In occasione dell’uscita di Le torri del silenzio, Stefano Bortolussi racconta il terzo volume di The Raj Quartet di Paul Scott.
Le torri del silenzio si presenta come il terzo volume del Raj Quartet, la grande saga modernista che l’inglese Paul Scott dedicò negli anni Sessanta del secolo scorso all’ingloriosa fine dell’impero britannico in India, e in quanto tale ci restituisce gli elementi alla base dei primi due tomi, Il gioiello della corona e Il giorno dello scorpione.
Il quadro storico della vicenda narrata è lo stesso, e molti dei personaggi dei primi due capitoli si ripresentano con le loro caratteristiche, le loro grandezze e soprattutto le loro piccolezze. A cambiare è, se vogliamo, il centro focale del romanzo, un personaggio introdotto nel secondo volume ma che qui assurge ad apparente protagonista: l’anziana ex missionaria Barbie Batchelor, la cui vicenda si intreccia a quella della famiglia Layton in qualità di locataria/dama di compagnia della vecchia zia Mabel, la decana del clan.
Perché “apparente”? Per il semplice motivo che Scott è un narratore troppo intrinsecamente moderno per lasciarsi sfuggire l’occasione di trasformare Barbie, pur scendendo nelle profondità della sua psiche e della sua personalità instabile e indifesa di credente in piena crisi mistica (e come potrebbe essere altrimenti, in un paese in cui il dettato divino sembra quotidianamente violato o come minimo messo in discussione dalle violente contraddizioni di due mondi che si scontrano sulla pelle dei loro abitanti, in primo luogo di quelli più indifesi?), in una sorta di specchietto per le allodole. In realtà, infatti, a interessare Scott sono più le reazioni che una persona come Barbie, di origini modeste e di temperamento ciarliero e innocentemente invadente, suscita nella cosiddetta “buona società” di Pankot, il distaccamento militare in collina in cui si svolge gran parte dell’azione.
E qui l’autore riesce nell’ennesimo gioco di prestigio narrativo, quello di rendere tale “buona società” un personaggio a sé stante, o se si preferisce una sorta di coro da tragedia greca, che commenta, specula, giudica, stigmatizza e censura i comportamenti altrui, e così facendo offre al traduttore l’occasione di sbizzarrirsi nel riprodurne le singole voci. Vittima di una simile, implacabile attenzione, la povera Barbie non ha davvero scampo: stretta nella morsa tra la propria coscienza in crisi, un Dio che non risponde si suoi appelli e la disapprovazione altrui, finisce per crollare, cedendo alle proprie ossessioni e perdendo definitivamente ogni contatto con la realtà (e incidentalmente presentando al traduttore non poche sfide linguistiche).
La sua nemesi principale è Mavis Layton, la madre di Sarah e Susan, che viene astutamente dipinta da Scott come una sorta di incrocio tra una strega senza cuore, una madre pragmatica e una sensualista fedifraga. A reggere l’urto della sua personalità gelida e rocciosa è ancora una volta Sarah, la figlia maggiore, che si conferma qui, come già nel precedente Il giorno dello scorpione, il centro morale dell’affresco romanzesco di Scott. Ed è proprio attraverso Sarah, la sua coscienza e le sue capacità di osservazione che i vari personaggi della saga trovano un filo conduttore, dalla sorella Susan, viziata ed ego-riferita, a Ronald Merrick, che sembra avere il dono di sbucare fuori nei momenti meno opportuni e fa da contraltare a Sarah con la sua oscura, minacciosa, subdola presenza. E così, nelle sapienti mani di Scott, la storia e la Storia avanzano inesorabili a braccetto, mentre la guerra esplode i suoi ultimi, drammatici colpi e l’India si prepara a un’agognata, promessa indipendenza che non farà che aprire un nuovo, cruento capitolo nella sua millenaria vicenda.
Stefano Bortolussi