Questa storia nasce all’incrocio tra fiaba e cronaca: un pezzo di cronaca degli anni Ottanta che se non avessi messo per iscritto sarebbe stato destinato all’oblio. Le vicende che racconto hanno al centro la figura di mio padre, politico democristiano che nel 1980 fu costretto alla latitanza a causa di intrighi di “palazzo” del partito. Erano anni di grande incertezza per la Democrazia Cristiana che era sì rimasta al potere dopo la strage di via Fani ma al suo interno era sempre più divisa tra le varie correnti, favorevoli o meno al compromesso con la sinistra, rispettose della tradizione moderata “dorotea” o inclini piuttosto all’apertura verso un governo di coalizione con socialisti e comunisti.
Parlare di quegli anni ha significato per me innanzitutto affrontare una sfida linguistica. Bisognava trovare una voce che tagliasse come una lama di luce l’opacità dei discorsi che si leggevano sui giornali o si ascoltavano in televisione. Come diceva Pasolini, lo scandalo dei democristiani era racchiuso nella lingua che parlavano, quella di una “putrefatta cultura forense e accademica” che era, insomma, la “lingua della menzogna”.
Da questa urgenza è nata Gina Carafa, la protagonista del romanzo, una ragazzina di undici anni molto precoce per la sua età e con una passione sfrenata per le parole nuove. Quando suo padre scompare, Gina si mette a decifrare i segni della realtà che la circonda e prova a fare chiarezza proprio a partire da quel linguaggio oscuro. Si chiede che cosa sia un “latitante”, che cosa facciano i “brigatisti” e perché alcuni politici amici di suo padre siano considerati dei camorristi. Si chiede inoltre perché gli adulti accettino l’esistenza di uno stato parallelo – quello del crimine organizzato – educando addirittura i propri figli a sottostare alle regole di un gioco in cui le persone perbene sono in realtà dei malavitosi.
Oltre a cercare il padre, imbarcandosi in una serie di avventure reali e inventate con i suoi compagni di scuola, Gina cerca appunto la chiave per comprendere il mondo degli adulti e decodificarne la finzione.
C’è da dire che per raccontare la storia di Gina ho dovuto combattere contro vari meccanismi di censura, spesso autoimposti. Perché quella bambina che aveva perso il padre, perseguitato dai compagni di partito, in pericolo di vita, con una famiglia devastata dal malaffare di un governo che piantava bombe a destra e a manca servendosi di vari bracci armati – quella bambina ero io. E la mia sopravvivenza, in modo consapevole prima e inconsapevole poi, era andata di pari passo per molti anni con il silenzio. Bisognava tacere delle telefonate di minaccia ricevute in casa quando ero piccola o degli apparecchi telefonici sotto controllo, tacere delle corse notturne in autostrada e degli incontri clandestini con mio padre, tacere infine delle tante storie da lui raccontate che a metterle in fila scrivevano una versione alternativa della Storia d’Italia: il rapimento di Aldo Moro, i brogli della Democrazia Cristiana, la collusione fra DC ed elementi di frangia del terrorismo di sinistra, l’appropriazione illecita di fondi destinati alle opere di pubbliche di ricostruzione dopo il terremoto dell’Irpinia, il trasformismo di tanti politici che si spostavano come banderuole da una corrente a un’altra o da un partito a un altro, il vincolo di solidarietà fra Stato, giustizia e camorra.
Giorno dopo giorno, Gina Carafa si è seduta accanto a me e mi ha costretta a rompere il patto di omertà che avevo stipulato innanzitutto con me stessa. Ci è riuscita, perché con lei doveva nascere la scrittrice che Gina-Enrica aspirava a diventare, quella che nell’estate del 1980 era partita sotto falso nome per andare a raggiungere il padre che si nascondeva in Sardegna.
L’amore per la scrittura e la costruzione dell’identità costituiscono un altro nodo importante del romanzo. Se la ricerca ossessiva della verità intorno alla vicenda politica è quello che motiva Gina – soprattutto nella seconda linea narrativa ambientata nel 1987 – la sua crescita in una famiglia di sole donne è quello che definisce nel bene e nel male la sua storia.
Con l’incipit del romanzo imbastisco la sua metafora principale: Mia madre aveva una Fiat Cinquecento gialla. Adesso non c’è più e non so nemmeno se ne facciano ancora.
La Cinquecento è l’auto in miniatura delle donne, che ha solo quattro marce contro l’imponente Alfetta guidata da Mario Carafa, che ne ha cinque. Il padre prende in giro la moglie Sofia dicendole che, come tutte le “femmine”, lei è piccola e ha una marcia in meno. Ebbene, l’altra sfida che ho raccolto con Gina è stata proprio quella di ricostruire il percorso accidentato di una donna a cui viene propinata la menzogna di una sua presunta condizione di inferiorità. Come fa a liberarsi? Da dove viene la forza per raccontarsi in modo diverso, sfidando gli stereotipi di un’epoca per cui il femminile è ancora il sesso debole?
L’emancipazione di Sofia e delle sue due figlie, Betta e Gina, maturerà nel corso del viaggio avventuroso a bordo della Cinquecento gialla, dalla Campania alla Calabria, che si sviluppa nella seconda parte del romanzo. Sarà appunto qui che la marcia in meno della piccola auto diventerà sinonimo di slow culture e solidarietà con donne e soggetti lgbt+ contro gli abusi sistemici di una società tradizionalista che gradualmente bisogna lasciarsi alle spalle.
Enrica Ferrara