In occasione dell’uscita de Il grande me, Alessia Ragno ci racconta le sue impressioni sul nuovo romanzo di Anna Giurickovic Dato.
Dalle otto del mattino alle sette di sera io non provo niente. Poi, quando termina l’orario di visita, mi si abbatte addosso tutta la giornata, quelle passate e quelle che verranno.
Quello de Il grande me di Anna Giurickovic Dato, al suo secondo romanzo dopo La figlia femmina, è un incipit che scava nella stanchezza pesante e nerissima che il dolore della malattia di un genitore comporta. Un padre malato terminale, un lutto in fieri che comincia a invadere i pensieri di una donna che con la morte dialogherà continuamente, in tutte le fasi della “sparizione” dell’uomo. Le domande a cui Giurickovic Dato cerca di rispondere con questo romanzo sono tante e frenetiche e si alternano tra una terapia, un colloquio coi medici e la speranza che si affievolisce. Ma come funziona un lutto? Di cosa è fatto? Ne Il grande me il lutto e la perdita si dilatano e vengono vivisezionati con la stessa passione per i sentimenti complessi già vista ne La figlia femmina: le emozioni dei personaggi non sono mai nette e definitive, ma sfumano l’una nell’altra in una sequenza tenuta insieme dal dolore. Un padre che è stato un «omone timido», a lungo distante nella sua «tana di depressione», ma senza particolari responsabilità nei confronti dei suoi figli: è la vita che a volte comporta distanza e illude che gli altri stiano bene, mentre invece si sta perdendo ogni istante della loro quotidianità, ogni miseria, ogni sconfitta. Dopo la diagnosi di questo padre mangiato dalla malattia, il castello di carta delle proprie convinzioni cade e si innesca, spietato, il senso di colpa. La colpa è quella di aver perso tempo quando lui stava bene, di non essersi raccontati tutto quando ce n’era stata l’occasione, di aver costruito una figura paterna immaginaria per lenire distanza e mancanze. Il senso di colpa si fa materia nella magrezza che avanza, nei capelli ovattati e trasparenti, ma anche nella perdita di lucidità e controllo di un padre in balia della morte. E con questa morte, che Giurickovic Dato definisce «già seduta tra di noi», la protagonista parla spesso perché a volte la sfida, altre volte la accarezza e infine la scaccia via quando si fa vivo il bisogno infantile di dimenticare, almeno per un momento.
Il tema della perdita si alterna a quello del ricordo e dell’identità personale. Conoscersi diventa urgente e i ricordi di Simone – questo il nome del padre –, pur macchiati dalla malattia, agitano il presente fino a un sorprendente finale. Simone è giovane e bello, musicista pieno di speranze; Simone è anche bambino e figlio; Simone, infine, è padre lontano e distratto.
Così, mentre cammina, io lo rivedo come nei suoi racconti: è lui che più cresce più ritorna bambino, le spalle si stringono, il viso si riempie di ingenuità, il tremito delle braccia non è stanchezza, ma terrore, e lui che è padre oggi vorrebbe essere figlio, vorrebbe davanti a sé una madre e tirare freccette sui libri, sugli infermieri che non lo ascoltano, sui medici che gli danno le cattive notizie, riempire la propria vita di fori in modo che il male che contiene se ne vada goccia a goccia e, così, sia minore la paura.
Ma come si reagisce a quest’uomo che perde lentamente la sua identità? Come si perde un padre senza perdere anche un po’ di sé stesse? Non c’è una risposta, eppure la protagonista, Carla, non rinuncia ad interrogarsi con la giovane sorella e il fratello tanto simile al padre. La paura della morte li fa regredire tanto quanto distrugge Simone, lo si vede nella frenesia del pensiero e in quei piccoli comportamenti ossessivi di rinforzo, che la scrittura rende benissimo: Carla si scruta allo specchio, Carla si analizza, Carla legge a caso le etichette per casa. La distrazione è un sollievo momentaneo dalla bruttezza dell’esistenza.
L’ineluttabilità del destino e il conseguente senso di urgenza trovano forma in uno dei momenti più struggenti: Simone appende foto e ricordi sui muri di casa perché i figli devono conoscerlo in ogni dettaglio prima che lui muoia.
Vorrei che voi sapeste tutto quello che ho fatto, molte cose, davvero molte, sareste fieri del vostro papà.
Non c’è più tempo e la scelta è solo apparentemente egoista: un padre che non ha più futuro dà ai suoi figli gli strumenti per riempire il vuoto che lascerà. Simone sta coltivando il ricordo che avranno di lui e cerca di sostituire con il suo volto giovane e sorridente la chemioterapia e il collasso di corpo e mente, pur con la pesante consapevolezza di dover fare i conti anche con i propri fallimenti. «È così per tutti, non ci sono fallimenti in questa vita: ci sono l’idea del fallimento e l’idea di vita».
Il grande me è un romanzo doloroso in cui la tenerezza si mescola a rabbia, paura e nostalgia in quell’enorme processo della vita che è l’elaborazione di un lutto. Non è possibile leggere questo romanzo senza sentire una fitta costante, senza pensare ai legami personali, alle azioni tardive per ripararli, ai sentimenti che vengono messi da parte per non crollare quando c’è un padre da sorreggere. E quando la morte arriverà, ci sarà con lei, puntuale, una domanda che avremo dimenticato di fare. A quella domanda, in un certo senso, questo romanzo risponde con una carezza finale: Carla ha fatto tutto quello che poteva, tutti facciamo quello che possiamo.
Alessia Ragno