Kevin Wilson: «Cerco di proteggere mio figlio dall’ansia che gli ho trasmesso»

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Kevin Wilson

Kevin Wilson, autore di Piccolo mondo perfetto e di La famiglia Fang, si è raccontato in un articolo su Buzzfeed: «Ho combattuto per tutta la vita contro i “brutti pensieri” – e anche se non posso impedire a mio figlio di averne, posso insegnargli a vivere pienamente».

 

Quando Griff, mio figlio più grande, aveva tre anni e mezzo, non mangiava se non ci si atteneva a parametri molto rigidi. Per il suo terzo compleanno aveva ricevuto un biglietto di auguri sonoro, un criceto che vibrava cantando Kung Fu Fighting, e Griff faceva suonare questo biglietto, di continuo, mentre mangiava. Non appena la canzone finiva, e quella stramba vibrazione dal ritmo accelerato del biglietto del roditore andava spegnendosi, lui contemplava il cibo con un’espressione impaurita e faceva ricominciare la canzone. Talvolta, quando mangio, sento riecheggiare quella canzone nel cervello.

C’erano volte in cui tutto questo non bastava. Piangeva, singhiozzando, rifiutandosi di mangiare. Mia moglie e io stavamo ancora imparando a prenderci cura di un bambino. Il nostro pediatra ci aveva detto che Griff non mangiava abbastanza; ci sentimmo giudicati come solo ai neogenitori capita di sentirsi. Implorammo Griff di mangiare. Rifiutò. Una sera, dopo quasi venti minuti di nevrosi che montava costante in tutti noi, una specie di torpore rumoroso mi schiacciò. I miei tic – ruotare la testa e grugnire sommessamente – cominciarono a manifestarsi. Guardai mio figlio, che era bellissimo, che stava piangendo, che non stava facendo ciò che gli era necessario per rimanere in vita. «Non ci riesco», gridò. «Ho brutti pensieri».

«Quali sono i brutti pensieri», chiese mia moglie, come aveva fatto diverse volte in precedenza.

«Non posso dirvelo», rispose.

«Diccelo», replicai. «Dicci solo cos’è. Andrà bene».

«No», urlò Griff.

Il nostro tavolo era molto piccolo. Bastava un minimo movimento e avremmo potuto sporgerci e toccarci l’un l’altro. Pensai a mio figlio. Pensai alla mia infanzia. Dai sei ai dodici anni non riuscivo a cenare senza leggere i fumetti di Archie. I miei genitori portavano il Double Digest of Archie al ristorante o a casa di altra gente. Se non leggevo i fumetti, mi venivano brutti pensieri. Avevo un brutto pensiero ricorrente, che mi sopraffaceva ed era del tutto ridicolo ma mi impediva di mangiare, mi dava la nausea.

Guardai mio figlio.

«Ci puoi dire qual è il brutto pensiero?», gli chiesi.

«No», rispose, era molto stanco.

«Se lo indovino, me lo dici?», gli chiesi alla fine.

Ci pensò su. «Va bene».

«È un alieno ed è ricoperto di, diciamo, qualcosa di viscido?».

Griff mi guardò, la coscienza che gli traballava. Mi guardò come se al tempo stesso mi conoscesse e non mi conoscesse.

«Sì».

«È quello?», chiesi.

Annuì.

«Quello era anche il mio brutto pensiero».

«Non voglio mangiare», disse e, quella sera, mia moglie disse: «Non sei obbligato a mangiare».

Non so se quello fosse per davvero il suo brutto pensiero. So quanto potrebbe essere stato facile per lui assentire a qualunque cosa dicessi pur di levarsi d’impaccio e passare a qualcos’altro, qualunque cosa fosse, in modo da evitare le domande, perché odiava quando gli facevamo domande. Ma penso che fosse proprio il suo brutto pensiero. E lo penso perché era il mio brutto pensiero, quasi trent’anni prima che lui nascesse.

Quella notte, dopo che Griff si era addormentato, ho pensato a un altro brutto pensiero. Ecco di cosa si trattava. Avevo vissuto una vita nella quale a volte per me era quasi impossibile esistere nel mondo reale. Ero terrorizzato da così tante cose che a volte ero paralizzato all’interno della mia mente. Pensai a mio figlio, questa splendida persona che avevo contribuito a creare. Pensai a quell’alieno, ricoperto di melma. Avevo impresso quell’immagine così a fondo nel mio cervello che l’avevo passata a mio figlio. L’avevo spaventato. E pensai alle cose nel mio cervello ben peggiori dell’alieno ricoperto di melma. Mi domandai se anche Griff le conservasse, aspettando solo di renderle manifeste. Era mio figlio e lo amavo, ma era difficile non pensare a lui anche come a qualcosa di più di mio figlio. Era difficile non pensare a lui come un altro me. E questo mi spaventava.

In questo stesso periodo Griff cominciò a sviluppare tic tutte le volte che guardava la televisione o osservava da vicino le figure dei libri. Batteva le palpebre velocemente, la sua testa si inclinava da un lato e continuava per minuti. Non sembrava accorgersene, non se ne faceva un cruccio. Ma non riuscivo a smettere di guardarlo. Da adulto mi è stata diagnosticata la sindrome di Tourette, e i suoi tic somigliavano molto ai miei spasmodici movimenti della testa. Mentre guardava un programma alla tv, mia moglie lo teneva in grembo, io presi la telecamera e lo filmai mentre era in preda a questi tic. Mandammo il video al pediatra, che disse che sembrava sindrome di Tourette, ma che era difficile da stabilire con certezza. Guardai il video sul mio pc e provai una tristezza rabbiosa, struggente; mi sgorgava dal petto. Non riuscii ad arrivare alla fine; cancellai il video. «Questa è colpa mia», dissi a mia moglie, che mi rispose che era ben più complicato di così. «Mi sembra che stia prendendo solo le mie parti peggiori», le dissi e lei rispose che non era vero. Non portammo Griff da uno specialista. Non volevo farci i conti. Dopo due o tre mesi i tic smisero. «Visto?», disse mia moglie. «È bellissimo. Sta benone». Sapevo che sarebbero tornati, ovviamente l’avrebbero fatto. Li avevo avuti io, lo stesso sarebbe valso per lui.

Griff è proprio come ero io alla sua età. I miei genitori hanno una foto di quando avevo tre anni, era Halloween, e indossavo un costume di Boba Fett. Ce l’avevano sul frigo proprio a fianco di una foto di Griff a tre anni con indosso il suo costume di Boba Fett. È davvero difficile capire che si tratta di due bambini diversi. O forse gli altri riescono a vedere la differenza. Io no.

Qualche anno prima che nascesse Griff ebbi un esaurimento nervoso. Il mio corpo si bloccava, rigido, ed emettevo questi strani urli soffocati. Mia moglie mi passava le mani sui capelli mentre urlavo, incapace di muoversi. Talvolta doveva chiamare i miei genitori e loro guidavano fin da noi e tutti insieme vegliavano su di me, non sapendo bene cosa fare. Presi aspettativa al lavoro e mi allontanai dal Tennessee per andare al McLean Hospital a Belmont, nel Massachusetts, per capire che cosa stesse succedendo. Andai in terapia, cambiai medicinali, sedetti in stanze con persone molto più giovani di me, con problemi ben più gravi e provai a capire come sarei mai riuscito a tornare alla vita che mi ero creato. Mia moglie e io eravamo sposati solo da un anno. Immaginai un futuro nel quale non mi alzavo mai dal letto in cui mia moglie mi vegliava, la sua vita rovinata. Immaginai di schiantarmi in macchina contro un albero, tagliarmi più volte con un coltello, nuotare in un lago finché non sarei stato troppo stanco per continuare, finché non sarei scomparso sotto la superficie. Ho pensato a cose molto, molto peggiori – cose che non direi mai ad alta voce – anche quando non volevo. Tornai a Sewanee, non guarito, ma più in forma. Tornai al lavoro. Mia moglie e io portavamo i cani nei boschi, era così bello il mondo che ci circondava. Lei voleva dei bambini. Ne avevamo parlato prima del mio esaurimento nervoso. Non mi sentivo in grado di prendermi cura di un bambino. Passò un anno. Le medicine avevano normalizzato la mia vita, sebbene avessi ancora degli accessi, e i miei tic fossero numerosi. Mia moglie aveva dieci anni più di me. Dovevamo decidere se avere figli. Dissi di sì. Provai a immaginare nostro figlio. Non ci riuscii. Non era un pensiero bello o brutto. Era una pagina bianca e non riuscivo a capire cosa significasse.

Ho sempre dovuto lottare con pensieri indesiderati, con cose orribili che mi arrivano come lampi di luce, e la loro forza mi fa indietreggiare. Quando mi arriva un brutto pensiero devo scuotere la testa, un rapido colpo di lato, al che mia moglie mi chiede cosa c’è che non va, anche se già lo sa. «Un brutto pensiero», le dico. Sono più i brutti pensieri di quelli belli. La mia vita è stata relativamente facile. I miei genitori e mia sorella mi hanno sempre amato e si sono presi cura di me. Mia moglie mi ama e con lei sono più felice che mai. I miei figli sono bellissimi, amorevoli e dolci. A parte le difficoltà con la malattia mentale, ho ricevuto gran parte di ciò che avevo sognato. Tuttavia ci sono i brutti pensieri. E non se ne andranno.

Adesso Griff ha otto anni. Ha tantissimi amici. Va bene a scuola. È gentile con gli altri. In un certo senso è questo che ci differenzia. Si avvicina con sicurezza agli estranei e si presenta, stringe loro la mano, il che mi terrorizza, non sapere come lo tratteranno, cosa diranno. Giusto l’altra sera, l’amico di Griff, William, era a casa nostra e quando stava per andarsene, Griff lo ha abbracciato e ha detto: «William ti voglio un sacco di bene», e mi sono domandato come riesca un bambino che combatte contro la tristezza a essere così aperto verso il mondo. Mi rende felice.

E Griff è felice. Ma combatte con i brutti pensieri. Dice, spesso, di essere stupido. Si colpisce in faccia e sulla testa quando lo dice, dopodiché rimane sdraiato a pancia in giù sul pavimento. Di notte, ci fa venire in camera sua almeno tre volte, per dirci che ha avuto un brutto pensiero. Se gli chiediamo qual era risponde di non potercelo dire.

Quest’anno ci siamo visti con i suoi insegnanti di terza elementare per il primo incontro genitori-insegnanti. Griff stava andando molto bene e dicevano che si comportava a modo. «Ma è il nostro ansioso», disse l’insegnante. E l’insegnante di inglese annuì. «Lo è, lo è», aggiunse. Mia moglie aveva menzionato quanto spesso Griff si desse dello stupido o della cattiva persona. Ci dissero che spesso lo diceva anche a scuola. Spiegammo quanto lo lodassimo, e che provavamo a mostrargli tutte le volte in cui otteneva dei successi, ma non sembrava darci credito. «A volte», disse mia moglie, «ho l’impressione che lo dica solo per ricevere attenzioni da noi, per essere rassicurato». L’insegnante annuì. «So di bambini che lo farebbero», disse, e sentii il mio corpo rilassarsi, una tregua temporanea dalla mia ansia. Poi continuò: «Ma credo che Griff lo pensi davvero». Cominciai a piangere, una devastante stretta al petto. Sapevo quale grado di certezza ci fosse, e l’avevo tenuta nel mio cuore.

Quella notte mi sedetti sul letto assieme a Griff e leggemmo un libro, e dissi che gli volevo bene. Rispose che mi voleva bene anche lui. Rimanemmo sdraiati entrambi sul letto, ognuno aveva in testa qualcosa che l’altro non sapeva. Avrei voluto sapere cosa pensava, sapere esattamente cos’era, in modo tale da poter dire: «È il mio stesso pensiero, proprio la stessa cosa, tesoro». E non si sarebbe sentito da solo. E avrebbe visto che ce l’avevo fatta, che ero riuscito a costruirmi una bella vita e che qualunque cosa ci fosse nella sua testa non gli avrebbe impedito di ottenere le cose che desiderava.

Ma non so cosa gli passi per la testa. Non importa quanto avrei voluto che fosse vero, ma non siamo la stessa persona. Voglio bene a lui e suo fratello più di qualsiasi altra cosa al mondo, ma ci sono dei limiti a quello che posso fare per rendere la loro vita felice. Avevo brutti pensieri. Anche Griff li ha. Dopo la lettura, ho accompagnato Griff in camera sua, gli ho rimboccato le coperte e ho spento la luce. Sono tornato in camera mia, mia moglie cantava una canzone al nostro figlio più piccolo, Patch, e ho aspettato che Griff mi chiamasse, un brutto pensiero nella sua testa, e io sarei sempre tornato da lui, sempre, per stargli accanto, per tutto il tempo di cui avesse avuto bisogno di me.

 

Kevin Wilson

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