La genesi di «La Gran Mamma. Favola camorrista» di Alessandro Canale

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Sarà per colpa dei vecchi telefilm di Perry Mason o dei tanti raffinati legal movies che Hollywood ha sfornato con continuità, ma nel mio immaginario i tribunali sono sempre stati delle austere aule con pareti di legno e sedute di cuoio, dove tra un «Obiezione Vostro Onore» e un «Obiezione accolta» alla fine della puntata o del film si arrivava con soddisfazione a trovare la verità, solo la verità, nient’altro che la verità.

Avrei potuto giurarci.

Ma la spiacevole disillusione sia estetica che procedurale, provata la prima volta in cui ho assistito a un vero processo in uno dei nostri palazzi di giustizia, non da imputato per fortuna, mi ha fatto venire in mente la voglia di cancellarmi dalla testa una realtà così poco affascinante e tornare a rifugiarmi nella confortevole raffigurazione del processo come di uno spettacolo. Stavolta però stravolgendone la liturgia cinematografica, togliendolo dalle regole strutturate e condivise della società civile, per ambientarlo in una società che si potrebbe definire “incivile”.

Un tribunale illegale strutturato su leggi e procedure del tutto proprie, criminali, non condivisibili dai “non adepti ai lavori” e per questo, secondo me, letterariamente piuttosto suggestive. Una pura invenzione narrativa quindi, una favola sì, ma plausibile. Perché nella camorra i tribunali ci sono sempre stati. Si chiamavano Mamme ed erano presiedute non da un giudice laureato in Giurisprudenza ma da un Mammasantissima, con competenze in materie diametralmente opposte.

Il mio romanzo parte quindi proprio dalla voglia di raccontare un processo del genere. Siamo alla fine del 1944 e la confusione che regna nella Napoli appena liberata è totale.

La camorra, sciolta ufficialmente dai propri membri il 25 maggio 1915, dopo un processo che l’aveva fortemente indebolita, dopo decenni di sopravvivenza nascosta e clandestina vede finalmente la possibilità di tornare a comandare. Nei piani del Mammasantissima in carica, con il re fuggito e Mussolini finito chissà dove, per tornare a essere agli occhi dei napoletani l’unica autorità in grado di prendere in mano le redini della città, nulla può essere più efficace di una condanna a morte comminata dalla Gran Mamma, il tribunale supremo della camorra che torna finalmente a riunirsi, a un guaglione che ha commesso un omicidio oltraggioso in mezzo a un mercato.

Un vero e proprio rito pagano che il potente capo decide di organizzare non nel Cimitero delle Fontanelle, che tradizionalmente ospitava la celebrazione delle Gran Mamme, ma a casa sua, meglio ancora, alla sua tavola. Al termine di una cena conviviale dove tutti i capi dei Quartieri, con la loro approvazione unanime alla condanna del giovane accusato, alla fine di una sontuosa libagione avrebbero dato a tutta Napoli l’indiscutibile conferma dell’autorità del padrone di casa. Tutto sembrerebbe già scritto e avviato verso un finale di pace e soddisfazione se, per motivi di procedura penale camorrista, i convocati non si vedessero costretti a far entrare nella giuria una donna.

Una donna!?

Solo a immaginarlo sembra una bestemmia, ma senza la sua presenza il processo non avrebbe possibilità di iniziare, mancherebbe il numero “illegale”, motivo per cui, con sommo imbarazzo del Mammasantissima, proprio sua moglie Donna Filomena, la cuoca della sontuosa cena appena terminata, prende posto nella giuria.

Da quel momento il processo si trasforma in un confronto serrato e implacabile. Non tanto tra accusa e difesa, come in ogni tribunale che si rispetti, quanto più velatamente ma in modo più definitivo tra due mondi opposti che si fronteggiano per la conquista della nuova realtà che si sta affacciando.

Da una parte una guapperia superficiale e ignorante, fondata su valori obsoleti e ostentata da uomini impreparati al futuro che li sta per investire e che non vedono arrivare.

Dall’altra una modernità consapevole, attenta, vigile, in grado di sentire il cambiamento prima ancora del suo apparire e di sapersi muovere con una sensibilità che nessun uomo di quella giuria dimostra di possedere nemmeno lontanamente.

La Gran Mamma è una favola, dicevo e, seppur nera, come tutte le favole utilizza degli stereotipi conosciuti e riconoscibili per consentire al lettore di entrare subito nell’ambientazione. Per questo nel mio romanzo ho voluto richiamare l’arcadia della Napoli che tutti conosciamo, in teatro, nelle canzoni, nell’iconografia più popolaresca. Perché i caratteri siano immediatamente riconoscibili.

C’è un po’ di Pulcinella? Vero.

Ma questo non è Eduardo? Vero.

Ma lei non potrebbe somigliare a…? Verissimo.

Il mio intento narrativo è proprio di prendere un teatro di burattini e mettere in bocca alle marionette parole e temi che non si è mai pensato potessero affrontare, in situazioni da sceneggiata, è vero, ma stavolta amara e spietata. Il guaglione sarà condannato?

Questo il lettore lo scoprirà alla fine, ma quello che scoprirà subito dopo, posso assicurarlo, sarà molto più inquietante e oscuro di una rassicurante condanna a morte.

Alessandro Canale

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