Daniel Albizzati racconta Il naufragio, il suo nuovo romanzo.
La letteratura esiste da secoli e conta centinaia di generi, milioni di titoli e storie, ma è difficile trovare altri romanzi che abbiano come protagonista un naufrago costretto a sopravvivere in completa solitudine su un’isola deserta; e se poi ce ne sono, penso che si possano contare sulle dita di una mano – anche Robinson Crusoe, che nell’immaginario collettivo rappresenta il padre di tutti i naufraghi, aveva comunque il privilegio di condividere tempo e spazio con il giovane aiutante Venerdì.
Questo “vuoto” narrativo è presente anche nel cinema: tolti pochissimi film (e a me viene in mente solo Cast Away), nel grande e piccolo schermo la condizione disperata del naufrago “solo senza nessuno” sembra trovare poco spazio nelle aspirazioni di sceneggiatori e registi.
Il motivo di questa ritrosia è semplice, e va ricercato nel desiderio di chi costruisce mondi immaginari di dar vita a storie uniche e originali; e per quanto si tenti di essere innovativi è impensabile scrivere di un naufrago, solo o in compagnia, senza ripetere qualcosa che è già stato immaginato da chi è arrivato prima di noi.
Si può fare con l’astronauta, con il selvaggio, con l’eremita, con l’esploratore, con il prigioniero, con l’ultimo essere umano rimasto sulla Terra, ma con il naufrago no. È semplicemente impossibile.
Il naufrago si muove in un campo ristretto, le cose che può fare per occupare il suo tempo sono poche e sempre le stesse: rifletterà sulla sua esistenza, dovrà procacciarsi cibo e acqua, cercherà di allestire un fuoco, di farsi notare da qualcuno all’orizzonte, oppure tenterà in tutti i modi di tornare a casa. Non c’è niente da fare, da qui non si scappa. I margini di manovra sono limitatissimi.
In altre parole, non possiamo separare il naufrago dalla sua isola, e le isole in cui vanno a finire i naufraghi, anche se diverse tra loro sono, in fin dei conti, sempre le stesse. Da questo perimetro ristretto, da questa realtà preconfezionata non si può prescindere: ne consegue che tutto ciò che andava detto sui naufraghi è già stato detto, e quindi non dovrebbe avere senso insistere sull’argomento.
Ma il protagonista de Il naufragio è diverso da tutti gli altri naufraghi del passato, per il semplice fatto che un naufrago del genere poteva esistere solo oggi, così come l’isola/discarica in cui sarà costretto ad ascoltarsi.
Vadim è un prodotto vuoto del consumismo, uno scarto del progresso. È figlio del nostro tempo, un tempo senza coordinate che fatica a trovare il suo spazio.
Giovane spacciatore di periferia, alla ricerca costante del successo facile, pieno di dipendenze e tatuaggi sul viso, dopo l’ennesimo crimine decide di fuggire dall’Italia imbarcandosi clandestinamente su una nave cargo. Ma durante la traversata dell’Atlantico la nave avrà un guasto al motore, colerà a picco, e Vadim, stringendosi al primo container, finirà su un’isola con le spiagge ricoperte di plastica e spazzatura.
Quest’isola rappresenta l’interiorità del giovane naufrago, un luogo sporco, pieno di immondizia, in cui ristagnano senza sosta gli scarti del mondo di cui lui, in un certo senso, fa parte. Senza niente da fare, senza più il sostegno di quelle droghe con cui era solito ricacciare indietro gli ammonimenti interiori, senza distrazioni in generale, nella solitudine, nel silenzio e nella noia, Vadim sarà costretto a fare i conti con se stesso, con i suoi sprechi, i suoi errori senza ritorno, i suoi fantasmi e le sue fragilità. Dalla sua parte avrà i libri arrivati sull’isola con lui, di cui è pieno il container a cui si è aggrappato per salvarsi dal naufragio. Confrontandosi con quei libri che prima disprezzava, il giovane Vadim cercherà di riempire il vuoto insondabile che contiene, avviando un percorso di crescita e consapevolezza che lo porterà a diventare quello che sarebbe potuto essere se non avesse preso la strada sbagliata, quella promossa come vincente dal mondo da cui è fuggito.
Sull’isola però Vadim sarà perseguitato da una strana e inquietante presenza, la voce della sua coscienza, che facendo leva sulla sua condizione disperata, ricordandogli senza sosta gli errori del passato, esasperata dalla bellezza dei testi a cui si appassiona, tenterà in tutti i modi di portarlo al suicidio. Ma il naufrago, rifugiandosi nei suoi ricordi più belli, tuffandosi nelle storie dei suoi autori preferiti stringerà i denti resistendo. A contatto con un perenne e inesauribile dolore, affronterà quattro “stagioni esistenziali”, gradini interiori, immensi e necessari che non sapeva di contenere, ma che lo trasformeranno per sempre.
Riuscirà Vadim ad andarsene dall’isola? Se no, perché? Se sì, come? Lo domando io a voi, perché anche se ho scritto Il naufragio non so rispondere a questa domanda.
Daniel Albizzati