Edoardo Albinati
Orti di guerra
“La satira – scrisse Swift – è una sorta di specchio, in cui chi guarda di solito scorge la faccia di tutti gli altri ma non la propria”.
E se non fosse così? Se ci capitasse di trovarci in una specie di antisatira, dentro ad una spirale in cui si frantuma ossessivamente il nostro stesso volto (uno sguardo che non trascrive più il mondo ma lo coglie appena nella sua demenza, nel suo sfolgorante delirio), cosa dunque leggeremmo: un diario svuotato? Un libro aforistico di paradossi? Forse una commedia crudele e rabbrividente dell’assurdo quotidiano? La risposta, pur segreta, è il fascino stesso di questi Orti di guerra: Edoardo Albineti ha scritto un libro di puri giudizi, un resoconto acuto e scanzonato, raffinatissimo, dei limiti del nostro pensiero rispetto al mondo. La satira di Albinati non esamina più nulla, non morde, non capovolge, non consiglia. Sta solo a giudicare: con un’intelligenza purissima e selvaggia.
– 02/05/1997
Edoardo Albinati ORTI DI GUERRA Fazi, 189 pp. – lire 25.000
“Un’economia di guerra applicata alla prosa”. Aforismi e invettive, lettere e traduzioni di canzoni, ritagli di giornali e aneddoti”, così è costruito il libro – diario di Edoardo Albinati. All’inizio dell’assedio di Sarajevo sui muri di un ufficio postale fu scritto: “Questa è Serbia!”. Un’altra mano aveva aggiunto poco sotto: “No, idiota, questo è un ufficio postale !”. Semi gettati qua e là nel corso di tre anni. Un po’ a caso un po’ per gioco. A volte per riflettere. Coltivati in piccoli spazi strappati all’aridità della vita. Simili agli orti di guerra. Piccoli appezzamenti buoni, in tempo di penuria per fa crescere le poche cose necessarie . orti in cui prolificano una quantità di semi diversi: Dante Alighieri e i Led Zeppelin, Louis Ferdinand Céline e Hieronymus Bosch, memorie e desideri, col disincanto di chi ente di aver alle spalle la gioventù: “All’epoca in cui l’uomo più famoso d’Italia era un giudice rapito dalle Br e il secondo Eddie Merckx”. E oggi si trova a fare i conti con un mondo totalmente altro. “I miei studenti ( i meglio! ) leggono Julius Evola, vogliono tornare pagani, si rasano metà della testa, mi prestano il giubbotto, la moto, mi chiedono chi è Evola e perché non mi piace: ma come posso spiegarglielo? Chi sono io?”.
– 02/05/1997
I frutti proibiti della terra insanguinata e l’amorevole cura di un singolare cecchino all’incontrario
“Orti di Guerra” è un libro di doloranti, divertenti, divertite, dolorose micro-scritture, non riconducibili né alla forma letteraria del racconto né alla poesia. Semmai, nella loro coerente, vermeeriana precisione e nella legittima ambizione di raccontare, gli Orti mi pare si avvicinino di più a un’idea frammentata e (scusate, bisogna proprio che lo scriva, non trovo aggettivo migliore) fuzzy di romanzo. Questo librarsi sopra l’idea stessa di forma letteraria, però, non porta con sé nessuno dei suoi usuali sottoprodotti: arroganza, autorialità, elitarietà compaciuta. No, negli Orti viene semplicemente ad esser mostrata la brillantezza del lavoro di uno scrittore importante; di un poeta che ha intrapreso per noi l’impaniante viaggio nel guano del quotidiano, e ce l’ha raccontato. A noi che stiamo a casa nostra, e si vive tutto in un altro modo, e si guarda la televisione; e si ha altri pensieri. A noi che poeti non siamo davvero. Ed è commovente l’esibito, disperato sforzo di Albinati di mantenere una distanza dal materiale esplosivo che maneggia, proprio mentre si sente, si sente bene che ogni cosa che scrive lo dilania; tantoché a leggere il libro, l’autore mi è parso diventare, certe volte, una specie di lewiscarrolesco cecchino all’incontrario, che invece di uccidere, venga ferito da ogni cosa entri nel mirino crociato del suo fucile di precisione, e ciò nonostante debba continuare a guardare, tutto e tutti. E’ un libro pieno di perle: quel commosso, totalmente inatteso ricordo di Kurt Cobain (orto n. 124), i fiori da portare sulla tomba del topo Algernon (orto n. 12), e via e via e via. Si sarà capito, io sono un fan di Edoardo Albinati. Quando ho cominciato a scrivere, era a lui e a Sandro veronesi che volevo assomigliare. Alla loro qualità di scrittura, aspiravo. E a leggere oggi, dopo dieci anni, un libro come “Orti di guerra” mi é venuto da pensare che sarebbe bello se qualche Principe dei commentatori letterari italiani provasse a sortire dall’Argomento dell’Anno, quella impronunciabile parola americana di quattro lettere che no, non é fuck, e si occupasse, invece, solo dei libri scritti da chi Sa Scrivere. Mica per niente, ma se questo accadesse, forse tra vent’anni libri come “Orti di guerra’” o “Gli sfiorati” sarebbero ancora disponibili in libreria, e letti nelle scuole, e i miei figlioli non avrebbero da chiedermi le ormai vetuste e sottolineate copie, di cui lo so già, sarò molto, molto geloso.