per raccontare di casi controversi, di omicidi e di torti, di dolore e di redenzione, di colpevoli e di innocenti – ammesso che ve ne siano – e, soprattutto, di legge e di giustizia, cercando di far capire al lettore che spesso, forse troppo spesso, i due concetti non coincidono affatto e che applicare correttamente la prima non necessariamente significa far trionfare (come spesso con enfasi si usa dire) la seconda.
Del resto, già autori come Gianrico Carofiglio – punto di riferimento in Italia di questo genere narrativo – o come Scott Turow o John Grisham (oltre a serie televisive come appunto The Good Wife) hanno dimostrato e continuano a dimostrare come l’interesse del pubblico per le storie di processi, giudici e avvocati sia molto alto.
Una straordinaria possibilità, infine, per raccontare “dall’interno” come funziona il mondo giudiziario e quali sono i reali meccanismi che governano il processo penale italiano, che – contrariamente a quanto qualcuno potrebbe pensare – è straordinariamente avvincente ed accattivante e non ha assolutamente nulla da invidiare, in termini di spettacolarità, pathos emotivo e tensione narrativa, al fortunato e seguitissimo legal thriller di stampo anglosassone, che ci ha regalato tanti romanzi e film indimenticabili.
Michele Navarra