Tradurre «Il gioco della Storia» di Philip Kerr

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Kerr

Stefano Bortolussi descrive la sua esperienza di traduzione dell’ultimo romanzo di Philip Kerr: Il gioco della Storia

Quando ho ricevuto la proposta, da parte dell’editore, di tradurre Il gioco della Storia di Philip Kerr (titolo originale: Field Grey), il settimo romanzo della magnifica serie con protagonista Bernie Gunther del compianto autore britannico, la mia reazione è stata bifronte.

Da un lato l’enorme soddisfazione di “dire la mia” nel contesto di una delle creazioni più complesse, significative e memorabili del noir contemporaneo, di cui mi ero innamorato fin da (quasi) subito, leggendo in originale Berlin Noir, la prima trilogia pubblicata nel 1993 da Penguin; dall’altro, il non meno ingente timore di inserire la classica “nota stonata” in un corpus narrativo con un suo bravissimo traduttore di riferimento, Luca Merlini, e di conseguenza un suo mondo di rimandi, stilemi, soluzioni e “trucchi del mestiere”.

Superate, con il doveroso ausilio farmacologico, le ansie iniziali, ho tuttavia adottato quello che è uno dei principi alla base del mio modo di lavorare: quello di creare una sorta di rapporto esclusivo e privilegiato con il testo originale, o meglio con il “mondo” del suo autore, evitando remore e condizionamenti esterni. Il motivo fondamentale di questa scelta è che la voce narrante di Kerr, che è poi quella dello stesso Bernie Gunther, è molto particolare pur inscrivendosi nella grande tradizione chandleriana/hammettiana dell’investigatore cinico, sardonico ma al tempo stesso generoso, e che il primo dovere del traduttore è quello di trasferirla in una lingua che ne restituisca guizzi, slittamenti, contraddizioni e idiosincrasie: in altre parole, una lingua personale.

È andata bene, probabilmente anche per il fatto che Il gioco della Storia è un titolo un po’ a sé stante nella produzione di Kerr: più romanzo bellico che noir, più spy story che thriller, più memoir che romanzo criminale, più excursus storico che cronaca di una specifica indagine. È andata bene perché è stato (e questo già lo sapevo) un piacere immergermi e immedesimarmi nella voce dell’esimio Bernie Gunther, per il quale si potrebbe a buon diritto adottare la definizione di “cespuglio (o calamita) di guai”. Non c’è operazione sporca, strage, tragedia, complotto o rappresaglia, nel corso del romanzo (che abbraccia la storia tedesca, europea e mondiale dall’avvento del nazismo alle fasi più glaciali della guerra fredda), in cui il buon Gunther non si ritrovi coinvolto suo malgrado; e a ciò si devono aggiungere gli innumerevoli, sfiancanti (per lui e per gli inquisitori) e spassosi (per noi) interrogatori a cui Bernie viene sottoposto per l’intera durata del libro, e che ne rappresentano un po’ la cifra stilistica e narrativa – al punto che si è tentati, a giochi (è il caso di dirlo) fatti, di coniare una nuova categoria narrativa: quella del “romanzo di terzo grado”.

Stefano Bortolussi

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