Pier Antonio Quarantotti Gambini

Neve a Manhattan

COD: 903ce9225fca Categorie: , Tag:

Collana:
Numero collana:
37
Pagine:
208
Codice ISBN:
9788881120628
Prezzo cartaceo:
€ 15,00
Data pubblicazione:
31-03-1998

A cura di Raffaele Manica

Nel gennaio del ’39 Quarantotti Gambini sbarca a New York per un breve soggiorno in America che lo porterà, seppure per poco, anche a Filadelfia e a Boston. Sotto una coltre di neve che sembra volerla gelosamente custodire, al suo sguardo di visitatore attento e curioso appare una città scintillante che non cessa di stupirlo per i suoi mille volti, per i suoi tanti personaggi così peculiari e straordinari, che vengono fermati in una miriade di episodi e aneddoti. Il racconto di Quarantotti Gambini, che qui si stampa per la prima volta, si presenta con una freschezza straordinaria, pullulante di cose, situazioni, scoperte, come un teatro tra tenerezza e violenza: l’America, in breve, come, più di mezzo secolo dopo, ancora la immaginiamo: nel suo rapporto conflittuale con la vecchia Europa, nella sua giovinezza e nella sua malattia.
“Parigi, nella sua grazia razionale, è ancora Settecento; Londra, nel suo imbruttimento vittoriano, nella sua chiusura agiata, che lascia tuttavia scampo alla fantasia, è ottocentesca; New York è il nostro secolo”.

NEVE A MANHATTAN – RECENSIONI

 

Elvio Guagnini, IL PICCOLO
– 02/08/1998

Fazi pubblica “Neve a Manhattan”: appunti di viaggio del narratore

IL BRIVIDO AMERICANO DI QUARANTOTTI GAMBINI

Annotava: “New York è il nostro secolo. Una città senza segreti e senza pietà”

I libri di viaggio negli Stati Uniti sono – nel nostro secolo – autentiche cartine tornasole dell’atteggiamento dei diversi autori di fronte alla società di massa e ai suoi problemi. Ripercorrere questo interessante filone di scritture permette di cogliere pregiudizi e curiosità, rifiuti ed aperture. Da Antonio Scarfoglio, che testimoniava (1910) – con molti pregiudizi – il suo incontro con il Nord America in occasione di un raid automobilistico organizzato da un quotidiano francese; alle percezioni emotive e visive di Parise relative allo squallore e al fascino dell’universo metropolitano statunitense degli anni Sessanta e Settanta; alle pagine suggestive di Mario Fortunato sulla New York notturna (1993): la letteratura italiana di viaggio registra – nel nostro secolo – stili e modalità diverse nella percezione della dinamica del moderno e delle sue conseguenze. Capitoli importanti in questa vicenda sono – particolarmente nel primo Novecento – “America primo amore” di Mario Soldati (1935) e “America amara” di Emilio Cecchi (1939): ricco di verve narrativa e di pungenti osservazioni di costume il primo; di taglio più saggistico, e pure denso di riserve verso gli aspetti di mutamento comportamentale della civiltà di massa, il secondo. In questo quadro, tanto interessante quanto articolato, il libro di appunti americani di Pier Antonio Quarantotti Gambini, “Neve a Manhattan” (Fazi, pagg.197, lire 30mila), pubblicato a cura di Raffaele Manica, occupa, certo, un posto di riguardo. Un’eccellente presentazione del curatore e la nota al testo aiutano, rispettivamente, a collocare il libro nel quadro della letteratura di viaggio del Novecento, e valgono a definire la storia di queste pagine dello scrittore istriano: appunti risalenti a un viaggio effettuato a New York – Filadelfia – Boston nel 1939 (dodici giorni di permanenza tra l’arrivo a New York con il “Rex” e la partenza con il “Vulcania”) e sottoposti nel 1957 a una revisione rimasta interrotta. Il testo esce dunque ora, postumo, in una versione ritenuta, dal curatore, rappresentativa dell’ “ultimo stadio” di elaborazione. In una premessa scritta per licenziare il racconto, Quarantotti Gambini ricordava che, data la brevità di quel soggiorno, il testo rappresentava una serie di “impressioni”, “schizzi”, “appunti”, utili tuttavia a far cogliere – della New York d’anteguerra – qualcosa di quell’ambiente e di quell’epoca. Il libro si presenta come una successione di appunti (talvolta brevi frammenti, altre volte sequenze narrative più distese) che, nonostante l’esiguità temporale dell’esperienza, sono di notevole interesse e rappresentatività. Certo, la natura di queste pagine è quella di testi d’epoca rivisti, talvolta con aggiunte espressamente indicate come appartenenti alla stagione successiva, nella quale si colloca la revisione. Eppure, le pagine conservano la vivacità e la freschezza di impressioni originali e talvolta immediate; e sono pagine interessanti per due diverse ragioni: da un lato, la qualità della scrittura di Quarantotti Gambini; da un altro lato l’incisività della testimonianza sulla società americana di quegli anni. Nella prima direzione, Quarantotti Gambini rivela un arco di potenzialità espressive che dall’incisività del reportage si estendono fino alla condensazione della scrittura in tratti aforistici e immagini di notevole forza poetica (“Cielo azzurrissimo di New York, in un’aria di diamante. Lo corrono, come di primavera, grandi nuvole candide”); e che, accanto a doti di ritrattista (per esempio, nelle poche righe dedicate a Somerset Maugham e alla sua “faccia giallastra, segnata e amara”), rivelano uno sguardo originale e ironico, come nelle pagine in cui il disfarsi della neve a New York è raccontato attraverso le “migliaia, decine di migliaia, centinaia di migliaia, milioni di piedi in galosce” che calpestano lo “strato acquoso sporco, luccicante” che copre l’asfalto delle strade cittadine. Accanto a osservazioni rapide e sintetiche (“C’è qualcuno che sappia parlare e ridere sottovoce, in America?”), altre pagine si distendono nel registro del divertissement, pieno di brio (come un paragrafo sulle difficoltà di ballare su una nave che attraversa, rollando e beccheggiando, l’Oceano in burrasca) o fanno trapelare una vena lirica, come nella rappresentazione dell’Oceano quietato, solitario, “mare omerico in calma”, “distesa mossa ma non in burrasca, azzurro – cupa e fiorita di spume nel chiaro sole d’inverno”. Dal punto di vista testimoniale e del giudizio sulla società nordamericana, va ricordato che il libro assolve al compito ricordato dallo scrittore negli appunti di presentazione per un’eventuale stampa, nel 1957: “Ricordando le storture che trovai in certe opinioni che gli americani hanno di noi (…) penso che questi appunti denunceranno, in me europeo, altrettante storture d’opinione sull’America”. In tal senso, mentre esplora qualità e limiti di quella società, mente sottolinea la diversità tra civiltà europea e civiltà americana, Quarantotti Gambini ha modo di sottolineare gli aspetti più apprezzati : “Una modernità antica (…). Una modernità vigorosa, di largo fusto e di solide radici: antica, come una buona quercia (…). Gli Stati Uniti (…) sono la compagine statale di più antica modernità; dobbiamo rendercene conto noi europei, genti antiche che tendiamo a modernizzarci con sussulti nevrotici”. E, mentre rileva anche aspetti negativi di quella civiltà (per esempio, malavita giovanile, delitti a sfondo sessuale, tratti di antisemitismo, solitudine, durezza nella concorrenza del lavoro, culto del denaro, violenza), lo scrittore sviluppa notazioni di grande interesse sull’emigrazione italiana, sulla solidarietà tra immigrati, sulle emozioni prodotte dal paesaggio urbano metropolitano. E, infine, tratteggia un bilancio equilibrato sul fascino di New York e della civiltà che esso rappresenta: “New York è una città senza segreti e senza pietà, che al primo sguardo si rivela per quello che è, caotica e dura sino a sembrare atroce, e tuttavia potentemente umana, e ottimista e disperata come tutto ciò che si ispira e mira alla sola materia, eppure con un anelito a qualcosa di diverso: l’immagine più grandiosa e conturbante della vita dei nostri giorni (…). New York è il nostro secolo”.

 

Tiziana Mian, IL GIORNALE

L’istituto istriano di Trieste ha acquistato la biblioteca dello scrittore. Ci sono molti inediti. Ne pubblichiamo due.

QUARANTOTTI GAMBINI CALDA VITA DI ESULE

 

Un nome dal respiro lungo, sul dodecasillabo del desiderio e del dolore. Pier Antonio Quarantotti Gambini: un respiro lieve e profondo come il suo romanzo più lungo, “La calda vita”. La sua s’arrestò a Venezia il 22 aprile 1965 a quattro giorni da un improvviso attacco cardiaco che lo colpì il 18, giorno di Pasqua. Pier Antonio aveva solo cinquantacinque anni e da dieci aveva scelto le calli dell’ex dominatrice mediterranea ritenendo di trovarvi quell’appartenenza per sempre perduta nel golfo istriano, negli anfratti della sua Pisino natale e dell’antico palazzo Gambini di Capodistria, che prima degli ultimi eventi bellici egli aveva fatto restaurare. Recentemente ha fatto parlare di lui la pubblicazione di un inedito “Neve a Manhattan” (Fazi). Ma la fiera della carta scritta e i guardaciurme della letteratura hanno fatto sì che di uno scrittore come Quarantotti Gambini ci si ricordi a stento anche nella Trieste dove visse, lavorò, fu ricercato dai titini, epurato nel ’45 “per favoritismo fascista” dal successivo governo militare alleato e dove ambientò alcune sue opere. A leggerlo restano ristrette cerchie di “aficionados” in Italia e all’estero, che non nutrono dubbi sulla sua singolarità. In Germania, appunto, dove fece il suo ingresso nel ’42 con “La rosa rossa” (per molti il suo romanzo più riuscito), e in Francia dove fu pubblicato regolarmente da Gallimard: più facile trovare oggi un libro di Gambini in Francia che da noi. Saba, il grande incontro della sua vita dopo lo scrittore inglese Richard Hughes. Da poche settimane Quarantotti Gambini è ritornato ai suoi lidi prediletti: l’Istituto Regionale per la Cultura Istriana di Trieste, di cui è direttore Pietro Delbello, ha acquisito la parte istriana, fiumana e dalmata della biblioteca di famiglia (circa 4.000 titoli). La signora Nike Quarantotti Gambini, sorella di Pier Antonio e oggi sua erede, ha affidato sempre all’Irci anche l’archivio dello scrittore con vari inediti, corrispondenza con Saba, Giotti e Stuparich, edizioni italiane e straniere, oltre all’archivio di casa che comprende un fondo dell’eroe irredento, caduto volontario nel ’15 sul Podgora, Pio Riego Gambini, zio paterno dello scrittore e un carteggio del padre, lo storico Giovanni Quarantotto, tra cui una lettera autografa del Carducci indirizzatagli quand’era studente irredento a Graz ed inneggiante ad un’Università italiana per gli studenti italiani dell’impero austroungarico. A catalogazione conclusa verrà costituito un fondo speciale nella nuova sede di piazza del Ponterosso prospiciente la biblioteca civica di Trieste che Pier Antonio diresse durante la guerra: biblioteca archivio, museo della cultura istriana, fiumana e dalmata saranno messi a disposizione di studiosi e ricercatori. Il materiale verrà presentato domani alla stampa alle ore 11. Aristocratico di razza, discendente da una delle più antiche famiglie nobili di Rovino, di sentimenti patriottici. Pier Antonio, fiero della secolare appartenenza veneta, trascorse l’infanzia e l’adolescenza, fino ai 18 anni, in un piccolo mondo spalancato sull’Adriatico tra il crepuscolo di un Impero e l’aurora d’una fugace stagione italiana. Elegante ed atletico, alto due metri e sei – pareva indistruttibile- occhi azzurri, melanconici e lontani piaceva alle donne e le amava. Scrittore “di transizione” com’egli stesso si definì: qui sta la sua originalità, incominciata con la musica già nei primi racconti del ’32 “I nostri simili”. Romanziere soprattutto dei turbamenti dell’adolescenza lo fu attraverso una scrittura tersa e luminosa bagnata dalle linfe dell’elemento sensuale ed erotico, impatto con l’esistenza che non si può evitare. Edonista nel carpire e gustare la brevità della sensazione, coraggioso nel non amare Svevo “per le goffaggini e le improprietà di linguaggio”, o nel disapprovare Malaparte, narcisista e troppo spavaldo, come ogni scrittore e artista vero ebbe un tic, un’ossessione. Il tema della soglia, del precipizio, del passaggio umano onirico da un’epoca all’altra, da un’età all’altra, il sentimento insomma d’una “frontiera” reale che diventa intima e metaforica attraversano romanzi come “L’onda dell’incrociatore” e “Amor militare”, uno dei romanzi più crudeli che siano stati scritti. Tema che Quarantotti Gambini consumò forse definitivamente ne “La calda vita” in cui il golfo di Trieste è il protagonista e Sergia, Max, Fredi e Guido esistono per quattro giorni e quattro notti attraverso la violenza dei temporali e delle loro passioni trattenute, il crepitare d’un incendio, il tepore dell’isola sulla quale passano una vacanza, il torpore d’inibizioni adolescenziali e l’ardore d’amori maldestri, in un precipitare di gesti sempre più sbagliati rispetto allo scopo. La nudità come l’angoscia s’offre al sole. Trieste, di cui leggendaria è la bellezza delle donne è, con il suo golfo e sue insenature, anch’essa divenuta donna, carne regale, noncurante, offerta al mare, al sale e al sole, mentre il corpo ancora vergine di Sergia, figlia dell’alta borghesia triestina, oscilla all’estremo limite di ciò che “deve inevitabilmente accadere” in questo regno di voluttà marine d’un ultimo giorno d’agosto e dei primi di settembre del ’39, quando le truppe tedesche entrano a Danzica. Mai più Trieste sarà lo sfrenato e leggero teatro di passioni la cui nostalgia ispira Gambini! Né mai più Sergia sarà fanciulla dopo il rivolo di sangue dal quale nascerà donna. “Linea d’ombra” conradiana che lascia la prima giovinezza dietro di sé, la “bolla di sapone” è scoppiata, e con lei sogni e miraggi. Il sangue, sacrificio di nascita e di morte è al centro dei romanzi di Quarantotti Gambini. Sangue di casta, di guerra, d’amore e di vendetta.

 

Rolando Damiani, IL GAZZETTINO
– 02/11/1998

Quarantotti Gambini postumo

E DA MANHATTAN IDEE PER L’EUROPA

 

Nel gennaio 1939, dopo un viaggio burrascoso a bordo della nave Rex, sbarca a New York Pier Antonio Quarantotti Gambini e la sua prima impressione è quella di trovarsi in un paesaggio vago, sotto un “cielo azzurrissimo” percorso da grandi nuvole candide. E’ un inverno nevoso e ghiacciato e per strade e parchi si vedono sci, pattini o addirittura slittini manovrati allegramente da fanciulli. Nella metropoli americana, che si prepara alla World’s Fair di primavera come a una celebrazione dei commerci mondiali, sembra regni un’aria di festa ignara dei disastri imminenti in Europa. Quarantotti Gambini non ha ancora compiuto a quell’epoca ventinove anni, ma si è già messo in luce con un libro di racconti, in parte ospitati dalla rivista “Solaria” per interessamento di Saba e Montale, e il romanzo “La rosa rossa”, edito da Treves nel 1937, dove sono stati delineati i personaggi tipici e gli scenari della sua narrativa, legata alla memoria dell’infanzia e adolescenza vissute in un lembo orientale e perduto dell’Italia, tra Pisino, Semedella e Capodistria. Dopo la laurea in giurisprudenza a Torino, è stato assunto dalla società di navigazione “Italia” che lo ha mandato in missione nel levante e poi negli Stati Uniti. A New York, dove soggiorna agli inizi di un anno che diverrà una data storica, ha soltanto il tempo in dodici giorni di imprimersi nella mente alcune immagini significative, con l’aiuto di un taccuino adibito a diario. Da quei fogli sparsi potrà un giorno nascere un reportage o un documentario in prosa sul nuovo continente, successivo a quelli di Soldati, Borghese e Cecchi, pubblicati nella seconda metà degli anni Trenta. La guerra e forse il repentino mutamento della fisionomia del mondo impedirono a Quarantotti Gambini di realizzare il suo progetto. Lo riprese con lena nell’estate del 1957 a Venezia, quando aveva ormai avviato in una serie di romanzi il cosiddetto “ciclo di Paolo” e raggiunto un certo successo anche internazionale con “L’onda dell’incrociatore”; ma altri impegni e pensieri sviarono presto lo scrittore che finì per relegare il suo scartafaccio in una cartella conservata amorosamente dal fratello Alvise dopo la sua morte, insieme a tante altre cose. L’inedito è finalmente giunto alla stampa per merito di Raffaele Manica, che con cura filologica lo presenta in una bella collana dell’editore Fazi (“Neve a Manhattan”, lire 30.000). Non si può esitare a definirlo un libro essenziale nella bibliografia di Quarantotti Gambini, e anzi introduttivo per molti versi alla sua opera della maturità, precocemente interrotta nel 1965. Nell’eleganza della prosa si avverte l’ascendente esercitato dalla “Ronda” e da “Solaria”, ma l’accuratezza dello stile è sempre finalizzata a una descrizione oggettiva, limpida come la visita di New York in quella gelida stagione. Sui docks in riva all’Atlantico, sui ponti giganteschi che sovrastano l’Hudson, sui grattacieli che “si allungano a piramide e lasciano inondare le vie di luce” si posa lo sguardo di uno smaliziato esteta, capace di separare a colpo d’occhio quasi con la lama di una spada il bello dal brutto. Quarantotti Gambini guarda nudamente, senza alcun preconcetto, le vastità dello scenario newyorkese, che in certi angoli di Manhattan può restringersi sino ad una dimensione un po’ analoga a quella di Venezia, e avverte come il metro di valutazione della sua cultura sia inadeguato a quegli spazi. Con una mossa geniale rovescia il cliché dell’avvenirismo statunitense e vede l’energia vitale di quel paese come l’effetto di una “antica modernità”. Sono gli europei a essere più immaturi storicamente rispetto alla nuova epoca democratica, inaugurata dalla Costituzione federale americana. Una democrazia moderna a pieno titolo sarà resa per loro possibile da un’idea sopranazionale, che riesca a comporre gli Stati Uniti d’Europa. Quarantotti Gambini ragionava così nel 1939, quando ben pochi in patria lo avrebbero ascoltato. Anch’egli, come altri nostri scrittori “impolitici” ma più lungimiranti di qualsiasi politico, era destinato ad essere una voce sprecata. E nel deserto caddero le sue opinioni, quando coraggiosamente le propose nel dopoguerra dalla stazione lagunare “Radio Venezia Giulia”, chiusa nel 1949. La gioia della lettura di questo libro postumo è attenuata proprio dalla considerazione del ritardo con cui ne apprezziamo le idee disseminate nella trama del racconto di viaggio. Con una curiosità inesauribile Quarantotti Gambini si immerge nel magma di New York, voglioso di conoscere tutto: il cinemino e il bordello, Wall Street e il club esclusivo, i ghetti e i ristoranti o ritrovi alla moda. Mai nelle sue osservazioni deflette da una lucida intelligenza, e si potrebbero citare al riguardo innumerevoli esempi. Esamina gli americani con l’attenzione di un naturalista, che non intende moraleggiare, e dunque constata alcune caratteristiche della specie, come la mancanza generale di memoria e di senso critico, la semplificazione del dialogo in “domande e risposte, brevi, scambio di notizie più che impressioni”, il culto da tutti rispettato del “business”. Scrive in un punto splendidamente: “I due poli di una certa umanità, uomo ricco, donna bella, in nessun altro luogo, e probabilmente in nessun’altra epoca, hanno avuto altrettanta forza magnetica di quanta ne hanno qui”. In una pagina ulteriore incastona un breve appunto, che rimane a distanza di anni un presupposto per capire l’America e la civiltà moderna lì attecchita: “Neo – paganesimo, sì; ma non rinascimentale, non mediterraneo. Paganesimo luterano. Aria di paganesimo luterano, non cattolico.

 

Gian Paolo Serino, LA PROVINCIA

PERISCOPIO. Le amare considerazioni di due intellettuali italiani negli Stati Uniti della depressione

Un scintillante incubo chiamato America

Nel racconto di Cecchi e Quarantotti Gambini tutte le contraddizioni di quella società – L’entusiasmo coltivato nei sogni giovanili si spegne al confronto con una realtà dominata da uno spietato materialismo

Nel 1919 l’Europa nell’incubo di un’altra guerra. La Germania di Hitler si appresta ad invadere la Polonia. Il Terzo Reich inizia a perseguitare espressionisti cubisti surrealisti, esponenti dell'”arte degenerata” : artisti, scrittori, intellettuali fuggono dalla Germania e poi dalla Francia. In molti come Dalì , Nabokov, Ernst si rifugiano a New York. Una nazione non ancora del tutto uscita dalla Depressione, conseguenza di quel crollo economico avvenuto sul finire degli Anni venti che condizionò tutto il decennio successivo. Il 1939 è l’anno della ripresa: è il trionfo di quella società delle macchine di cui solo Chaplin, in “Tempi Moderni” (1937) percepì e denunciò i pericoli ma è anche l’anno in cui Steinbeck diede al popolo americano un messaggio di speranza È in questo stesso anno ed in questo scenario che lo scrittore triestino Pier Antonio Gambini sbarca a New York : un breve soggiorno dodici giorni che Gambini ripercorrerà nella memoria e sulla carta parecchi anni dopo. E infatti il 1957 quando Quarantotti Gambini, ispirato dai racconti di Dos Passos e di Hemingway sullo splendore di Venezia innevata decide di riordinare i propri appunti fino a farne un vero e proprio diario di viaggio da fermo . Un diario rimasto inedito sino ad oggi ed ora proposto con il titolo “Neve a Manhattan” è, come sottolinea Raffaele Manica nell’introduzione un luogo diario che sul modello inaugurato nel 1935 da Mario Soldati con “America primo amore”, è insieme un libro di viaggio e romanzo in presa diretta. Se per Soldati l’America è un sogno giovanile pensato e vissuto quando “la speranza si chiamava ancora America” per Quarantotti Gambini è invece un entusiasmo che, col, tempo si spegne: la “sua” America è infatti più vicina a quella descritta da Emilio Cecchi in “America Amara” nello stesso 1939 e da poco ripubblicata all’interno del volume monografico “Saggi e Viaggi” di E. Cecchi (Mondatori, 10972 pagine, 82.000 lire). Per Quarantotti Gambini New York riassume più di ogni altra città l’idea di Novecento: “Parigi nella sua grazia è ancora Settecento : Londra nel suo imbruttimento vittoriano nella sua chiusura agiata che lascia tuttavia scampo alla fantasia è Ottocentesca; New York è il nostro secolo”, la New York di “Neve a Manhattan” è una città indubbiamente vista dall’ottima incontaminata dell’artista di chi si interroga sulla vita che pulsa dietro le facciate di palazzi tutti uguali: “Si discorre? Si ascolta la radio? Una famiglia è riunita intorno a una lampada? Qualche altra una lavandaia una stiratrice sta ancora lavorando? E vi è un giovane buttato vestito sul letto che la maledice la vita?”. Quarantotti Gambini compie d’istinto ciò che Cecchi aveva capito con l’esperienza: l’unico modo di salvarsi nel “vuoto assoluto, nella pazzia di un paese spettrale di cui si sente l’odore macabro” era di essere un artista uno che crede nelle apparenze e le descrive: perché solo in quel modo si riesce a cogliere il “dentro” nascosto dietro “vetrine” indicibilmente tristi e disastrose. Una New York dall’aspetto apparentemente candido, luminoso che ha accolto Quarantotti Gambini con fiocchi di neve: la stessa neve che, col passare dei giorni sciolta dal sole, diviene fango e metafora. Metafora di un popolo, quello americano che è “realistico, risoluto intrepido ma che non da alcuna valutazione all’intelligenza , all’educazione, alla cultura.”. un popolo che come unico termine di paragone ha il make business, la capacità di fare affari: “L’uomo vale esclusivamente per quanto ha o per quanto guadagna”. Gambini descrive infatti gli Stati Uniti non come una repubblica ma come una “monarchia assoluta, mitigata dalle sbornie” il cui sovrano assoluto è il dollaro. Descrive New York come una città fondamentale senza segreti, senza pietà caotica e dura sino a sembrare atroce e tuttavia potentemente umana, ottimistica e disperata. Una visione che Cecchi aveva sintetizzato descrivendo il grattacielo, simbolo dell’America che produce: “Il campanile senza campanile di una religione materialista senza Dio”. Per Cecchi gli Americani sono mossi da quella che ironicamente, chiama “volontà di credere” di credere solo a ciò che fa comodo per evitarsi il disturbo di pensare e di affrontare il confronto con il vero. Quarantotti Gambini coglie invece soprattutto l’assenza di conversazione degli americani: i loro dialoghi si limitano a cose concrete, a scambi, di informazioni più che di impressioni. In questo scenario talmente umano da diventare disumano le impressioni dello scrittore diventano l’occasione per un confronto con l’Europa. Come nel capitolo in cui si concentra sullo sguardo dell’americano: uno sguardo che non va oltre le cose che vede, piuttosto povero senza riflessi interiori, vivo d’una vita limitata. Mentre nello sguardo dell’europeo c’è il “baleno della vita individuale” o “c’è perlomeno il segno di una intelligenza superiore alla cosa di cui si occupa”.

 

Luciano Santin, MESSAGGERO VENETO

Le impressioni di viaggio di Pier Antonio Quarantotti Gambini

L’America scoperta

Bellezze, stranezze e delusioni del mondo nuovo

Nell’inverno del 1939 il ventinovenne Pier Antonio Quarantotti Gambini per incarico dell’Italia di navigazione compie un breve viaggio nell’america del Nord. Dodici giorni appena: new York più due rapide puntate a Filadelfia e Boston; ma allo scrittore bastano per un libro. Libro che vede la luce soltanto oggi per i tipi di Fazi: gli appunti di quel viaggio alla vigilia della guerra, Quarantotti Gambini li riprese in mano molto tempo dopo, nel 1957 e ne iniziò la revisione ma non ebbe il tempo di completarla. La stesura provvisoria di ‘Neve a Manhattan’ però, è già un’opera compiuta a cominciare dal titolo che evoca certi film in bianco e nero dalla luce chiara e dalle inquadrature nitide precisi e accurati nell’impianto, non scarni ma privi di fronzoli inutili. Si tratta in effetti di un’opera in qualche modo cinematografica. Certe pagine sembrano appunti per una sceneggiatura che l’autore però consiglia di leggere “non a sbalzi ma tutti di seguito come un racconto”. Ne consegue una soggettiva lunghissima (l’impressione è quella di un soggiorno lungo non di una semplice pausa tra Rex e Vulcania) che ci fa vedere con gli occhi dell’autore dettagli significativi, ci fa incontrare testimoni ascoltare dialoghi. Quarantotti Gambini con onestà intellettuale prima di azzardare riflessioni e giudizi dà belle descrizioni. Coglie e restituisce con immediatezza dettagli significativi del vivere americano così lontano – specie in quegli anni – dalla quotidianità italiana. Flash brevissimi intarsiati con rapidi dialoghi didascalici secondo una collaudata efficacissima tecnica da reportage. È ancora l’America dell’apartheid abissale: i linciaggi le evirazioni ma l’antica ascendenza coloured che basta a far estromettere dalle scuole alunni dalla pelle bianca ( e addirittura per tracce nel logore della carne sotto le unghie un principe spagnolo da un vagone per bianchi!). Ma è anche l’America di un insospettabile antisemitismo tale da far prosperare gli affari sulle navi italiane, dove per legge gli ebrei non sono ammessi. Un paese dove la disinvoltura dei costumi femminili ha cancellato la figura della fanciulla sostituendo quella di una ragazza che può essere contemporaneamente, figlia di famiglia in attesa di un buon partito e squillo part-time, senza che venga avvertito un confine tra le due figure. Ma anche un paese dove l’ipocrisia è forse più sottile che non in Europa è più forte la repressione sessuale almeno per i maschi senza disponibilità economiche. Quarantotti Gambini spia gli yankees nel loro agire nel loro modo di camminare e di danzare (quasi un piccolo, delizioso saggio, il confronto tra balli e ballerini bianchi e neri) per cercare di penetrare bene l’americanità . Legge subito la spietatezza del lavoro, la sottesa, contenuta violenza dei rapporti che “morde il freno” del chewing gum e che genera una “libidine dentale” di cui è parte l’obbligatorio sorriso (che forse altro non è se non l’uso animale di scoprire le zanne in segno di minaccioso avvertimento). È forse questa luce cruda a conferire un che d’algido alla narrazione. Risonanze effettive vibrano solo qualche istante, nel ricordo della “patria Europea” che si crea per reazione. O anche nella contemplazione di qualche figura vividamente schizzata, sotto la quale si nasconde un’umanità soffocata o dolente. Forse l’occhio freddo e il descrittivismo di Quarantotti Gambini nascono anche da una preoccupazione che lontana alla fine degli Anni ’30 non poteva più essere elusa vent’anni dopo: la consapevolezza che la modernità già antica dell’America stesse per diventare parte importante, sembra più importante anzi del costume e della cultura europea.

 

Augias Corrado, IL VENERDÌ DI REPUBBLICA

Viaggi

Il sogno americano

 

L’editore Fazi recupera un bellissimo resoconto di viaggio di Pier Antonio Quarantotti Gambini: “Neve a Manhattan” (a cura di Raffaele Manica). Pochi ricordano questo scrittore istriano al quale dobbiamo un piccolo capolavoro L’onda dell’incrociatore. Queste note di viaggio, che diventano narrazione e quasi romanzo a mano a mano che il racconto procede, vennero scritte al ritorno da un breve soggiorno negli Stati Uniti (gennaio 1939), anzi: “sfuggevole contatto con l’angolo New York-Philadelphia-Boston”. Oggi sappiamo sull’America molte più cose di allora . Eppure stupisce la perspicuità di certe annotazioni, l’avere lo scrittore saputo rivestire quel po’ ‘America dei suoi sogni e delle sue ansie.

 

IL FOGLIO
– 03/12/1998

 

Pier Antonio Quarantotti Gambini “Neve a Manhattan” 197 pp. Fazi, Lire 30000

 

Nel gennaio del 1939, mandatovi dalla società per la quale lavorava, il giovane scrittore triestino Pier Antonio Quarantotti Gambini arriva a New York via mare. Vi rimarrà per dodici giorni, passando anche rapidamente per Filadelfia (“Case annerite, odore di carbone, aria di carbone”) e per Boston (“Una città con le mascelle serrate e gli occhiali di tartaruga, quasi germanica”). Con inusuale modestia, il romanziere ci invita a leggere il suo libro come una semplice raccolta di annotazioni e ricordi, “non contestazioni o meditazioni mature in un sogno”. Tutt’altro dunque di quanto accadde dieci anni prima, nel 1929, al coetaneo Mario Soldati, che da un soggiorno di due anni nella Grande Mela ricavò un libro, “America primo amore” (oggi edito da Mondadori), divenuto oggetto di culto. In realtà “Neve a Manhattan”, nella sua lunga e stratifica gestazione, rivela quanta amorevole cura e quale posto privilegiato tra le sue opere le attribuisca il suo autore. Agli appunti presi subito dopo il ritorno dagli Stati UNiti se ne aggiungono altri a dodici di distanza; nel 1957 Quarantotti Gambini rivede il libro, ma solo nel 1965 lo ritiene pronto per le stampe. nello stesso anno però l’autore muore improvvisamente e il manoscritto rimane fra le sue carte. Ciò che più colpisce leggendolo ora per la prima volta è che da una così lunga rielaborazione la franchezza delle cose viste e delle persone incontrate conservi intatto e ammirevole l’effetto di “prime impressioni”. E’ un effetto dovuto non tanto a “una raggiunta o riconquistata ingenuità”, come afferma il curatore Raffaele Manica nell’introduzione al libro, ma da una curiosità attenta e da una voglia di conoscere mai disgiunte dal punto di vista del viaggiatore: un europeo, più specificamente un italiano sotto il fascismo, che scopre senza facili entusiasmi un mondo (per lui) nuovo, affascinante per certi aspetti e ripugnante per altri. Manhattan è dunque il migliore osservatorio, cuore dell’opera (come segnala il titolo), ma anche il “cuore che sfuiora il cielo” di New York, capitale del mondo. Stupisce ed è l’altra notevole qualità dello scritto di Quarantotti gambini, la quantità di informazioni che ci riesce a dare attraverso uno stile in cui suoni, odori, tatto si alleano allo sguardo senza finire in un prevedibile sensualismo alla Giovani Comisso. A Manhattan, il romanziere scopre il più grande e confortevole cine-teatro del mondo, ma anche il turbamento che provoca l’assenza di scale negli alberghi, votati all’impiego costante degli ascensori. Percorrere le strade della metropoli è “come fare provvista di gioia di vivere” e però cosa dire del tabù della morte, che arriva a inventare imprese funebri perché i cadaveri, imbellettati, non disturbino i vivi con il loro aspetto?” Le donne possono “guardare un uomo con allegria, con confidenza, con cordialità e anche con affetto”, ma la passionalità quasi sempre è esclusa. Lo stesso accade nel ballo: i giovani americani “quando ballano, ballano”, non conversano né abbracciano le loro metà. E poi il sesso, come la morte, è qualcosa che va al più presto rimosso. Ciò che conta davvero è il fare, che si identifica sempre e comunque nell’intraprendere (Wall Street è “il quartiere dei grandi affari; qualcosa che sa di nuovo”) e nell’edificare (come ogni neofita di New York, lo scrittore rimase impressionato dai grattacieli). La salita su uno tra quelli che sono considerati i simboli della città, l’Empire State Building, si trasforma così, inevitabilmente nell’epifania del viaggio di Quarantotti Gambini: “Le mani ferme sul metallo, chiudo gli occhi, e resto per qualche istante così, ritto, quasi barcollante, per godere meglio l’esaltazione e l’angoscia”.

 

Enzo Siciliano, L’ESPRESSO
– 04/09/1998

 

Un italiano a New York

 

Introducendo a un bell’inedito di Pier Antonio Quarantotti Gambini, Raffaele Manica scrive cose assai interessanti sul contributo degli scrittori italiani a quel genere in bilico fra letteratura e giornalismo che è il reportage. Quarantotti Gambini (colpevolmente dimenticato oggi) andò a New York per mare nel 1939. Il soggiorno fu breve, con puntate a Filadelfia e a Boston, e il narratore de “L’onda dell’incrociatore” ne scrisse per sé. Pagine splendide sulla domenica newyorchese, e su una serata in un esclusivo club di Filadeflia i cui iscritti, se chiedono discriminazioni razziali di fascisti e nazisti in gran parte d’Europa, si rivelano altrettanto discriminatori: “Qui da noi non possono entrare ebrei, neppure invitati dai soci…”. Quarantotti Gambini scrive con trasparenza e plasticità esemplari. Ne raccomando la lettura agli autori del “Diario” di Enrico Deaglio, attenti a modellare su esempi simili le loro inchieste. Tornando all’introduzione di Manica, la sua distinzione tra gli scrittori alla Moravia, che considerano il viaggio conoscenza dell’oggetto o di una diversità etnica, paesaggistica che vuole rimanere oggetto, vive per tanto che può essere verificata in Quarantotti Gambini, il quale, incrociando le due esperienze ne fa salvo il carattere che le accomuna: il viaggio è esperienza esistenziale, e sedimento d’essa. Il libro di Quarantotti Gambini, dice Manica, è, come “America primo amore”, e il presente indicativo che lo governa è storico, il presente di una “recherche”.

 

Sergio Pent, TUTTOLIBRI
– 03/12/1998

 

Sull’onda lunga di Quarantotti Gambini

Un viaggio in America per riscoprire lo scrittore

Il cielo di Manhattan è il cielo più profondo che possa esistere sopra una città…”. L’ispirazione del viaggiatore-poeta toccava punti d’osservazione unici, quando l’idea del viaggio era ancora un gioco intellettuale di scoperte e, nei casi più fortunati, memoria tramandata a posteri. Attrae e un pò commuove, questa manciata di appunti dati alle stampe quando già l’autore è diventato una citazione nelle antologie, un punto fermo della “combriccola” triestina, purtroppo uno dei meno letti e ristampati. Nel 1939 Qurantotti Gambini è un giovane e già affermato autore di racconti -”Inostri simili”- e del delizioso romanzo “La rosa rossa”, che più di molti altri delinea, con tocchi di assoluta poesia, il trapasso di un’epoca mitica, quella del grande impero asburgico, che reca con sé una processione infinita di ricordi e di suggestioni. Il mese di gennaio di quell’anno vede lo scrittore di passaggio a NewYork – dodici frettolosi giorni tra una traversata e l’altra dell’Atlantico – e questo diario, riconduce ai tempi dei viaggiatore da riporto, quelli in grado di fiutare luoghi, fatti e persone e ricrearne la visione agli occhi dei lettori stanziali. l’America di Soldati, Cecchi, Piovene, Borgese, i viaggi “letterari” di Comisso, Moravia, Parise, sono ancora oggi riferimenti assoluti, a cavallo tra la nostalgia e una documentazione che, da cronaca, si è tramutata in succoso piatto di portata per le antologie. Così questo flash sull’America pre-bellica si affianca – più leggermente, senza intenti di “studio” alla Russia visitata e descritta nell’ampio reportage narrativo del ‘63 “Sotto il cielo di Russia” e ad altre testimonianze geografico-letterarie che fanno dell’autore istriano un attento osservatore del proprio tempo e delle transumanze epocali più importanti, come nel memoriale, luminoso libro di ricordi “Primavera a Trieste”. L’italiano con la testa all’insù a sbigottire misurando i grattacieli non sa ancora che il suo Paese sta per piombare nelle tenebre della guerra: il fascismo – anche tra le vie quadrate di Manhattan – è un riferimento politico preciso e conosciuto dagli emigrati, un modo di vivere e governare remoto perché lontano. Ma qui prevale l’italiano che gode della diversità di un mondo giovane e già avanti nel futuro, in cui le dimensioni sono il punto di arrivo di frenetiche competizioni legate al denaro e al successo. La sensazione di una fretta perpetua, la volontà di capire là dove c’è solo la vittoria momentanea da capire: tutto ciò colpisce il giovane intellettuale in scivolata sui ghiacci di un gennaio nevoso, tra le vetrate dei giganti che in pochi anni hanno in,vaso i cieli della città. Così il visitatore si sofferma sui dettagli che più gli servono a rendere l’idea di un mondo nuovo, cercando punti di confronto tra donne europee e disinibite fanciulle a stelle e strisce, emigranti arricchiti e italiche povertà da età della pietra, misurando il tempo sulla lentezza dei ritmi italiani rapportata a questa frenesia di cambiamento che è l’unico motore trainante del Paese. A noi sono piaciute di più queste osservazioni minime – gli scorsi di paesaggio urbano, le figure anonime colte al volo, la Manhattan deserta della domenica mattina – che non il confronto “sociale” in cui incappa l’autore talvolta nei suoi dialoghi con gli italiani d’importazione. Su tutto aleggia, comunque una personalità inquieta, in grado di cogliere la poesia dell’uomo nel caos creato dall’umanità, e di sottolineare gli aspetti più attuali – taluni forse ancora oggi – di una diversità dettate dalle differenti, antitetiche motivazioni di vita di due continenti, Eyropa e America. Laggiù la conservazione attenta e materna delle tradizioni, qui, tra i giganti di vetro e d’acciaio, la volontà di crescere in fretta per accumulare qualche briciola di passato. E se usciamo con animo ingraziosito da questo mannello di ricordi che ci riconducono all’epoca dei turisti con gli occhi aperti alla conoscenza, vorremmo cogliere – d’altro canto – l’occasione per promuovere una rivalutazione – anche editoriale – del Quarantotti Gambini narratore. “L’italiano sbagliato” – come si definiva – a metà tra tradizione mitteleuropea e adorazioni fasulle da parte di un’Italia frammentata, vissuto e cresciuto nel perenne conflitto etnico dell’Istria, che fu sua infanzia e costante memoria letteraria. Chissà che qualcuno non si accorga, finalmente che un romanzo come “L’onda dell’incrociatore”, pur vincitore del premio Bagutta 1948, rappresenta al meglio il trapasso dall’età adolescente alle dolorose consapevolezze adulte. Le figure di Berto, Ario e Lidia sono ricche di animalesca istintività, nella luce di una Trieste solare e nostalgica in cui le scie degli incrociatori lasciavano onde per noi tuttora, spumose come la poesia di quegli anni giovani. E poi, sarebbe l’ora d’affermare ad alta voce che il ciclo incompiuto di romanzi riuniti col titolo “Gli anni ciechi”, rappresenta davvero la timida risposta italiana alla Recherche di Proust. Quello che – nelle intenzioni troncate dalla prematura morte dell’autore nel 1955 – doveva risultare l’affresco di un’epoca – l3istria negli anni della Grande Guerra – è tuttora un paesaggio narrativo di per sé compiuto, in cui la scoperta del mondo da parte del piccolo Paolo Brionesi va di pari passo con lo scenario di transizione del conflitto italo-austriaco, nel passaggio di consegne della Storia che relega l’infanzia del protagonista e della sua Semedella – il borgo presso Capodistria divenuto poi parte della Jugoslavia di Tito – nell’archivio del passato. Così come sarebbe tutto da discutere – e da rivalutare – l’ambizioso romanzo “La calda vita”, che dell’Istria a poche spanne dal secondo conflitto bellico offre un altro affettuoso ritratto, nell’arco delle poche giornate vissute in vancanza dai giovanissimi Max, Fredi e Sergia, presto separati dalla guerra e dagli eventi. Anche qui – nonostante gli intenti talora didascalici – siamo di fronte ad un valico di confine generazionale – i personaggi giovani di Quarantotti Gambini meriterebbero un discorso critico a parte per analizzarne le frentiche psicologie – tanto importante quanto costruito con la sapiente arte di narrare – negli sviluppi di una vicenda privata e comunque trascendente – il respiro assoluto di anni tormentati ma anche giocosi che, raggruppati dal tempo, sono ormai la nostra storia. Accanto a Saba – che fu fino all’ultimo nume tutelare del più giovane conterraneo – un pò oltre Svevo e comunque prima delle dolenze etniche di Tomizza, c’è questo scrittore elegante e attento ai ritmi della vita e alle contraddizioni del suo tempo: “al sole e al vento” – per citare i versi postumi – di una terra dalle incerte bandiere, di cui egli colse le pulsioni più gioiose e in cui – confessava onestamente – “ignaro crebbi delle velenose tensioni che dispersi un dì ci avrebbero nel mondo”.

 

Antonio Debenedetti, CORRIERE DELLA SERA
– 02/04/1998

 

Quarantotti Gambini, un’avventura a New York

 

In una mattina del gennaio 1939, il ventinovenne Pier Antonio Quarantotti Gambini sbarca dal “Rex”, dopo la tempestosa traversata di un oceano Atlantico “scatenato in valanghe d’onde”. Ad ottenerlo traova New York prima sepolta dalla neve e poi illuminata dal sole “con quello splendore che porta la natura piombando improvvisa e netta fra i grattacieli”. Le sue impressioni di viaggiatore, restituiteci oggi dalle pagine di “Neve a Manhattan” (Fazi editore, pagine 197, lire 30.000) hanno l’incanto (ma avolte può anche mutarsi in leggero fastidio) che trasmette un guardare il mondo con l’ottica incontaminata de letterato, dell’artista. A quest’ottica appartengono le rapide descrizioni dei cieli newyorkesi, delle scritte luminose, ma anche il malcelato stupore per la disinvoltura delle donne americane. “Neve a MAnhatan”, rimasto per decenni alla stato di dattiloscritto e “stampato adesso per la prima volta” a molti anni dalla morte del suo autore (avvenuta nel 1965), ha oltretutto l’interesse straordinario documento culturale. Il documento d’un gusto maturato nei primi anni Trenta e con il clima d’una rivista come Solaria, cui il futuro autore dell’Onda dell’Incrociatore agidò i suoi racconti d’esordio spinto da Saba, poi da MOntale e subito accolto con grande simpatia da Alessandro Bonsanti. Il soggiorno americano di Quarantotti Gambini dura dodici giorni, quanti bastano a un “fuggevole contatto con l’angolo New York-Fialdelfia-Boston” Dai trasalimenti, dalle emozioni riportate in quel correre di ore sono nate queste pagine postume che Raffaele Manica, nell’illuminante introduzione definisce non a torto “un romanzo in presa diretta” e avvicina in qualche modo a America primo amore di Soldati.

Neve a Manhattan - RASSEGNA STAMPA

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