Prefazione di Fausto Bertinotti a «Sfidare il capitalismo»

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Questo libro di Bernie Sanders sarà una scoperta per il lettore italiano e lo sarà in particolare per il lettore di sinistra; “sinistra”, peraltro, è diventato sulla scena della nostra politica un termine pressoché insignificante. La sinistra italiana, ma più in generale quella europea, è stata comunista, socialista, socialdemocratica, laburista, comunque interna alla storia del movimento operaio, una sinistra classista. Quando ha smesso di esserlo, è diventata liberale e insignificante. E ha perso il suo rapporto con la classe e con il popolo.

Le sue culture politiche postmoderne hanno persino negato la persistenza del conflitto di classe e hanno dismesso l’impianto teorico che da Marx aveva proposto il capitalismo come problema. Per il lettore italiano, immerso in questo ciclo politico-culturale, il libro di Sanders costituirà dunque una spiazzante sorpresa, un colpo di frusta. Ma anche per chi, ostinatamente controvento, ha rifiutato questo approdo e pensa che Marx vada superato, ma pur sempre ripartendo da lì, proprio quando il capitalismo si ripropone come problema, anche per questo lettore l’elaborazione di Sanders è un invito a riflettere su una diversa, possibile ripartenza.

Già il fatto che questo Sfidare il capitalismo venga dagli USA aiuta a riflettere. Riccardo Lombardi ci diceva che, quando gli USA hanno il raffreddore, l’Europa prende la bronchite. Non è più così, le relazioni internazionali non sono più lineari, cento linee di faglia spezzano il mondo contemporaneo in un policentrismo corrotto da questo ultimo capitalismo, che Sanders chiama «il sistema übercapitalista», e dalla rinascita, sotto il manto unificatore del mercato, della cultura dell’impero, della potenza dei nazionalismi e dei fondamentalismi. Sanders ci parla dell’America e ci dice che «il problema è il capitalismo» e che la lotta di classe, e in essa il conflitto di lavoro, sono il tema centrale di una politica che si voglia di sinistra. Non c’è chi non veda il colpo di maglio sulle culture politiche che si sono affermate in Europa, massimamente in Italia. Ma la scelta di campo di Sanders induce tutti noi a una duplice e impegnativa riconsiderazione del nostro sguardo sul movimento operaio americano e sul suo sindacato.

Negli anni Settanta, quelli che hanno seguito il biennio rosso 1968-1969, ovvero nella fase ascendente del conflitto sociale e del ruolo che vi ha svolto il sindacato dei consigli in Italia, questo sguardo sul sindacato statunitense è stato ingeneroso, attratto dai suoi lati più oscuri. Ci si è dimenticati degli IWW, gli Industrial Workers of the World, ci si è dimenticati dei Wobblies itineranti, che organizzavano gli immigrati non qualificati sotto lo slogan «Il proletariato lavora per tutti e sfama tutti». E ci si è scordati che in quel 1920 i portuali di New York scioperavano in parallelo con lo sciopero delle lancette a Torino. Ma anche dopo il 1950, dopo la legge antisindacale, il Taft-Hartley Act, lotte operaie dure, quand’anche isolate, avrebbero meritato ben altra attenzione, attenzione che forse è stata preclusa proprio da quel che oggi è la forza del fronte di lotta negli usa e che Sanders rivela innestando su di esso la sua efficace proposta politica. A me pare che questo carattere risieda in una lotta sociale che si dispiega senza appoggiarsi a una ideologia, ideologia che è stata invece un punto di forza del movimento operaio europeo, una lotta, cioè, che si afferma senza una cultura politica derivata da un sistema teorico-pratico. A leggere Bernie Sanders, sembra affacciarsi una contesa col nuovo capitalismo su basi direttamente sociali, diversa perciò da quella storica del movimento operaio europeo, ma non meno radicale. Ci offre una lezione importante per guardare ai nuovi conflitti tra capitale e lavoro nelle diverse parti del mondo. Ci aiuta a dismettere in Europa la cattedra acquisita nel Novecento con la lotta e con la straordinaria elaborazione teorico-pratica del suo movimento operaio, segnata dall’approccio marxiano e dall’orizzonte della rivoluzione. Quella scalata al cielo, dopo più di un secolo di lotte e di guerre, è precipitata nel fallimento delle società postrivoluzionarie a Est e nella drammatica sconfitta del movimento operaio a Ovest.

Oggi è forte, qui da noi, il senso di impotenza di fronte alla rivoluzione restauratrice che il capitalismo finanziario globale realizza e alle sue inedite forme di dominio sull’uomo, sulla natura, sulla società. Ma è proprio il nuovo capitalismo vincente che genera sistematicamente la crisi, ora, e che ci porta sull’orlo della catastrofe. Così si sente impellente, quand’anche ancora impotente, l’imperativo gramsciano di fronte alla sconfitta: ricominciare da capo.

Il libro di Sanders ci indica un inizio già ricominciato. E da dove? Da dove forse non era prevedibile. È un inizio per noi inedito, eppure classico: è il conflitto di lavoro, è lo scontro tra capitale e lavoro, è la contesa di classe. Il conflitto emerge potente nella società americana: l’opposizione al trumpismo, il movimento di lotta al razzismo e alle sue manifestazioni di sistema, il movimento contro ogni forma di violenza sulle donne e sull’umano. Movimenti che, nel loro sviluppo pratico, sempre hanno incorporato il conflitto sociale, hanno allargato e costituito una nuova frontiera, nella quale, scrive Sanders, «i diritti economici sono diritti umani».

I diritti sono ugualmente quelli degli individui, delle persone, come quelli della comunità, delle classi sociali, diritti liberali e socialisti. Così il conflitto di lavoro nasce laddove non era prima conosciuto, negli strati alti delle professioni, nel mondo del cinema, degli artisti, dei lavoratori dello spettacolo. Ma nasce anche proprio laddove tutta la sociologia contemporanea, come la politica prevalente, aveva negato potesse rinascere, nelle cattedrali riformate dello sviluppo fordista/taylorista dell’industria dell’auto, con la proclamazione di uno sciopero a oltranza da parte del sindacato United Auto Workers per tutte le lavoratrici e i lavoratori delle tre major statunitensi dell’auto: Stellantis, Ford e General Motors. Classico nel classico, l’obiettivo principale è un forte aumento salariale e più potere per i lavoratori in fabbrica. La conclusione è stata da anni Settanta, una vittoria netta con rilevanti aumenti salariali in una lotta che ha guadagnato persino il consenso del presidente degli Stati Uniti d’America.

Il libro di Sanders non nasce nel vuoto, non prende forma in una qualche lunga tregua sociale riempita dal crescente potere aziendale e padronale, come è avvenuto in Europa, né da un confronto tra le forze politiche nelle istituzioni segnato, come in Italia, da una produzione legislativa e da una pratica di governo antioperaia, una pratica non-Union. Esso nasce, al contrario, accompagnando criticamente, e sulla base della propria azione politica, i tentativi di introdurre politiche pubbliche per «apportare delle migliorie», ponendosi la domanda tutta politica: «Perché i democratici faticano a mantenere la promessa di cambiamenti trasformativi?».

Il libro di Sanders è la proposta di un cambio, un cambio che deve proporsi in primo luogo di «stare al fianco dei lavoratori in un’età di terribili disuguaglianze».

Il libro è un libro americano. Il titolo di un suo capitolo è “I miliardari non dovrebbero esistere. Solo mettendo fine all’oligarchia americana potremo cominciare a realizzare la promessa dell’America”. È un libro sull’America dei nostri giorni, sulle difficoltà di «vivere sotto un’oligarchia», su un presidente pericoloso, sulle difficoltà dei democratici americani, sulla sanità americana, sulla scuola americana, sui media che minacciano la democrazia americana (ma non solo là). Eppure è un libro che contiene una lezione anche per noi, per tutti quelli che abitano quel territorio che chiamano Occidente. La lezione è riassunta nel titolo del suo ultimo capitolo. Recita così: “Questa è una guerra di classe. È ora di reagire! Smettere di aver paura di contestare il capitalismo”. Credo si possa dire che è la conclusione di una traccia che il libro percorre rispondendo alle domande: perché vince la destra? Perché perde la sinistra? E prosegue denunciando la società capitalista perché crea una diseguaglianza crescente e intollerabile e contemporaneamente genera la crisi sociale. E, infine, ricavando dunque la conclusione che è necessario mettere in crisi proprio l’economia capitalista. Sanders sa e ripete che «i veri cambiamenti non avvengono mai dall’alto in basso. Arrivano sempre dal basso». Ma c’è un compito che è e resta della politica: «La politica vera», scrive Sanders, «si batte per scelte vere. I progressisti devono far capire che ci sono due schieramenti in questa battaglia. Da una parte i pochi ricchi che non cederanno nulla alla restante grande massa. Dall’altra parte c’è la grande massa che deve chiedere ciò che giustamente le è dovuto». Altrimenti detto, altrimenti gridato: «Voi 1 per cento, noi 99 per cento». La politica vera comincia dall’organizzazione, ci dice Bernie Sanders. Essa «consiste nell’aiutare i lavoratori a formare sindacati e ottenere contratti decenti dai padroni. Consiste nel partecipare ai picchetti quando i membri di un sindacato sono in sciopero […] Consiste nell’appoggiare gli inquilini che non possono permettersi aumenti […] Consiste nel marciare per la giustizia razziale, i diritti delle donne e contro ogni forma di intolleranza. Consiste nel chiedere, con persone di tutto il mondo, che il pianeta che lasciamo alle future generazioni sia in salute e abitabile».

Credo si possa riassumere tutto ciò dicendo che la vera politica, l’unico antidoto possibile alla crisi della democrazia che viviamo drammaticamente, sono la lotta e la partecipazione. È un’indicazione importante quella che ci viene da una pratica e da una proposta politica così lontana dalla nostra storia, per ricominciare da capo ora bisogna ricominciare dal basso e da un agire critico collettivo, ricominciare dal conflitto di classe.

Bernie Sanders ci lascia una previsione-promessa che può essere accolta anche al di qua dell’Atlantico: «Sì, la politica di un movimento di massa può sconfiggere l’übercapitalismo». Senza ricorrere alla pur preziosa teoria marxiana del valore e alla capitale nozione di lavoro astratto, ci viene detto che da una pratica critica, e dall’elaborazione politica su di essa, emerge oggi una critica radicale che si vuole di massa all’ultimo capitalismo. Una critica che parte dalla denuncia dello sfruttamento del lavoro e di quello che un tempo la sociologia critica chiamava supersfruttamento e che oggi dà prova di sé col lavoro povero, con la precarizzazione, con la destrutturazione e con la desoggettivizzazione del lavoro.

Appresa la lezione che viene dalla rinascita del conflitto sociale e da una politica che si vuole costruita su di essa, appresa dunque questa lezione così importante che ci viene dal di là dell’Atlantico, resta aperta la grande questione che quest’ultimo capitalismo propone all’umanità: come fermare la guerra e come fermare le politiche di distruzione della civiltà e della convivenza tra gli esseri umani che questo capitalismo estremo porta con sé, avvicinandoci alla catastrofe. Anche questa ricerca che chiamiamo pace ci condurrà però a un passaggio che ritorna come un classico, come necessità storica attuale. Si chiama, a intenderci ancora sul termine, rivoluzione.

Fausto Bertinotti

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