Manuela Francescon, la traduttrice di Mariti e mogli, racconta il romanzo di Ivy Compton-Burnett.
In Mariti e mogli Compton-Burnett ci conduce in un nuovo universo familiare, con nuovi intrichi affettivi e nuovi, fragili equilibri di potere pronti a spezzarsi e generare il temuto caos.
La famiglia Haslam è un sistema di pianeti irrequieti che ruotano intorno a un sole nero: Harriet Haslam, moglie e madre, è quella che oggi definiremmo una control freak. Manipolatoria e dispotica, incline all’ansia proiettiva e al ricatto affettivo, Harriet ha tre figli decisi a intraprendere strade che lei disapprova e un marito inetto, Godfrey, vittima dei propri affetti e fautore del quieto vivere in famiglia.
Anche in questo romanzo, il nodo che più interessa a Compton Burnett è cosa succede quando il potere del despota vacilla, quando per motivi esteriori (come una malattia o un’assenza) mostra i suoi limiti lasciando ai succubi un insperato spazio di manovra. La matriarca Harriet Haslam non riesce a venire a patti con le aspirazioni dei suoi figli, che considera egoistiche e infantili: il maggiore, Matthew, laureato in medicina, vuol cercare la gloria nella ricerca medica invece che aprire un più remunerativo studio professionale a Londra; il secondo nato, Jermyn, è un poeta velleitario e gli interessa solo veder pubblicati i suoi versi; i due figli minori, Griselda e Gregory, scelgono le loro amicizie in base a criteri che Harriet giudica assurdi e che servono a colmare dei vuoti affettivi. Forse per autentico sfinimento o forse per portare l’attenzione su di sé aumentando il proprio potere, Harriet commette un goffo tentativo di suicidio e poi ha un crollo nervoso in seguito al quale viene ricoverata per diversi mesi. In questo tempo, sotto il controllo assai lasco del buon Godfrey, i giovani seguono liberamente le loro aspirazioni e Harriet, quando contro ogni aspettativa o speranza di Godfrey torna a casa completamente guarita, trova avverati i suoi peggiori incubi. Il vecchio schema minaccia di ripetersi e l’ira materna di abbattersi su di loro, ma qualcuno a questo punto decide di compiere un gesto estremo e terribile per mettere fine ai soprusi.
Durante la lettura e la traduzione di questo romanzo mi sono trovata a chiedermi, non per la prima volta con Compton-Burnett, da che parte stia davvero l’autrice, con quali personaggi si identifichi maggiormente. Da una parte i suoi romanzi sembrano atti d’accusa contro le prevaricazioni che avvengono all’interno delle famiglie tradizionali, dall’altra però i membri di queste famiglie, i prevaricati, sono spesso ritratti come incapaci di vivere senza una guida forte, come se le loro schiene si fossero viziate in modo irrimediabile. Sono inabili alla libertà, all’autodeterminazione che tanto desiderano. E allora la matriarca, la maniaca del controllo Harriet, è anche lei vittima del proprio potere, consapevole che quelli su cui lo ha sempre esercitato ormai non possono vivere senza. Dalle biografie della scrittrice emerge chiaramente che Ivy Compton-Burnett stessa ha esercitato il dispotismo familiare sulle sorelle e i fratelli minori, dopo averlo subito e imparato dalla madre. Harriet Haslam è dunque un candido alter ego dell’autrice, un’alternativa femminile ai pater familias che abbondano nei suoi romanzi. L’autrice ce la fa conoscere più dall’interno, esplora le sue motivazioni, la rende profondamente umana: una donna consumata dall’ansia, dall’amore, dal timore che, venuto meno il suo sostegno non privo di zone d’ombra, quelli che ama non riusciranno a stare in piedi da soli.
Manuela Francescon