C’è una freccia che va nella direzione giusta. E ci (ri)porta ad Appetricchio

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Appetricchio

Il fulcro di Appetricchio è una parola tedesca, Heimat, intraducibile in italiano. Ha qualcosa a che fare con “casa”, “piccola patria”, e racchiude tutta l’emotività che si lega al luogo della propria infanzia, a quelle sensazioni che colleghiamo alle nostre origini e ai posti felici, al senso di protezione e di sicurezza, al senso di identificazione, ma al contempo alla consapevolezza di aver perduto quell’appartenenza territoriale.

La storia della famiglia Bresciani, e dei due protagonisti, è la stessa di tutti coloro che hanno amato e vissuto un posto e che poi se ne sono allontanati fino talvolta a rinnegarlo. Finché, a un certo punto, hanno sentito la necessità di riappropriarsene, riaccendendo la luce di una casa abbandonata. Una casa che riaprono con le stesse chiavi che si erano portati via cinquant’anni prima, come fa Adelina, l’altra fondamentale protagonista del romanzo, che torna dall’Argentina un preciso giorno del 1980 con una storia misteriosa alle spalle.

Il seme di Appetricchio inizia a germogliare nella primavera 2020: eravamo all’inizio dell’epopea Covid e tutto avevo nella testa fuorché pensare a una nuova storia da scrivere. Ed è in quei giorni che mia figlia, di diciotto mesi, inizia a parlottare. Un ciangottio divertente, perlopiù incomprensibile. «Ma che strolichi? Ma che n’ammacchi?», le dico. Avevo fatto riaffiorare un codice linguistico: il dialetto lucano di mia madre. Due parole difficili da spiegare in italiano, ma che sapevo usare in modo preciso, benché di fatto fossi nata e cresciuta al Nord. Un inconsapevole passaggio di testimone generazionale.

In quegli stessi giorni il telegiornale passa le immagini di treni presi d’assalto e auto che sfrecciano verso sud in uno strano periodo dell’anno, ben lontano dall’esodo estivo. Lì mi è stata chiara una cosa: in quel momento di difficoltà, incertezza e paura, moltissime persone stavano tornando a “casa”.

Appetricchio non è altri che la nostalgia, nòstos, il più terreno dei temi: il bisogno di ritornare alle nostre origini – anche linguistiche. Ed è questo antico richiamo che spinge i protagonisti del libro, i miei Ulisse bresciani, a imboccare l’a1 e oltre, ben oltre Scilla e Cariddi, per tornare in un paesino lucano che nessuno sa che esiste. Non è un caso che il racconto parta proprio il 7 marzo 2020, l’ultimo giorno prima della chiusura del mondo, in un flashback che li riporta – e non solo loro – al 1980, per poi raccontare vent’anni della loro vita in un posto che li ha resi felici ma da cui, a un certo punto, si allontanano: accade infatti qualcosa che non li farà più tornare per vent’anni.

Per molti anni ho vissuto la mia “Petricchio” come vero posto del cuore, senza mai metterlo in discussione. Finché ho iniziato a girare il mondo: volevo “recuperare”. Come se per tutti quegli anni il tempo trascorso lì fosse stato uno spreco: sempre le stesse cose, lo stesso mare, le stesse facce. Finché – e sono certa che capita a tutti – è scattato il mio personale Heimat, un bisogno quasi fisico di riprendermi quello stesso ambiente che avevo bollato come noia, di cui però riuscivo ancora a sentire l’odore: di arbusti e pietre, di aria di mare portata su dal vento, di fuoco e fumo. Un odore di notte anche di giorno.

Dunque sono tornata, ma a giochi fatti, con questo libro già in stampa. Ed è stato meglio così, perché la mia storia personale, la mia “Petricchio” avrebbe contaminato troppo la storia dei protagonisti che invece doveva seguire la sua strada narrativa ed emotiva.

Di fatto, le estati che vivono da bambini Mapi e Lupo Bresciani sono le estati di tutti noi, di quando non c’erano gli smartphone e accendere la televisione della nonna “costava”. Grazie a quell’apparente noia abbiamo sviluppato inventiva. Leggendo di più, e prendendo realmente parte ai riti di paese, quelli che nel libro Guidodario Bresciani bolla come ciutìe, idiozie agresti e folcloristiche. Ma quello che siamo è come una parete rossa con sopra una mano di vernice bianca. Il rosso sotto, prima o poi, salta fuori. E scatta “l’antico richiamo”.

Io racconto Appetricchio senza giudicare: i suoi abitanti che non escono mai, che non vogliono vedere il mondo e non sanno nemmeno cosa c’è al di là del ponte malfermo, o se anche lo sanno se ne fottono – come dice il Rocchetano, il “controllore” d’u pais. Li racconto fin quasi con ammirazione, perché Appetricchio è sì una storia di ritornanza, ma anche di restanza.

È raccontando le cose semplici che si può comprendere quanto è complesso il mondo, e la lingua in Appetricchio ne è lo strumento. Una lingua che viene fuori a macchie, nei momenti più intimi ed emotivi, un codice identitario che io stessa ho recuperato (o forse mai perduto), e che recuperano anche i protagonisti del romanzo: ecco, questa è vita. Vita che va avanti – va da sé che si possono trovare altri posti del cuore in cui sentirsi a “casa”, io stessa ne ho trovato un altro –, ma vita che al contempo torna indietro affondando nelle nostre radici, come ad ancorarsi a quel pezzo di tempo trascorso«Continuiamo a remare, barche controcorrente, risospinti senza posa nel passato», scriveva Scott Fitzgerald.

Petricchio è Vigata, Macondo, Crum, Fontamara, Rokovoko, Hogwarts, e i suoi personaggi strampalati sono la chiave per raccontare un mondo, tanto surreale quanto profondamente reale. D’altra parte non si parte sempre dalla realtà per poi inventare tutto il resto? Petricchio è uno di quei mondi bizzarri in cui tutti noi siamo “’ngappati” nella vita. Uno di quelli che ci hanno cresciuto e formato, a cui ci siamo “appetricchiati” e di cui è sacrosanto, a un certo punto del nostro cammino, sentire la nostalgia.

Tenere alto il vessillo delle proprie origini è una responsabilità. La nostalgia è un diritto – soprattutto nei momenti difficili. Sta a noi accorciare le distanze, riappropriandoci di ciò che ci ha reso felici, provando anche – ed è qui il punto – a capire noi stessi. Abbiamo il diritto, ma anche il dovere, di scrostare quella mano di vernice bianca per rivedere pulsare il rosso che c’è sotto.

Lo scriveva già De Amicis in Cuore: «Chi rispetta la bandiera da piccolo, la saprà difendere da grande». E quindi, se vi va, tornateci al vostro Appetricchio. E riappetricchiatevi.

 

Fabienne Agliardi

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