Tommaso Giartosio
Doppio ritratto
“Viaggiare attraverso un grande libro è sempre anche viaggiare attraverso la propria vita, ripercorrerla, forse cambiarne direzione”.
In Doppio ritratto, libro sospeso tra romanzo, saggio e autobiografia, Giartosio compie questo viaggio e, percorrendo le pagine e le vicende del grande antenato Alfieri, torna sui passi della propria infanzia, alla ricerca di sé. Lo scavo, vero e proprio itinerario attraverso il passato e le domande rimaste irrisolte, si rivela anche un affascinante percorso intorno alla letteratura: il rapporto con Alfieri diventa infatti un pretesto per interrogarsi sul perché si scriva e sul significato stesso della letteratura, letteratura intesa come necessità e sottile, irrevocabile responsabilità.
– 02/05/1998
E GRAZIE AL SERVO ELIA ALFIERI SI SCOPRI’ POETA
E’ un’operazione letteraria estremamente interessante, forse unica nel suo genere quella che propone Tommaso Giartosio con “Doppio ritratto” (Fazi, pagine 236, lire 28.000), un romanzo-saggio, vincitore proprio in questi giorni del premio Bautta opera prima che rilegge un classico, in termini di esperienza personale. E’ la figura di Vittorio Alfieri ad emergere in queste pagine, soprattutto in una lettura approfondita e mai banale della “Vita” dello scrittore, alla ricerca del suo bisogno di poesia, quella poesia che gli appartiene come destino naturale, anche se per giungere a quel traguardo, quello che appunto istituisce l’essere poeta, diventa un percorso decisamente arduo, costellato da freddezze e clamori, da sconfitte e da bagliori interiori. Del resto ad Alfieri interessa sempre “il futuro scrittore” e come scrive Giartosio, “gli sta a cuore quel suo “sdegno generoso e magnanimo”, amor di gloria e amor di se stessi, la sorgente della poesia. Il grande libro è un vulcano addormentato. Serve a liberare un linguaggio che affiora (poi, si può proceder senz’esso)”. Giartosio assume su di sé questo “corpo di scrittura” essenziale, cerca le forme di questo linguaggio per capire il nodo che Alfieri deve sciogliere per dirsi poeta e inizia un’indagine all’interno del testo che è si filologica e esattissima, ma è innanzitutto creativa, ovvero letteraria e umana. Infatti rileggere Alfieri oggi equivale anche a interrogarsi sulla necessità della “parola letteraria”, sulla sua efficacia, sul destino che comporta per chi scrive. Nel romanzo-saggio lo fa mettendo a confronto continuamente l’esperienza autobiografica giovanile con le necessità di comunicazione, di dar forma ad un linguaggio con le interrogazioni poste alla “Vita” di Alfieri, perché non ci sono certezze da rilevare in quest’indagine sul “classico”. La “Vita” lo è per definizione e, come sottolineava Calvino, “è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire”. Per affrontare questo viaggio nella “Vita” di Alfieri bisogna porsi soprattutto una serie di questioni quella dell’infanzia (e ci sono pagine importanti sulla ricognizione del linguaggio infantile), ma soprattutto quella del nodo centrale di tutta l’esperienza alferiana, vale a dire il rapporto con il servo Elia. E si tratta di un’indagine affascinante e rivelatrice quella proposta da Giartosio, in quanto è Elia, il servo, a permettere a Alfieri di riconoscersi poeta. Elia serve a legittimare Alfieri, “garantendo che in Vittorio il potenziale poeta è finalmente nato”. Lui diventa il tramite e garantisce la nascita in Vittorio del potenziale poeta, quando “la parola vera” riesce a emergere al di là di ogni travestimento, quando “l’albero della poesia” si impone come assoluta fedeltà a se stessi.
– 07/01/1998
Tommaso Giartosio – Doppio Ritratto
Il nome di Vittorio Alfieri rimanda al “cliché” di uno degli scrittori più ingombranti e polverosi della nostra tradizione. Ma dalla lettura di questo “Doppio ritratto” di Tommaso Giartosio, in cui Alfieri è una specie di “alter ego” del protagonista, emerge l’immagine di un uomo moderno, che si cerca nello specchio “con la paura di trovarsi”, che interroga se stesso con una consapevolezza straordinaria per uno scrittore del Settecento. Il libro di Giartosio è in realtà un libro molto ambizioso e complesso: è un libro autobiografico, un romanzo, un saggio, ma soprattutto un processo di autoconoscenza attraverso testi, generi e forme diversi. Ad apertura di libro il protagonista rievoca se stesso bambino, le sue estati nella villa della nonna materna e la grande, unica e irripetibile storia d’amore e di amicizia con Matteo, figlio della più giovane delle sorelle della nonna; ma non è un abbandonarsi al flusso dei ricordi; il suo ricordare ” è – deve esserlo – un gesto attivo: (…) ricordare è interpretare. O meglio, esiste un punto intimo, un istante di passione segreta, in cui ricordare e interpretare si sovrappongono, coincidono “. Nel salone della villa della nonna c’è un antico ritratto che i due ragazzini (il protagonista e Matteo) guardano sempre ammirati, di un bambino dai capelli rossi, forse Vittorio Alfieri, antenato della famiglia della nonna, discendente da Giulia, sorella del poeta. In realtà il bambino del ritratto non è Alfieri, ma la sorella Giulia; e questa sovrapposizione non è casuale e non è l’unica. Il nostro protagonista è affascinato dall’immagine del ritratto che sembra aspettare qualcuno che venga a raccontare la sua storia. Alfieri la sua storia in realtà l’ha raccontata in una delle autobiografie più belle del Settecento, la “Vita”. Giartosio la ripercorre per raccontare attraverso la vita di Alfieri la sua vita, attraverso l’iniziazione alla scrittura di Alfieri, la propria iniziazione alla scrittura. I momenti più intensi della “Vita di Alfieri”, quelli che sono rimasti fuori dal canone letterario scolastico (il suo “amore” per i fraticelli della Chiesa del Carmine, la sua nostalgia per il padre mai conosciuto, l’ambiguo rapporto con la madre, le sue pulsioni omoerotiche, il suo rapporto complesso e carico di violenta sensualità con il servo Francesco Elia), sono riscritti in un inedito gioco di rispecchiamento che dà le vertigini. Nodi sempre più avviluppati a poco a poco sembrano sciogliersi e scopriamo perché Alfieri è diventato poeta, quanta parte ha il linguaggio e la letteratura nel superamento di tante esperienze traumatiche, qual è il rapporto del protagonista del “Doppio ritratto” con la villa della nonna e con Matteo, perché Alfieri diventa scrittore e Francesco Elia no, perché diventa scrittore Giartosio e Matteo no, come si sviluppa il rapporto servo-padrone, chi è in realtà il servo e chi il padrone. Quando tutto sembra chiarito, ci accorgiamo che non è proprio così: altri dubbi e altre domande incalzano come se il libro fosse una macchina per pensare. Un libro bello, scritto con un linguaggio intenso, sulla possibilità di dialogare con se stesso, ” il terribile partner ” di cui parlava Canetti, ma anche sulle capacità “salvifiche” della scrittura e sulle responsabilità di chi pretende, attraverso di essa, di dare un senso al mondo.
– 02/05/1998
Autobiografia in forma di thriller
“È questo il paradosso centrale di cui parlo: se sono letteratura sono una letteratura senza scrittori…” Attorno a questa suggestione critica, lievemente spaesante, si addensa il libro d’esordio di Tommaso Giartosio. La frase citata si riferisce, appunto, a quelli che vengono qui definiti “libri-esperienza”, dal “Diario” di Anna Frank alle “Confessioni” dello schiavo ribelle Nat Turner fino alle lettere di Luciano Elia, fedele servitore di Vittorio Alfieri, suo compagno di viaggio per l’Europa e da lui ritratto nella sua “Vita”. Sono libri anche grezzi, disuguali tra loro, privi di trama e di struttura, che testimoniano del bisogno di scrivere di chi non sarà mai uno scrittore, della moltitudine dei sommersi che vogliono disperatamente salvarsi attraverso “un linguaggio che affiora”. “Doppio ritratto” è l’autobiografia di Giartosio quasi ricalcata su quella dell’Alfieri, con alcune analogie e simmetrie messe in evidenza anche con volute forzature. Da un certo punto di vista siamo di fronte a un thriller esistenziale, tra la microstoriografia di Carlo Ginzburg e un giallo di Agata Christie (in cui, guarda caso, l’ “assassino” è sempre il maggiordomo) alla ricerca di un significato, di una vocazione sepolta, fino a tornare “alle sorgenti di se stesso”, nell’infanzia più buia. Un materiale densissimo, incandescente, calato però entro una “drammaturgia” approssimativa, a tratti farraginosa. Come se Giartosio avesse pensato di scrivere l’unico libro della sua vita, via ha immesso davvero tutto, contratto spesso in un intarsio fittissimo di aforismi sul destino e sulla felicità, di giudizi sentenziosi sulla vita e sulla morte, di frasi definitive e geniali sulla verità, con un effetto, in parte fatale, di saturazione per eccesso di intelligenza critica e sottigliezza filologica. Eppure, queste pagine ricordano alle scuole di “creative writing” che scrivere può essere una dolorosa necessità prima ancora di un diritto garantito o di una tecnica da imparare con profitto. E ci mostrano come la parola che affiora sulla pagina, per quanto si opponga al silenzio, in un certo senso sempre “tradisce” ciò che vuole rappresentare.
– 02/01/1999
Vita di Alfieri come un romanzo-saggio
C’è una “nuova critica” di cui prima o poi ci si dovrà accorgere e che sta dando un’accelerata creativa al modo di intendere il proprio ruolo, al di fuori degli schemi accademici, inseguendo prospettive di stile, di struttura e, sostanzialmente, di approccio di gran livello. Un esempio è questo insolito e tesissimo romanzo-saggio di Giartosio, già ottimo curatore di opere di Thackeray e Isherwood, che struttura la sua opera a partire dalla “Vita” di Alfieri, inseguendo le domande nascoste di questo testo in relazione all’uomo-Alfieri e al suo bisogno di poesia. Così la rilettura di un classico diventa un’avventura sul significato del fare letteratura, in rapporto alla necessità di comunicazione e di espressione. Lo sviluppo di questo tema si struttura come percorso parallelo, più narrativo e memoriale, un’indagine sui significati di un tempo infantile, al mare, in una strana villa abitata, oltre che da vibranti figure femminili, da due ragazzi: la voce narrante e Matteo, che si mettono a confronto. Così la rilettura di Alfieri, il suo percorso esistenziale, si spezza e dà l’avvio ad altre, considerazioni, a un’interiorità che vuol essere svelata, lì nel luogo della sua crescita, nell’infanzia. La “Vita” di Alfieri viene accostata da Giartosio come “il romanzo di formazione di un poeta nato”, proprio perché in essa è presente, continuamente, la necessità e il bisogno di legittimare sé in rapporto alla poesia. Giartosio segue le tappe di questa “formazione” difficoltosa e angosciata: richiama le parole-chiave, spiega e affonda, in una sorta di viaggio dentro un testo che diventa indagine alla ricerca di un destino, quello che porta a Elia, attraverso la lettura a chiave della tragedia “scomoda”, Mirra. Qui si svela il nodo che lega Vittorio al servitore Elia. E Giartosio sottolinea: “L’albero della poesia nasceva da un seme duro e sepolto: una parola vera. Bisognava dirla. Ma una così assoluta fedeltà a sé stessi la si trovava solo rinnegando ogni sotterfugio servile, ogni travestimento”. “Doppio ritratto” è uno dei libri più intensi di questo momento, tutto giocato sulle domande, alla ricerca di un possibile linguaggio, “tra ciò che preme e domanda e attende e ciò che trapela, vibra, affiora”.
– 02/05/1998
Il rumore della memoria
Viaggiare nel mondo della scrittura è ripercorrere fino in fondo la propria vita cambiandone direzione. “Doppio ritratto” riesce a compiere questo viaggio nel passato unendo l’autobiografia al saggio avventuroso. Si parte da alcune parole di William Carlos Williams: «Lo scrivere non è nulla, l’essere in condizione di scrivere è nove decimi della difficoltà». Ma qual è questa condizione? Cosa ci predispone ad iniziare a ascrivere un romanzo? Forse ala lettura: in questo caso un alfieri del tutto inedito, sballottato tra le rivolte e i collassi di una sfuggente vocazione poetica. Anche il ricordo dell’infanzia, la sensazione d’alcuni odori persi nella memoria, dei sorrisi strappati agli sconosciuti, possono dare lo stimolo a prendere carta e penna. Nel romanzo di Giartosio le radici della fanciullezza emergono nei ricordi di una villa natica e una vacanza dove nacque un’amicizia essenziale. L’aria che si respira sta tutta nel chiedersi come avviene il passaggio, come si diventa grandi? E chi o cosa viene messo a tacere perché noi possiamo iniziare a parlare? Le risposte si perdono nei ricordi e l’autore scava nella memoria, ala ricerca di una riflessione sul significato della letteratura come necessità. Questo far riemergere i ricordi sembra l’unico modo per riuscire a vivere il presente e poter scrivere o leggere: «Io credo che noi leggiamo perché siamo avidi di vita; i migliori le impediscono per sempre di morire, la fanno respirare». Se conosci il bambino, consoci l’uomo, così la pensava Alfieri, un bambino nascosto che tace dentro di noi per riemergere all’improvviso. Se sappiamo accarezzarlo senza timore potremo capire meglio la realtà e dire di essere finalmente diventati grandi. Forse scrivere serve a far riemergere il fanciullo che abbiamo dentro, sepolto nella memoria, sembra affermare l’autore. Giartosio ha uno stile essenziale, posato, ogni tanto fa emergere qualche frammento dai ricorsi: una luce, un sentimento. Nel rumore della vita si sente solo il silenzio: «Mi ero disabituato ai rumori fuori città. Poi ho capito che a tenermi sveglio era invece il silenzio: l’assenza di un basso continuo. Mi mancava il rumore del mare». Alfieri la sua storia in realtà l’ha raccontata in una delle più belle autobiografie del Settecento, la Vita. Giartosio la ripercorre per raccontare attraverso la vita di Alfieri la sua vita, attraverso l’iniziazione alla scrittura di alfieri, la propria iniziazione alla scrittura. I momenti più intensi della Vita di Alfieri, quelli che sono rimasti fuori dal canone letterario scolastico (il suo “amore” per i fraticelli della Chiesa del Carmine, la sua nostalgia per il padre mai conosciuto, l’ambiguo rapporto con la madre, le sue pulsioni omoerotiche, il suo rapporto complesso e carico di violenta sensualità con il servo Francesco Elia), sono riscritti in un inedito gioco di rispecchiamento che dà le vertigini. Nodi sempre più avviluppati a poco a poco sembrano sciogliersi e scopriamo perché Alfieri è diventato poeta, quanta parte ha il linguaggio e la letteratura nel superamento di tante esperienze traumatiche, qual è il rapporto del protagonista del Doppio ritratto con la villa della nonna e con Matteo, perché alfieri diventa scrittore e Francesco Elia no, perché diventa scrittore Giartosio e Matteo no, come si sviluppa il rapporto servo-padrone, chi è in realtà il servo e chi il padrone. Quando tutto sembra chiarito, ci accorgiamo che non è proprio così: altri dubbi e altre domande incalzano come se il libro fosse una macchina per pensare. Un libro bello, scritto con un linguaggio intenso, sulla possibilità di dialogare con se stesso, «il terribile partner» di cui parlava Canetti, ma anche sulle capacità salvifiche della scrittura e sulle responsabilità di chi pretende, attraverso di essa, di dare un senso al mondo.
– 08/01/1999
Tommaso Giartosio
Doppio ritratto
Il nome di Vittorio Alfieri rimanda al cliché di uno degli scrittori più ingombranti della nostra tradizione. Ma dalla lettura di questo Doppio ritratto di Tommaso Giartosio, in cui Alfieri è una specie di alter ego del protagonista, emerge l’immagine di un uomo moderno, che si cerca nello specchio «con la paura di trovarsi», che interroga se stesso con una consapevolezza straordinaria per uno scrittore del Settecento. Il libro di Giartosio è in realtà un libro molto ambizioso e complesso: è un libro autobiografico, un romanzo, un saggio, ma soprattutto un processo di autoconoscenza attraverso testi, generi e forme diversi. Ad apertura di libro il protagonista rievoca se stesso bambino, le sue estati nella villa dell nonna materna e la grande, unica irripetibile storia d’amore e di amicizia con Matteo, figlio della più giovane delle sorelle della nonna; ma non è un abbandonarsi al flusso dei ricordi; il suo ricordare «è – deve esserlo – un gesto attivo: […] ricordare è interpretare. O meglio, esiste un punto intimo, un istante di passione segreta, in cui ricordare è interpretare si sovrappongono, coincidono». Nel salone della villa romana della nonna c’è un antico ritratto che i due ragazzini (il protagonista e Matteo) guardano sempre ammirati, di un bambino dai capelli rossi (forse Vittorio Alfieri) antenato della famiglia della nonna, discendente da Giulia; e questa sovrapposizione non è casuale e non è l’unica. Il nostro protagonista è affascinato dall’immagine del ritratto che sembra aspettare qualcuno che venga a raccontare la sua storia. Alfieri la sua storia in realtà l’ha raccontata in una delle più belle autobiografie del Settecento, la Vita. Giartosio la ripercorre per raccontare attraverso la vita di Alfieri la sua vita, attraverso l’iniziazione alla scrittura di alfieri, la propria iniziazione alla scrittura. I momenti più intensi della Vita di Alfieri, quelli che sono rimasti fuori dal canone letterario scolastico (il suo “amore” per i fraticelli della Chiesa del Carmine, la sua nostalgia per il padre mai conosciuto, l’ambiguo rapporto con la madre, le sue pulsioni omoerotiche, il suo rapporto complesso e carico di violenta sensualità con il servo Francesco Elia), sono riscritti in un inedito gioco di rispecchiamento che dà le vertigini. Nodi sempre più avviluppati a poco a poco sembrano sciogliersi e scopriamo perché Alfieri è diventato poeta, quanta parte ha il linguaggio e la letteratura nel superamento di tante esperienze traumatiche, qual è il rapporto del protagonista del Doppio ritratto con la villa della nonna e con Matteo, perché alfieri diventa scrittore e Francesco Elia no, perché diventa scrittore Giartosio e Matteo no, come si sviluppa il rapporto servo-padrone, chi è in realtà il servo e chi il padrone. Quando tutto sembra chiarito, ci accorgiamo che non è proprio così: altri dubbi e altre domande incalzano come se il libro fosse una macchina per pensare. Un libro bello, scritto con un linguaggio intenso, sulla possibilità di dialogare con se stesso, «il terribile partner» di cui parlava Canetti, ma anche sulle capacità salvifiche della scrittura e sulle responsabilità di chi pretende, attraverso di essa, di dare un senso al mondo.
– 11/06/1998
La vita del drammaturgo piemontese attraverso nuovi documentiIl curioso rapporto tra Vittorio Alfieri e il domestico che lo legava alla sedia
Il grandissimo Bachtin sosteneva che un autore non può immedesimarsi nei suoi eroi, ama deve distanziarsi dal mondo delle opere che crea. Altrimenti non fa letteratura. Se le cose stanno davvero così allora esistono testi memorabili che non sono letteratura in senso stretto. Per esempio le Lettere di Kafka, il Diario di Anna Frank, Il mestiere di vivere di Cesare Pavese. E alcuni appunti postumi di Nietzsche. O di Wittgenstein. Opere ibride, incollocabili. Perché l’autore vi si è riversato interamente, e restano, illuminate da una assoluta adesione alla vita, pagata a volte con distonie, trascuratezze formali. Alcune di queste opere sono diventate die classici, rimanendo sempre eccentriche rispetto agli statuti canonici. Credo che questa sia l’intuizione di fondo che ah avuto Tommaso Giartosio nel ripensare un classico anomalo che oggi in pochi leggono e in meno ancora rileggono: la Vita di Vittorio alfieri. Ne è venuta fuori una biografia insolita, irregolare. Con pagine d’alta suggestione. Perché Giartosio segue alfieri con un atteggiamento che è l’esatto contrario del distacco. La sua lettura della Vita è dichiaratamente (spudoratamente?) interna a passionale. Così, nel vagabondare per l’Europa d’un giovane piemontese nevrastenico, donnaiolo, malinconico dalle incertissime vocazioni, Giartosio vede rispecchiarsi frammenti della propria gioventù e perfino delle proprie vocazioni. E forse, proprio quest’eccesso di vicinanza al suo eroe porta Giartosio a una serie di “scoperte” la cui originalità lascia affascinati e sconcertati, insieme. È noto: a Vittorio alfieri si accompagnò per anni un servitore di famiglia, il famoso Francesco Elia, quello che, per intenderci, lo legava alla sedia. Esaltato nella Vita come “uomo di sagacissimo ingegno”, duro e tosto piemontese. Maneggione, forse paraninfo. Vero servo settecentesco. L’esaltazione alfierana di Elia fu, in gran parte, pura agiografia. Tanto affidabile non doveva esserlo quel domestico , se venne allontanato in modo definitivo. Giartosio ci informa che Elia scrisse una serie di lettere. Alcune delle quali indirizzate all’amante del padrone: probabilmente assai sconvenienti, semiricattatorie. Lettere quasi tutte sparite. Ne rimangono sei. Il loro periodare è macchinoso, il lessico irregolare, incerto. A un padrone che raggiunse a fatica una ineguagliabile purezza di stile corrispose un servo che altrettanto a fatica si espresse in una insicura lingua italiana. Elia, il servo-ombra rifiutato da Alfieri, fu allora il suo doppio, la sua contro immagine sommersa? In ogni caso servo e padrone, alla fine, scrivono, si esprimono. E questo è per Giartosio l’evento risolutivo in ambedue le vite. Forse, il lato ingenuo di questo curioso Doppio ritratto è proprio l’enfasi posta sulla scrittura, fiduciosamente intesa come mitica liberazione salvifica. Unico alto un po’ astratto, ideologico dentro una storia semivera che è la triplice biografia incardinata dell’Alfieri, dell’Elia, dell’autore che racconta di sé ala luce di quanto capitò ad alfieri e ad Elia. Narrazione condotta sul filo dell’improbabilità. Ma da leggere.